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Sensualità di Mina Archini

Pubblicato: 20/02/2011 in poesia
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Sensualità

di Mina Archini


Andare dietro alla voglia d’un fiore,

che si spoglia

al declinar del sole

e all’alba satollo

si ricopre,

è vibrar fare i sensi,

lembi di pesca a terra,

pelle di magnolia,

acre è l’odore d’umori,

mischiume di selve,

deliri sgorgati

che nella conca riversano,

inverecondo

è l’aggrapparsi del ramo

che trasuda linfa,

dopo aver lacerato

del petalo il tenerume

con sapienza dischiuso,

è lingua golosa

è l’unica foglia

che ivi si posa,

animando piaceri,

uggiolii di passione

finché grazia è concessa.

da Raccolti nella penombra
di Mina Archini

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IGNAZIO E LA PENOMBRA


«La penombra mi affascina – stava dicendo Ignazio all’amico Mario – mi dà una calma interiore, una rivincita dopo una giornata di lavoro.»

«Veramente è mezzanotte e stai ancora schiattando… Sono due ore che giro intorno per il paese e tu…».

Una sgasata di moto e Mario s’allontanò, l’altro gli aveva fatto cenno di avere un altro attimo di pazienza. Quella era l’ultima pausa che si prendeva, uscendo all’aperto per fumare una sigaretta.

D’altra parte non capitava tutti i giorni che Ignazio venisse chiamato per ammazzare un maiale dopo il tramonto. Dalle sei del mattino alle cinque del pomeriggio sfacchinava dentro la macelleria comunale, dove portavano le bestie già squartate, da sezionare per la vendita all’ingrosso. Che vitaccia, che nausea tutto quel sangue che scolava dalle pareti e lui imperterrito a spruzzare con la pompa. Quasi una gara di tempo fra l’acqua e il sangue che colava. Lo doveva annacquare prima che diventasse una pozzanghera nera e raggrumata.

Si era trovato a riflettere che da anni rimaneggiava carcasse a colpi di coltellacci, tacitando per sempre resti di vita animale e ormai a questo ci aveva fatto il callo. Ignazio, però, nella penombra dell’inconscio viveva ancora malesseri strani. Mario era impressionato da quella sensibilità troppo da donna dell’amico. Quando erano ragazzini, e ancora nello stabilimento si scuoiavano le bestie appena scannate, gli diceva: “E che cazzo… non spegnere il faro… vedi meglio e ti sbrighi prima…”, poi finì per passargli la bestia già spellata. Andò meglio, perché Ignazio dopo riuscì ad ammazzare un maiale.

Suo padre, quando Ignazio rientrava in casa, aspettava che il figlio andasse a dormire per perlustrare le scarpe, gli indumenti, forse entrava quatto quatto nella stanza per fiutare l’aria.

Era un vegetariano incallito.

«Igna’ – gli diceva talvolta il padrone – porta a casa questa bella rognonata… la cucinate con un po’ di cipolla e domani mi dirai che bontà avete mangiato te e tuo padre».

Invece il ragazzo, apriva la porta della cantina di Benedetta, e la depositava su una panca. Lasciava lì ogni pezzo di carne che riusciva a portarsi via. Poca roba, ma per Benedetta era una provvidenza. Il marito era morto da poco. Lei era rimasta sola con una bambina che camminava appena.

Era bella Benedetta. Era giovane. Quando lui usciva all’alba, puntuale lei apriva la finestra, per allungare una mano e agitarla. Forse era un grazie, forse un augurio di buon lavoro. Non accendeva mai la luce. Era nella penombra di sé che la incorniciava dentro una sensazione di promesse, di momenti che sarebbero venuti. Ignazio li sentiva. Benedetta si sarebbe rivelata, e non doveva essere per riconoscenza.

Una volta aveva domandato al padre qualcosa sulla giovane vedova.

Giovane… Chissà dove l’aveva trovata il povero compare Filippo. Travagliava in Svezia e come cazzo aveva fatto a prendere una moglie mezza mulatta. E di chi sarà quella creatura? Mah… L’avrà rubata a qualche povera madre… Quella è una zingara.

