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    Oggi, osservando la parte sinistra della home page del mio blog qui sulla piattaforma WordPress, mi sono accorto di avere raggiunto un traguardo che, a prima vista, sembra essere davvero riguardevole.

    Orpo! ho esclamato con malcelato orgoglio.

    Chi l’avrebbe mai detto che, con le mie facezie lanciate quasi settimanalmente nell’immenso oceano web, avrei raggiunto più di 500 individui! Tra questi ci sono uomini e donne in carne e ossa che conosco e frequento nella vita reale ma, in maggioranza, ahimè, si tratta di conoscenze puramente virtuali.

    Quasi volando a 10 centimetri dal pavimento (purtroppo il soffitto di casa mia non è altissimo) sono andato in cucina, ho stappato una bottiglia di champagne (una di quelle costose che tengo in serbo solo per le grandi occasioni) e con due flûte di puro cristallo di Boemia sono andato in soggiorno dove mia moglie dormiva della grossa davanti alla televisione. L’ho svegliata con delicatezza e le ho spiegato le ragioni dei festeggiamenti in corso. Lei ha aperto un occhio, ha afferrato la flûte, ha bevuto con grande piacere lo champagne francese e si è riaddormentata di nuovo subito dopo avere sentenziato: "Avrei preferito che tu avessi vinto al lotto, così potevamo cambiare la nostra auto vecchia di 15 anni!"

     Dunque, dalla mia signora non ho ricevuto né baci e abbracci né complimenti per il traguardo raggiunto dal mio blog. Di colpo sono ritornato con i piedi per terra e ho capito che la mia gioia di qualche istante prima era esagerata e che il traguardo raggiunto non era quella gran cosa da festeggiare…

    Tornato davanti al portatile ho riaperto WordPress e sono andato nella sezione relativa all’amministratore del mio sito dove vengono elencati tutti gli indirizzi web dei miei seguaci. Ne ho scelto uno a caso e sono andato a visionare il relativo blog. Sorpresa: il blog era inesistente!

Cattura15

    Ne ho aperto un altro, sempre a caso, e questo risultava expired da 71 giorni:

Cattura 

A questo punto mi è venuto un angosciante sospetto e così, armato di santa pazienza, ho cliccato, uno per uno, su tutti gli indirizzi dei miei followers ed è risultato che quasi il 90% dei 500 simpatizzanti o avevano chiuso il proprio blog o non l’avevano aggiornato da un sacco di tempo, forse disamorati dal fatto di avere pochi commenti e scarse visualizzazioni.

    Mi sono cadute, letteralmente, le braccia…

    Inevitabilmente mi sono chiesto: “Perché WordPress non aggiorna il suo database, cancellando i siti inattivi o, al limite, eliminando quelli che non esistono più?”. Uno come il sottoscritto finisce per montarsi la testa credendo di avere tanti affezionati lettori quando, in realtà, su 500 in portfolio, a seguirmi (quando va bene) sono una cinquantina di persone e a leggermi con attenzione/a commentarmi sono (al massimo) una decina. I like di simpatia di certo mi fanno piacere, ma è inutile contarli perché, spesso, sottintendono veloci passaggi senza lettura, cioè sono un puro segno di gentilezza nei miei confronti. I miei post, cosa ormai nota, prevedendo più videate, si possono apprezzare (poco o tanto) solo soffermandosi nel sito diversi minuti.

    Nell’analisi eseguita andando a sbirciare nei siti dei miei 500 followers, ho individuato alcuni blogger russi, alcuni spagnoli, tedeschi e americani: tutta gente simpatica e carina ma che non capisce una sola parola d’italiano e che, difficilmente, possono appassionarsi ai pensieri e alle divagazioni del Signor Giacomo. Fra questi 500 seguaci ho scoperto parecchi blogger che presentano unicamente un loro libro auto-prodotto; dei fotografi bravi ma che pubblicano solo loro foto; alcuni promoter di ditte sartoriali, di prodotti di bellezza femminile, di palestre che offrono sconti ai nuovi clienti, eccetera. Mi pare poco probabile che tutti questi signori e signore possano perdere tempo a leggere i miei lunghi post settimanali…

    Perché, allora, si sono iscritti al mio blog? mi domando. Ovvio che la loro iscrizione non è stato altro che un tentativo di promuovere se stessi o la propria attività imprenditoriale. Infatti la netiquette consiglia di andare almeno una volta a ringraziare del gradito passaggio chi si iscrive al tuo blog. Detto brutalmente, si tratta di spam che non dovrebbe esistere su una piattaforma di prestigio come WordPress che ha la missione di accogliere gente appartenente alla categoria dei blogger, cioè di persone che amano scrivere/leggere e scambiare opinioni sui vari post che vengono pubblicati ogni giorno.

    Nell’elenco dei miei seguaci, infine, ho trovato una folta schiera di bravi e (più o meno) famosi blogger che hanno un bellissimo sito tenuto aggiornato con regolarità, che possono vantare moltissimi commenti e un numero spropositato di aficionados ma che, purtroppo, non amano contraccambiare le visite ricevute.  Con il banale trucchetto dell’iscrizione a un blog, seguito da uno o più like, attirano gente nel proprio sito, la affascinano con la loro bravura, la convincono a iscriversi, aumentando così il target del loro blog, ma poi non contraccambiano mai l’amore e la considerazione appena acquisita. Questi blogger, però, posso giustificarli: avendo tanti commenti a cui rispondere non hanno il tempo materiale di contraccambiare le visite che ricevono. Se lo facessero, sarebbero costretti a stare tutto il santo giorno collegati a Internet.

   Ci sono poi quelli che hanno smesso di seguire il mio blog perché non gradiscono più ciò che pubblico. In questo caso non posso farci niente, però credo che sarebbe più corretto se costoro cancellassero l’iscrizione dal sito che non intendono più visitare, rendendo così davvero onesto e reale il numero di followers che tanto ingolosisce noi (piccoli) blogger.