E forse una strega. Quando Filippo rientrò al paese con la donna, i primi giorni c’era stato un via vai nelle botteghe, e poi lunghe soste davanti all’ingresso d’una abitazione. Sull’uscio c’era sempre una donna che parlottava con un’altra in penombra.

Poi il povero Filippo in poco tempo era diventato un cadavere che camminava, perché così faceva da una vita. Succhiato chissà da chi… Da una janara, si diceva in giro. E nella terra dove nascono le janare se la doveva portare dalla Svezia? Fatto sta che quando morì, una pia donna si offrì di rivestirlo, perché la moglie non si era mai fatta vedere all’ospedale. La poveretta chiamò di corsa il prete. Non fecero entrare nessuno, neppure restare fuori dalla porta per recitare una preghiera. Lo infilarono nella bara e dritto al cimitero.

Aveva la peste? Peste no, però il collo era tutto un buco. Nel nome del padre e del figlio e dello spirito santo. Invocò la pia donna.

«Ecco qua compa’, queste sono le salsicce, la carne salata, il lardo, le braciole…» elencò Ignazio. Il padrone del maiale gli consegnò quattro pezzi da cinquanta euro e gli mise in mano una bella treccia di salsicce, e un pacco di carne che Ignazio aveva appena finito di sezionare.

Mario stava già fuori col motore acceso.

Nessuno avrebbe protestato per quel chiasso che infastidiva. Era il periodo delle provviste suine, e nessuno rinunciava a confezionarle in casa. Allevare un maiale era costato denaro e fatica.

«É quasi l’una, però se andiamo verso la piana qualche troietta la troviamo ancora… Stasera ho tante voglie strane… E te?», domandò Mario.

Ignazio salì sulla moto e disse che prima doveva lasciare quella roba a casa e darsi una sciacquata alle mani. La doccia gliela aveva fatta fare il padrone del maiale. Ci avrebbe messo poco.

«Non venire fin là… mio padre potrebbe svegliarsi». Così Ignazio a passo svelto raggiunse la casa, aprì la porta della cantina di Benedetta, s’avvicinò alla panca e una mano gli afferrò il braccio. Trovarsi la bocca della donna sulla sua fu tutt’uno. Lo trascinò con sé a terra e armeggiò intorno ai jeans del ragazzo.

Dalla porta socchiusa entrava un po’ di chiarore lunare, ma Ignazio aveva nella testa lampi, nelle mani la smania di assestare colpi precisi, come quando macellava la carne.

La donna si dibatteva per mettersi prona, Ignazio si sollevò per alleggerirla del proprio peso, poi la centrò con impeto. Il tempo di emettere un gemito di piacere e Benedetta sgattaiolò via. Forse era stato meglio così, una bella inaspettata pecorina, pensò d’istinto Ignazio. Suo padre l’avrebbe ammazzato se avesse messo incinta una ragazza. Quella poi.

Quando, correndo, raggiunse Mario, l’idea di andare sulla piana non lo coinvolgeva più. Ci sarebbero andati domani, stasera era proprio stanco. Però, se voleva andarci lui… gli regalò un pezzo da cinquanta euro.

Tornò indietro. La porta della cantina era serrata. La casa buia. S’accostò alle persiane delle due finestre a piano terra, ma non avvertì alcun segno di vita.

Si sdraiò sul suo lettino e ripensò a quell’avventura. Quasi una ricognizione. Non aveva percepito alcun profumo della donna. Quel poco di pelle che aveva sfiorato non aveva lasciato in lui alcuna sensazione. Lei l’aveva baciato. Lui aveva appena affossato la bocca sul collo di Benedetta, sui capelli raccolti sulla nuca. Forse erano grossi, fitti, tanti. Eccezionale l’entrata a cavallo nel corpo di lei. Aveva quasi temuto che urlasse, tanto fu baldanzoso il suo assalto. Per scrupolo s’alzò, accese la luce e controllò il pantalone.