    E’ ovvio che non si può piacere a tutti. Succede anche ai grandi scrittori-comunicatori di stancare i propri lettori o di avere dei detrattori, ma a me farebbe meno male se un eventuale giudizio negativo sui miei post venisse dichiarato non con l’indifferenza-assenza, ma spiegando il proprio pensiero chiaramente nei commenti, convinto come sono che una critica ben documentata può solo far crescere chi mette in pubblico i propri scritti.

    Termino questa (noiosa) analisi dei dati statistici del mio blog ringraziando con tutto il cuore chi mi segue con costanza e che, di tanto in tanto, spende parte del proprio prezioso tempo per leggere e commentare i miei post. Dunque, è con questi 30/40 amici che oggi festeggio, con grande allegria, un traguardo piccolo ma per me importante, fregandomene altamente dei cosiddetti followers fantasma…

Brindiamo

   

Alla prossima.
Nicola

Crediti: alcune delle immagini pubblicate nel post le ho trovate su internet e ai rispettivi autori va il mio più sentito grazie.

Grazie

Carissimi amici,

prima di partire per un lunghissimo viaggio in Cina, ho fatto un sondaggio via mail (non tramite telefono, come fanno gli istituti demoscopici) fra tutti i parenti, gli amici e conoscenti vari per sapere quale impatto aveva avuto la notizia che, finalmente, aveva visto la luce il mio ultimo romanzo. La domanda era molto semplice: “Ti interessa leggere gratis Io e Agata, il romanzo della maturità artistica di Nicola Losito?”

Ho lasciato passare una settimana per dare tempo a tutti di riflettere prima di rispondere a un quesito semplice ma molto importante per me e oggi, finalmente, sono in grado di darvi il risultato dell’indagine.

Sinceramente non mi aspettavo tanto interesse.

Su 1500 mail inviate, 1480 hanno risposto sì, 10 hanno dichiarato che, per partito preso, non leggono mai libri di sconosciuti, i restanti 10 hanno esplicitato che amano la lettura ma non sopportano il modo di scrivere di Nicola Losito.

Fregandomene altamente di quei venti incompetenti che mi hanno snobbato e, felice come una pasqua per l’inaspettato risultato, sento il dovere di ringraziare – separatamente – tutti coloro che hanno reso esaltante questa irripetibile occasione della mia vita.

Grazie ai miei 300 followers, grazie ai 200 amici del social network Netlog, grazie ai 150 amici di Neteditor (un sito web di scrittura amatoriale), grazie ai 50 colleghi del Corso di scrittura creativa dell’Università Cattolica di Milano, grazie ai 40 colleghi dei Fiori blu (una brillante scuola di scrittura che frequentai una decina di anni fa), grazie ai 100 amici con cui ho viaggiato in Italia e all’estero, grazie alle 400 persone sconosciute che fanno parte di una mailing list nata spontaneamente leggendo i miei post .

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Finiti i ringraziamenti, il prepotente trillo di una sveglia mi ha costretto ad aprire gli occhi. Sono sceso dal letto con un brutto presentimento in testa. Avevo forse sognato tutto? Sono corso nello studio, ho acceso il computer, ho aperto il mio gestore di posta… ed ecco l’amara sorpresa. Dalla lettura delle mail di risposta al sondaggio mi sono reso conto che la realtà è ben diversa:

Su 1500 intervistati, solo 10 persone hanno risposto sì alla domanda, altri 10 hanno risposto con frasi del tipo: “Di norma non leggo libri di sconosciuti e, per favore, mi cancelli dalla sua mailing list.”. I restanti 1480 hanno cestinato la mia mail.

Sinceramente non mi aspettavo tanto disinteresse.

Che tristezza scoprire che quasi nessuno è attratto dai libri di perfetti sconosciuti qual sono io, nemmeno se glieli regali! A mie spese ho capito perché le case editrici importanti pubblicano solo autori già famosi all’estero o in Italia e rifiutano le opere di esordienti. Di regola, quasi tutte le copie stampate di un libro di un principiante, dopo i classici 90 giorni, vanno dritte al macero. Per non parlare delle opere auto-pubblicate: queste sono destinate ai pochi parenti e ai quattro amici che uno si ritrova: il destino di questi libri, dunque, è l’oblio negli scantinati o l’annegamento  nel mare magnum della Rete.

Invece di mettermi a frignare per lo scarsissimo appeal di Io e Agata e del sottoscritto, autore alle prime armi, mi è venuto da ridere. Una risata un pochino isterica, ovvio, ma ridere è sempre liberatorio, e fa vedere le cose sotto una diversa luce. Infatti la delusione che si era intrufolata nei miei pensieri l’ho subito spazzata via prima che s’impossessasse della mia testa. Ho preso atto della débâcle delle mie aspettative e ho lanciato al vento questo messaggio subliminale: “Peggio per  loro! Non sanno cosa si perdono…”

Ieri, per cercare di capire le ragioni di un risultato così negativo, sono andato da un professionista esperto di marketing. Dopo avergli raccontato cosa mi era successo, lui mi ha elencato gli errori che avevo compiuto nel promuovere Io e Agata.

  1. Per lanciare un libro non usare mai quelle piattaforme dove i blogger sono tutti scrittori più o meno vanitosi  e sempre in competizione fra loro. Costoro, di sicuro, non fanno salti di gioia quando un competitor ha successo. Sfrutta, invece il passaparola innescato da qualcuno che ha letto e apprezzato veramente il tuo libro.
  2. Non regalare mai un libro scritto da te. Regali di questo genere vengono visti come una mossa disperata di un autore che non crede in se stesso e nelle proprie capacità di attrazione. E’ come chiedere benevolenza in anticipo.
  3. E’ sbagliato proporre a un amico che, come te, ha velleità letterarie di leggere un tuo testo. Questo invito viene interpretato come un impegno oneroso e nessuno ama essere costretto a fare delle letture obbligate. C’è gente che legge di mestiere e, a pagamento, può darti un parere professionale.
  4. Non sottovalutare, mai, l’invidia del pene o della vagina. C’è sempre qualcuna o qualcuno più bravo e più dotato di te.
  5. Sii umile. Anche se pensi di avere scritto un capolavoro, non esaltarti: lascia che siano gli altri a giudicare i tuoi scritti. Non esultare nemmeno se la tua opera vince un qualche premio. I libri che arrivano primi a un concorso quasi sempre sono delle sole…

Insomma non ne ho azzeccata una e si spiega così perché il post della settimana scorsa dove promuovevo Io e Agata è stato letto e commentato così poco.

A farmi sorridere, per fortuna, c’è il mio alter ego. Lui non ha i miei problemi…

Striscia72a

Arrivederci ai primi di Novembre.

Nicola

 

Saluti

Carissimi amici,
con il post odierno termina la mia esperienza di blogger. Terrò aperto questo spazio solo per eventuali avvisi.
Ovviamente lascio il blog a disposizione dei webnauti. Chi vorrà leggere i miei 100 e  passa post pubblicati in questi anni, potrà sempre farlo e, statene certi, mi farà piacere. Chi conosce il mio indirizzo mail e desidera comunicare con me, può farlo tranquillamente. Risponderò a tutti.
La ragione di questa decisione è la solita: stanchezza per la grande fatica di produrre, ogni settimana, il compitino da pubblicare sul blog. Non ho più l’età per mantenere questo impegno. Sono sempre più convinto che scrivere deve essere un piacere, altrimenti è solo una sofferenza inutile. Non sono stanco solo per questo. La verità è che, in questi ultimi mesi, non sono stato con le mani in tasca. Non ho fatto il fancazzista, come dicono, scherzando, i miei amici ancora in attività. Anch’io, alla mia maniera, sono stato parecchio laborioso.

1. Sto insegnando italiano in una scuola serale per stranieri. (Una ragazza indiana mi ha  chiesto il significato di minchia! e cazzo! le esclamazioni più usate dalle persone che ha conosciuto in Italia e mi ha davvero messo in imbarazzo…)

2. Da diligente  blogger ho preparato con cura i miei post settimanali. (Ma ad avere più successo sono state le facezie/barzellette non mie…)

3. Ho letto e commentato molti post dei miei amici virtuali. (Spesso rosicando per la loro bravura e per il numero esagerato di commenti  lasciati da splendide fanciulle che a me non m’hanno mai degnato di un‘occhiata…)

4. … qui non scrivo niente per il semplice fatto che non si può spiattellare proprio tutto della propria vita privata!  A bocca aperta

5. Infine, ho rispolverato il romanzo che, da anni, riposava in un cassetto in attesa dell’ultima e definitiva revisione.  Per portare a termine questo (per me) gravoso compito ho speso gran parte delle mie energie mentali. Tutti sanno che scrivere un buon romanzo è una cosa difficilissima, mentre scrivere una ciofeca, è facilissimo… Basta vedere il numero spropositato di romanzi inutili che vengono pubblicati in Italia e nel mondo ogni anno. Per questa ragione, non volendo incrementare di un’altra unità gli inutili seller, ho lasciato riposare il mio romanzo per quattro anni nel cassetto. Quando, sei mesi fa, l’ho riletto, mi è venuto da piangere… Non certo per la gioia o la commozione, ma per avere perso tanto tempo a scrivere un’opera così sconclusionata. Quanti anni ho sprecato in questa avventura! Anni  che, invece, avrei potuto dedicare al divertimento e alla vita sociale?!  Tanti, troppi.
Pagine che mi sembravano geniali si sono rivelate, a una nuova e più attenta lettura, solo delle banali ripetizioni di pensieri già pensati e masticati da migliaia di altri pseudo scrittori prima di me.
Sono stato più volte sul punto di buttare definitivamente quel mio parto letterario nella pattumiera. A fermarmi è stato il ricordo delle revisioni/recensioni regalatemi da due amiche a cui, qualche anno fa, avevo dato da leggere quel mio ultimo e più sofferto romanzo. 
Il parere della prima amica era stato abbastanza positivo e su alcuni capitoli c’era persino appuntata l’esclamazione: bello! Il suo consiglio era stato di lasciare riposare qualche mese il libro e poi di rivederlo in alcuni punti. Solo così sarebbe stato pronto per la pubblicazione. 
Il giudizio della seconda amica era stato tragicamente negativo. Pagine e pagine cassate senza pietà, interi paragrafi cancellati… insomma, una vera tragedia. Il suo consiglio era stato di lasciare riposare qualche anno il romanzo e poi di riscriverlo di sana pianta! A suo parere, se l’avessi lasciato così, non sarebbe mai stato pronto per la pubblicazione.
Curiosamente queste due recensioni così diametralmente opposte, mi avevano convinto che, in fondo, il mio libro non era da buttare, ma necessitava di essere ulteriormente pensato, elaborato e riscritto.
Ecco perché ho lasciato passare quattro lunghi anni prima di riprenderlo in mano. Toccava a me di separare il grano dal loglio e di portarlo a una forma più acconcia e intrigante. Per compiere questa ultima revisione ho impiegato cinque mesi, lavorandoci su giorno e notte e, solo pochi giorni fa, sono arrivato a scrivere la parola fine. E, purtroppo, non sono ancora sicuro che il risultato finale sia soddisfacente! 
I cinque punti elencati dovrebbero spiegare il mio attuale stato di salute e giustificare il perché devo, forzatamente, mettere in animazione sospesa il mio amato blog. 
Sono svuotato non solo psicologicamente  ma anche fisicamente e ora sento la necessità di chiudere per un bel po’ con la scrittura. Devo riprendere fiato e rimettermi in sesto.
Appena potrò, trasformerò il libro in e-book e lo auto-pubblicherò su Amazon. Alcuni di voi conoscono già il titolo del romanzo, avendone io già presentato due capitoli nel blog, alcune settimane fa. Si tratta di “Affinità elettive” e di “I cinque cani e la seduta psicoanalitica” che avete accolto con cortese benevolenza. Per ringraziarvi, ho pensato di farvi una promessa e di sottoporvi, come mia ultima presenza su WordPress, un altro capitolo  di Io e Agata a cui io tengo in modo particolare.
La promessa è questa: se e quando Io e Agata sarà in vendita su Amazon farò in modo che tutti possiate leggerlo gratuitamente. Vi avviserò con una mail, oppure scriverò su questo blog come fare per scaricarlo gratis. 
Il terzo capitolo che presento oggi s’intitola Francesco mio. Questo è un mio vecchio racconto, rivisto e corretto, che comparirà nell’appendice di Io e Agata anche se è parte integrante della vicenda che narro nel romanzo. Il brano è piuttosto lungo, ma mi piacerebbe che lo leggeste e, bene o male, che qualcuno lo commentasse. Senza nessun obbligo, ovviamente.