Il mattino dopo, prima di uscire all’aperto, Ignazio fece cadere in terra una bacinella d’acqua. Voleva avvertire che stava uscendo. Ma non accadde niente. Le persiane erano ancora chiuse, passò e ripassò davanti alla finestra della cucina, ma dovette rinunciarvi.

Tornò a casa alle dodici per mangiare qualcosa col padre. Un odore di cipolle gli andò incontro in capo al viottolo. Se l’avesse avvertito, brontolò il vecchio, avrebbe fatto per lui una frittata con due uova.

«Com’è… non c’è nessuno di là…», guardò di sguincio la parete che divideva le due case.

Il padre lo guardò tranquillamente. E a Ignazio sembrò contento di quella domanda.

«Che saccio… stamattina ha fatto un fracasso del diavolo… ha ritirato il bucato che aveva steso ieri sera… è venuto una specie di scimmione che ha spippettato finché la zingara non ha finito di caricare la macchina e sono partiti.

«Così… senza dire niente…».

«Eh… così, senza dire niente!» fece eco il vecchio.

E fra il freddo, la pioggia e gli ultimi maiali d’ammazzare passò l’inverno. La casa di Benedetta restò inanimata; la porta della cantina senza catenaccio, perché ogni sera Ignazio entrava e restava immobile. Neppure fosse un reliquario.

Poi, vicini alla Pasqua, Ignazio venne comandato di portare un carico di agnelli macellati verso il confine. Non aveva mai visto tante montagne piene di neve, tanti balconcini pieni di fiori. Come faranno a farli fiorire. Forse perché vedeva tanta bella gente in giro?

Il nord… i polenton… faso tutto mi. Mario gli aveva consigliato di parlare in italiano. A noi terroni ci riconoscono come apriamo bocca. Lui ne sapeva qualcosa, aveva lavorato un anno a Padova.

Il camion frigo guidato da Ignazio fu fermato alla dogana, dovevano fare dei controlli severi, perché il carico di ovini appesi andava controllato bene. “Vieni dal sud… No!?” Era meglio che si fosse presentato il mattino dopo, quindi gli conveniva andare a cercarsi da dormire.

O voleva restare in cabina? L’espressione del gendarme lo intimidì. L’aveva squadrato da cima a fondo.

Prese il borsone, consegnò le chiavi all’addetto, questi gli rilasciò uno scontrino vidimato e poi s’avviò verso l’alberghetto. Sarebbe stato comodo e avrebbe speso poco, così gli aveva detto un doganiere.

Il pasto caldo che servivano in inverno era fisso: polenta e osei o polenta abbrustolita con una bella fetta di guanciale alla brace. Birra a volontà.

La camera era bella, luminosa e calda. A fatica riuscì ad armeggiare la maniglia della finestra e s’affacciò. Di fronte una barriera di montagne stracariche di neve si confondeva con il cielo bianco. Respirò profondamente e l’aria ghiaccia quasi l’affogò, tossì per buttarla fuori.

Una sensazione nuova, piacevole. Accese il televisore ma in ogni canale parlavano in tedesco.

Scese nel saloncino quasi vuoto, poi ordinò qualcosa di forte. Un ragazzo gli portò una grappa:

«Avete solo grappa?…» disse alzando gli occhi perché l’altro non rispondeva.

Di colpo scattò in piedi: «Cristo… ma tu sei Benedetta!».

Sì, era lei. Anzi, era lui, Benedetto.

Di colpo gli fu chiaro il perché di quella fuga.

E perché adesso gli stava accarezzando le mani, e perché lui dentro si sentiva smanioso, perché l’abbracciò, perché lo strinse a sé e lo dondolava mentre l’altro piangeva…

E la bambina? La piccola era la figlia di Filippo e della sorella, che era morta mettendola al mondo. Una storia d’amore finita male.

Quante altre cose si dovevano dire?

Non c’era niente da dire, si erano ritrovati a due passi da un confine. Era meglio oltrepassarlo.

Sarebbero partiti tutti e tre insieme nella penombra, ma a Ignazio la penombra piaceva. Era stata da sempre una condizione per avere la sua rivincita, una dimensione tra il chiasso e la banalità, riservata a pochi..

* * *