Siccome questo è il mio ultimo post vorrei togliermi un sassolino dalla scarpa, ben sapendo che "la cosa peggiore che può capitare a una domanda è la risposta".
Io non conosco a fondo l’inglese, però ho sempre pensato che follower volesse significare seguace, uno che ti segue. Pare, invece, che su WordPress questo termine forestiero abbia un altro significato. Mi spiego: in quasi tre anni di mia assidua presenza su questa splendida piattaforma ho collezionato circa 280 follower, ma di questi solo il 10% si sono fatti vivi e hanno colloquiato qualche volta con me… ma tutti gli altri seguaci dove si sono nascosti!?
Forse, per questo corposo gruppo di blogger,  follower significava che dovevo essere io a seguire loro?  In verità per un po’ l’ho fatto poi, vedendo che non c’era reciprocità di amorosi sensi, ho abbandonato la partita.
Capita così anche a voi? Questa è la mia domanda da un milione di dollari…
Comunque, a volte esagero a lamentarmi. Infatti, tra i miei sostenitori silenziosi, posso vantare una parrucchiera che ha inventato e pubblicizza uno shampoo miracoloso, e un simpatico signore che promuove nel mondo bare e urne cinerarie…  Alla prima avrei voluto scrivere che è già un miracolo se, alla mia età, ho ancora quattro capelli in testa e, all’altro, toccandomi di nascosto le parti basse e non conoscendo il mio futuro, avrei voluto dire che mi piacerebbe vivere qualche anno ancora e che alla bara ci penseranno (spero) i miei cari… 

Ok, basta recriminazioni più o meno spiritose. È arrivato il momento dei saluti. Chiedendo scusa per questo lungo pistolotto, lascio un calorosissimo abbraccio ai miei followers… indistintamente.

Buona fortuna e lunga vita à tout le monde.
Nicola

Francesco mio

Francesco mio

Quando i pompieri riuscirono a entrare nell’appartamento del professor Quilici, lo trovarono seduto su una poltrona e con la bocca sorridente.
Anche il fringuello nella gabbia sorrideva.
Può sembrare un’assurdità, un volatile non può sorridere, ma chi li aveva trovati raccontò che dalla disposizione dell’uomo e della gabbia appoggiata sulle sue ginocchia, i due si stavano certamente guardando negli occhi e poiché il professore pareva sorridere, anche il fringuello doveva avere la sua stessa espressione.
«Sì, sì, – dicevano tutti – il vecchio e l’uccellino avevano dato insieme l’ultimo respiro, sorridendosi l’un l’altro».

Io, all’epoca, ero un ragazzino.
Alla storia del sorriso del fringuello ci ho creduto.
E ci credo ancora oggi.

Il signor Quilici era un professore di musica in pensione. Viveva nel mio stesso palazzo. Quando lo conobbi, avevo quattordici anni. Lui quasi ottanta. Lo incontravo qualche volta scendendo di corsa per le scale dal mio appartamento al quinto piano. Abitava sotto di noi e, salendo a piedi con la borsa della spesa, aveva sempre il fiatone perciò rispondeva al mio saluto solo muovendo lentamente la mano libera.
Fra noi un’amicizia era inevitabile ma, all’inizio, fu vera guerra.
Io andavo matto per la canzone Rock around the clock di Bill Haley, per Only you dei Platters, per Diana di Paul Anka, lui ascoltava tutto il giorno musica classica.
Mia madre mi urlava dietro ogni volta che mettevo sul giradischi i 45 giri al massimo volume, ma io non le davo retta. Un giorno, però, dal pavimento della mia camera sentii sette o otto colpi sordi in rapidissima successione e una voce chiara, anche se lontana, che gridava:
«Basta!»
Proprio in quel momento mamma stava passando per la stanza.
Seguì un ordine:
«Vai dal signor Quilici a scusarti! Fila!»
Scesi al quarto piano e suonai il campanello.
Mi aprì la porta un uomo molto anziano dal viso chiaramente alterato.
«E tu chi sei?» chiese.
«Il bambino del piano di sopra…»
«E allora?»
«Sono venuto a scusarmi per il rumore…»
Non mi fece finire la frase.
«Bravo, hai detto giusto! La tua non è musica, è solo rumore! Va bene, accetto le tue scuse.»
Mentre l’uomo stava richiudendo la porta, sentii un canto acuto, quasi arrogante. Possedevo una coppia di canarini, che adoravo, perciò nei ripetuti e forti ciuinc, uit e ciuit, che provenivano dall’interno dell’appartamento, riconobbi il cinguettio di un volatile.
«Anche lei ha degli uccellini?» chiesi.
«Non uccellini, ma un fringuello maschio…» rispose piccato.
«Posso vederlo?»
La mia domanda lo prese in contropiede. Non sapendo se farmi entrare in casa oppure no, rimase per un attimo indeciso. Poi con la mano spalancò la porta.

Il suo appartamento era tagliato in modo del tutto diverso dal mio. Il lungo corridoio che disimpegnava razionalmente le stanze aveva una parete attrezzata a libreria. Buttando un occhio sugli scaffali, notai che i libri erano disposti in ordine di altezza decrescente da sinistra verso destra. La cucina dava l’idea di un luogo pochissimo vissuto. Non c’era un oggetto fuori di posto, nemmeno una tazzina sporca di caffè sul lavello. Magro e spilungone com’era, forse non faceva nemmeno colazione.
Arrivati nello studio, davanti a me si presentò tutto un altro mondo.
Una stanza così quante volte me l’ero sognata!
Regnava dattorno un magnifico disordine: sulla scrivania, mescolati a spartiti musicali, c’erano pile di dischi a 33 giri e sul pavimento il grammofono, retto da quattro gambe affusolate, stava ancora suonando a bassissimo volume un brano di musica sinfonica. Appesi alla parete più grande c’erano due custodie di violino e due quadri, dipinti a olio, ottime copie (così disse lui) dei famosi quadri di Manet: il Pifferaio e il Guitarrero. Nella parete più piccola, un’altra libreria stracolma di spartiti disposti alla rinfusa che, a tener conto del numero di quelli sparsi per terra, era di sicuro usata quotidianamente.
A fianco della finestra, protetto da una tenda che un tempo doveva essere stata bianca, c’era un’alta piantana con tre ganci a uncino. Su quello più alto stava appesa una gabbia metallica a forma di castello.
Dentro un fantastico uccellino dai mille colori.
Il fringuello saltabeccava incessantemente da un trespolo all’altro, sbatacchiando rumorosamente le sue alucce scure. Il piumaggio del petto tendeva al ruggine, la schiena era verde muschio. Aveva la testa color carta da zucchero, la fronte nera. Anche le ali erano nere a striature giallo–verdognole e portava una macchia bianca all’altezza della spalla. Il ventre era castano chiaro quasi biancastro e il becco tendeva al viola.
Un’esplosione di colori se paragonata al semplice, unico, anche se vivissimo, giallo dei miei canarini. Quello che però mi colpì fu la varietà di suoni che uscivano dalla gola del minuscolo volatile.
Lo feci notare al padrone di casa. Questi, invece di rispondermi, estrasse dalla biblioteca un testo di ornitologia, cercò la pagina giusta e lesse:

“Il suono più strano che emette il fringuello è il francesco mio. Si chiama in questo modo perché il volatile nella parte terminale del canto emette un verso molto simile all’invocazione – francesco mio – , e via in similitudine per gli altri canti.
Con un po’ di pratica è relativamente facile riconoscere altri suoi versi.
Quelli migliori sono:
a)    il passerino, alla fine di ogni canto emette un verso simile a quello del passero.
b)    il doppietto, emette un canto completo e, un secondo dopo, lo ripete eguale.
c)    il buicio, a ogni striscia di canto ultimata allega un verso simile a “buicio”.
d)    il cin, inizia e termina il canto con “cin – cin”.

«Ma lei riesce a distinguerli tutti questi suoni?» domandai incuriosito.
«Ho studiato e suonato il violino e ho l’orecchio abituato a cogliere le varie sfumature dei suoni. Ovviamente il fringuello non li emette tutti di seguito ma, a seconda dell’estro del momento, canta in un modo piuttosto che in un altro.»
«Lei veramente riesce a sentirlo quando pronuncia francesco mio
L’uomo sorrise alla mia domanda:
«Quello è il verso che fa soltanto a me e solo quando gli do del cibo che lo soddisfa!»
«Lei mi sta prendendo in giro…» protestai.
«Caro bambino, – fece lui – se continui ad ascoltare i tuoi urlatori, non puoi pretendere di cogliere sfumature così sottili.»
«E dai! – pensai dentro di me – Quest’uomo insiste a burlarsi di me!»
Poi, come proseguendo un suo ragionamento, tornò a prendere un altro libro sullo scaffale e quando ebbe trovato quello che cercava, disse:
«Il canto del fringuello non lo apprezziamo soltanto noi musicisti, ma anche i poeti. Tu conosci Giovanni Pascoli, vero?»
Non aspettò nemmeno la mia risposta e continuò:
«Pascoli ha scritto una splendida poesia sul fringuello. Il titolo è Il fringuello cieco e, per non annoiarti, te ne leggo solo poche righe. Attese un attimo, poi, con voce ispirata e ben impostata, recitò:

“Finch…  finché nel cielo volai,
finch…  finch’ebbi il nido sul moro;
c’era un lume, lassù, in ma’ mai,
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo…“

«La senti la musica che viene fuori da questi versi?» domandò poi.
«Sì, sì!» dissi, mentendo alla grande. Se qualcosa avevo provato, era solo un po’ di vergogna per la mia assoluta incapacità di apprezzare le poesie. A scuola ce ne facevano studiare tantissime a memoria e da ciò proveniva la mia idiosincrasia per quel strano modo di esprimere concetti e pensieri.
«I professori di lettere – continuò, come leggendomi nel pensiero – sbagliano a costringervi a studiare a memoria le poesie! Farebbero meglio a insegnarvi a leggerle ad alta voce, con la corretta dizione! In questo modo, forse, apprezzereste la musica che c’è in ognuna di loro…»
Interruppe subito il suo ragionamento perché si accorse di avermi messo in grande imbarazzo. Un attimo dopo mi accompagnò alla porta.

Nei mesi seguenti mi sforzai a tenere basso il volume del giradischi e tentai persino di leggere ad alta voce sul mio libro di antologia alcune famose poesie. L’effetto acustico della mia dizione doveva sembrare però alquanto stridulo e angosciante, perché mia madre spesso entrava di corsa in camera credendo che stessi male. Dovetti, a gran fatica, imparare a regolare il tono della voce e ad abbassare ad altezze più umane il braccio sollevato e teso con cui accompagnavo la recita dei versi.
Dopo innumerevoli e penosi tentativi, riuscii finalmente a declamare in modo decente Davanti San Guido di Carducci: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar…” e persino a sentire la musica che c’era in quella poesia.
Avrei voluto correre giù dal professore a fargli sentire i miei progressi, ma qualcosa mi impediva di farlo. Da qualche giorno dal suo appartamento uscivano pochissimi suoni, niente musica classica e neppure il canto del fringuello.
C’era qualcosa che non andava, me lo sentivo sulla pelle.
Vivendo da solo, il signor Quilici era costretto a procurarsi di persona le provviste per la settimana. Lo faceva ogni mercoledì mattina al mercatino rionale. Molte volte, quando il mio turno a scuola cadeva di pomeriggio, andavo con la mamma allo stesso mercato e lo incontravo mentre sceglieva la verdura per sé e per l’uccellino. In queste occasioni riuscivo a scambiare qualche chiacchiera con lui e spesso, quando la nostra spesa era leggera, lo aiutavo a portare su per le scale le sue borse piene. Il suo respiro era così affannoso da farmi temere che un giorno o l’altro non ce l’avrebbe fatta a salire tutti e quattro i piani.
Da un paio di settimane, però, il professore non si era fatto vivo al mercato.
Il secondo mercoledì segnalai a mia madre la sua assenza e lei mi consigliò di andare a suonare al suo appartamento.
Dopo un’attesa infinita, la porta si aprì e vidi davanti a me non l’uomo che conoscevo ma un essere rinsecchito e barcollante. Aveva occhiaie profonde e i capelli erano del tutto fuori posto. Il vestito era spiegazzato e pieno di borse alle ginocchia: chissà da quanti giorni non se lo cambiava!
Invece di salutarmi e invitarmi a entrare, in modo alquanto brusco chiese:
«Cosa vuoi?»
«È un po’ che non la vediamo e la mamma e io eravamo preoccupati…» risposi.
Ci mise un secondo a scoppiare in un pianto senza freni.
«Cosa le è successo?»
«Il mio fringuello ha perso la voce! Non canta più… morirà presto…»
Mi fece entrare in casa e mi condusse nello studio. Le tapparelle erano completamente abbassate, il disordine che mi aveva così affascinato la prima volta, ora aveva preso il sopravvento e rendeva squallida la stanza. Piatti con avanzi di cibo ammuffito avevano invaso la scrivania, normalmente ingombra di mille altre cose. C’erano foglie d’insalata rinsecchita e ossetti di seppia sparsi un po’ dovunque. Un puzzo incredibile rendeva difficoltoso respirare.
«Posso aprire le finestre per cambiare l’aria?» chiesi, cercando di essere il più possibile gentile.
«Fa come vuoi…»
Con voce lugubre, inframmezzata da un pianto lamentoso e da un’espressione di apatia stampata sul viso, mi raccontò che due settimane prima, mentre gli stava dando il solito cibo, il fringuello aveva improvvisamente emesso un verso rauco, straziante e da allora non aveva più cantato. Da quel giorno a malapena accettava un po’ di granaglie.
«Ha chiamato il veterinario?» chiesi.
«Ti pare che un veterinario si muova per uno stupido uccello che non canta più?»
Non sapendo cosa fare per aiutarlo, mi misi allora a raccogliere i piatti sporchi e a rassettare dattorno. Mentre eseguivo quelle semplici operazioni, la mia mente era indaffarata a cercare una soluzione al suo problema. Ben presto però dovetti arrendermi. Quando nello studio una parvenza di ordine fu ristabilito, non potei fare altro che salutarlo lasciandolo solo con il suo sconforto.

Avevo da poco iniziato il primo anno al liceo scientifico Righi che era, a detta di tutti, il migliore della città. Fra i cinque o sei professori che ci seguivano, ero convinto che avrei trovato chi sarebbe stato in grado di darmi una mano a risolvere il problema del signor Quilici. Raccontai la storia del fringuello, diventato improvvisamente muto, al mio professore di scienze, ma l’unica cosa che riuscii a ottenere fu un sorriso di compatimento:
«Ragazzo mio, con tutti i grandi problemi che ci sono al mondo, il tuo mi sembra davvero poco importante!»
Ottenni la stessa indifferenza dal professore di italiano e da quello di matematica.
Stavo ormai per perdere ogni speranza, quando, una mattina, l’insegnante d’inglese prese a parlare di un libro che aveva appena finito di leggere e il cui titolo era:

Siamo tutti nati poliglotti di Alfred A. Tomatis

Spiegò che, avendo da poco iniziato a studiare una lingua straniera, qualcuno di noi avrebbe fatto parecchia fatica a impararla. Nel parlarla, alcuni si sarebbero trovati a disagio, come quando si indossano vestiti più larghi o più stretti di un’altra persona.

A detta di Tomatis “queste sensazioni non sono cose immaginarie: un corpo che parla una lingua risuona in maniera diversa dal corpo che ne parla un’altra, e se un corpo parla una lingua con la quale non entra in risonanza, per quanto la si studi, non la si padroneggerà mai”.

Nel libro citato – aggiunse il professore – era indicata una strada per rendere possibile un effettivo multilinguismo dei cittadini d’Europa, una strada fondata tutta sull’ascolto.

Alfred Tomatis fu immerso fin dall’infanzia in un variegato mondo sonoro: i nonni erano italiani e parlavano nizzardo, un dialetto ricco di influenze dal piemontese, il padre, cantante lirico, era un famoso basso all’Opera di Parigi. Queste esperienze, unite alla vocazione per la medicina, lo portarono ad approfondire i rapporti tra l’orecchio, la voce, e la salute degli esseri umani. Sarebbe stato perciò riduttivo definire Tomatis un otorinolaringoiatra, piuttosto lo si sarebbe potuto chiamare un professore dell’orecchio”.

A questo punto la mia attenzione era diventata vivissima: forse Tomatis avrebbe risolto il problema che mi assillava.
Cominciai a prendere degli appunti, scrivendo con estrema cura tutto quanto l’insegnante stava spiegando e, tornando a casa in tram, li rilessi più e più volte.

“Nelle prime pagine del suo libro l’autore racconta che a dare inizio alla sua ricerca fu l’osservazione delle sordità professionali degli operai che lavoravano negli arsenali dell’aeronautica negli anni ‘50. Da essa trasse le cosiddette tre leggi del metodo Tomatis:

1)    La voce esprime solo ciò che l’orecchio può sentire.
2)    Se l’ascolto si modifica, immediatamente e inconsciamente si modifica anche la voce.
3)    È possibile trasformare durevolmente la fonazione se la stimolazione acustica viene mantenuta per un certo tempo (legge della rimanenza).

Ma ciò che mi colpì di più fu la seguente riflessione sugli effetti terapeutici della musica classica:

Le opere di Vivaldi, insieme a quelle di Mozart, Tchaikovsky e Corelli, sono state incluse nelle teorie di Alfred Tomatis per dimostrare i benefici della musica sul comportamento umano e vengono utilizzate nella terapia musicale”.

Ecco la soluzione che cercavo! Sostituendo in quella frase l’aggettivo umano con animale, risultava che la musica avrebbe potuto curare anche il fringuello.

Corsi a casa e feci le scale a tre per tre. Arrivato al quarto piano suonai alla porta dell’appartamento del professor Quilici, senza chiedere permesso entrai in casa e gli raccontai quanto avevo appreso a scuola.
L’uomo mi ascoltò prima con grande scetticismo, poi, man mano che gli spiegavo come avremmo dovuto procedere, fu preso anche lui dall’entusiasmo.
«Ecco perché non canta più! – disse – Da due settimane il mio fonografo si è guastato e da allora il fringuello sta facendo lo sciopero della voce!»
«E se le prestassi il mio e gli facessimo sentire dei pezzi delle mie band?»
Un’occhiataccia mi fece capire che non era il momento di scherzare.
Salii nel mio appartamento, presi il giradischi e lo sistemai nello studio del professore.
Mettemmo poi la gabbia su una sedia molto vicina agli altoparlanti e il signor Quilici, nella sua vasta discoteca, scelse un pezzo di Mozart. Nel locale, per tanti giorni silenzioso, le note melanconiche e gioiose di Così fan tutte si sparsero per l’aria e attraversarono anche la gabbietta.
Tutti e due ci aspettavamo qualcosa.
Ma non accadde nulla.
La bestiola apatica era e tale rimase per tutto il tempo in cui la musica aveva ripreso possesso della stanza.
Me ne tornai a casa deluso ma non completamente vinto.
«Può tenere il giradischi per tutto il tempo necessario. – dissi – Cambi musica, può darsi che Mozart non gli piaccia!»
Per più di una settimana il professore passò le giornate a cercare fra i suoi dischi il brano sinfonico che poteva compiere il miracolo. Fu tutto inutile, il fringuello non dava segni di ripresa, anzi, a volte, rifiutava persino il suo cibo preferito. Forse la terapia musicale era efficace sugli umani, di certo si stava rivelando un fiasco con gli animali. L’uccelletto era ormai ridotto a pelle e ossa, mancava davvero poco alla sua fine.

Si trattava solo di attendere.

In un pomeriggio noioso come tanti altri, stavo studiando di malavoglia geografia, quando, tra uno sbadiglio e l’altro, sotto i miei piedi sentii sette o otto colpi sordi. Quei colpi che provenivano dallo studio del professore, erano il nostro mezzo di comunicare: tre volevano dire vieni giù, di più significavano emergenza.
«Oddio! il fringuello è morto!» pensai.
Col cuore in gola scesi al quarto piano.
Quando il signor Quilici aprì la porta, una musica molto triste e una voce che mi fu difficile stabilire se di uomo o di donna, arrivò alle mie orecchie.
«Ha cantato di nuovo… con un pezzo di Vivaldi!” disse il professore.
Corsi nello studio. La musica era a un livello molto alto e quasi copriva i versi dell’uccellino. Abbassai leggermente il volume del giradischi in modo da riuscire a sentire la voce del fringuello. Il suo canto era bellissimo e melodioso come mesi prima. Mi sedetti su una poltrona e chiusi gli occhi per assaporare meglio l’atmosfera che si era creata nella stanza.
Non posso dire con assoluta sicurezza se ero sveglio o se sognavo, ricordo solo che, a un certo punto, udii con estrema chiarezza due suoni che non avevo mai uditi prima:

francesco mio!
cin cin!

Giuro di averli sentiti.

Due settimane dopo quello straordinario evento, i pompieri furono costretti ad abbattere la porta dell’appartamento del professore.

Fine

Crediti: la strip del Signor Giacomo mi appartiene. L’immagine che accompagna il racconto Francesco mio è una mia rielaborazione di una scultura di Alberto Giacometti, il famoso scultore e pittore svizzero.

Festa

Da tempo aspettavo quest’occasione. Infatti, sin dalla pubblicazione del mio primo post nel novembre del 2011, avevo promesso a me stesso che se avessi raggiunto un certo traguardo lo avrei celebrato in pompa magna con festeggiamenti e fuochi d’artificio.

Qual era il mio obbiettivo? Arrivare a totalizzare 20.000 visualizzazioni e potere vantare 200 followers.

Un traguardo che solo sei mesi fa, visti i risultati di quasi un anno e mezzo passato praticamente inosservato, ritenevo al di fuori della portata di un blog nato per colloquiare a distanza con i miei dieci amici di Milano e con i quattro/cinque parenti o conoscenti sparsi per l’Italia che possiedono un computer a casa e che, soprattutto, lo accendono almeno una volta alla settimana.

In tutto il  2012 i miei post settimanali erano stati visualizzati 6500 volte, commentati pochissimo e quasi sempre dagli stessi tre o quattro amici, e potevo contare al massimo su una decina di followers.

Nel 2013 c’è stata la grande svolta. Tenendo conto che ho sospeso le pubblicazioni per tutto il periodo estivo, in circa sette mesi ho realizzato 13.500 visualizzazioni, superando così i 20.000 click dall’apertura del blog, inoltre il numero dei commenti è salito in modo esponenziale e ho superato la quota di 200 followers.

Dunque, avrei tutte le ragioni di festeggiare il raggiungimento dell’obbiettivo che mi ero prefissato a fine 2011…

In realtà, andando a esplorare con raziocinio le statistiche, ho capito che c’è ben poco da esultare.

conteggio-visualizzazioni

1. Visualizzazioni. I famosi click del mouse che conducono un utente su un certo blog, non coincidono assolutamente con le effettive letture di un post all’interno di quel blog. Per leggere uno dei miei lunghi articoli ci vogliono almeno una decina di minuti, mentre statisticamente un webnauta si ferma su una pagina al massimo tre/quattro minuti, quindi parlare di un gran numero di visualizzazioni ed esserne fieri, nel mio caso particolare, non ha molto senso. Sarebbe più interessante, invece, che WordPress indicasse quanto tempo tizio, caio o sempronio sostano in un blog. Solo così si può sapere se una visualizzazione coincide o no con una lettura completa del post presente a video.

A grandi linee posso ipotizzare che su 400 utenti che passano settimanalmente dalle mie parti solo una quarantina leggano effettivamente l’intero post. Tutti gli altri leggono il titolo, osservano la lunghezza dell’articolo, leggiucchiano le prime tre righe e poi se vanno insalutati ospiti… Si può essere soddisfatti di un risultato del genere?

  • Pensierino della sera n. 1. Se devo proprio rispondere a questa domanda, dico che 40 lettori reali sono una bella schiera e a loro vanno il mio affetto e i ringraziamenti. Innamorato

Like

2. Like. Questa, anzi soprattutto questa, è una voce ingannevole. Piazzare un Like in fondo a un post non costa niente, e lo si può porre anche senza avere letto l’articolo. Lo si può dare per amicizia, a volte lo si dà per ottenere un Like di scambio per il proprio blog, oppure lo si regala perché un Like non si nega a nessuno, eccetera eccetera…

E’ abbastanza facile scoprire quando un Like è fasullo. Ricevo, infatti, tanti Like da gente che non ha mai letto e commentato un mio post e che mai li leggerà e commenterà, ma che, imperterrita, distribuisce gradimenti a destra e a manca unicamente per evidenziare il proprio Gravatar e quindi, in definitiva, per promuovere il proprio blog. Per evitare questa tipologia di utenti, qualcuno, molto intelligentemente, ha eliminato la possibilità di apporre un Like ai propri post. In effetti a un falso gradimento è preferibile il silenzio o, al limite, un commento critico negativo.

  • Pensierino della sera n. 2. Ovviamente – e questo è il mio modesto convincimento – i Like che ricevo dipendono dal fatto incontestabile che tutti i post che pubblico sono bellissimi e interessantissimi… Occhiolino A bocca aperta

Followers

3. Follower. Anche questo è un indicatore che mi piace poco. Non lo amo perché è il meno realistico dei segnali di un successo personale. WordPress consente, infatti, di sapere chi sono coloro che hanno dichiarato di “seguire” il tuo blog. Beh, la mia sorpresa più grande è stata quella di constatare che dei miei 200 e passa followers, solo una quarantina mi leggono con una certa frequenza, mentre tutti gli altri sono passati qui una volta o due e poi sono scomparsi nell’oceano web… Alcuni miei followers hanno persino cancellato il loro account su WordPress. Perché allora dichiararsi follower se poi non ci si fa mai vivi con un commento o con un qualsiasi altro segno tangibile della propria esistenza?

E’ troppo malizioso affermare che ci sono blogger che si dichiarano tuo follower unicamente per ottenere in cambio di essere seguiti da te?

Vorrei, a questo proposito, citare un caso capitato proprio a me: un noto blogger che ha quasi 2000 followers è stato per diverse settimane il primo e unico utente di WordPress che poneva un Like ai miei post, senza mai commentarli, però. Incuriosito andai a visitare il suo blog, commentai alcuni suoi articoli che mi piacevano e diventai un suo follower. In seguito, visto che i suoi post non mi interessavano più, smisi di frequentarlo e commentarlo: da quel momento scomparvero anche i suoi Like. La domanda retorica che mi pongo è: per arrivare a 2000 followers, basta sparare raffiche di Like fasulli in giro?

  • Pensierino della sera n. 3. Messe da parte le precedenti elucubrazioni mentali, io sostengo che non è importante la quantità di followers che uno ha, ma la loro qualità. “Poche ma buone”, diceva mia nonna, riferendosi alle amicizie disinteressate che gli uomini riescono a costruirsi durante il loro percorso terreno. Occhiolino

commenti-blog

4. Commenti. Un commento è l’unico segnale che assicura, con buone probabilità di verità, l’avvenuta lettura di un post. In genere io non ricevo tanti commenti, ma quei pochi che arrivano mi danno grandi soddisfazioni perché premiano lo sforzo che ho compiuto per preparare il mio post settimanale. Io considero un premio (così la penso) anche i commenti poco favorevoli. Quello che a me interessa è essere letto e venire educatamente ripreso quando sbaglio o dico sciocchezze.

Termino qui, sperando di avere dimostrato a sufficienza che la meta raggiunta in questi giorni (20.000 visualizzazioni e 200 followers) è un risultato buono ma non così eccelso da doverlo festeggiare acriticamente offrendo a tutti cotillon d’oro e d’argento e champagne di marca. 

  • Pensierino della sera n. 4. Vero o falso che sia, sempre di un traguardo si  tratta, e allora mi chiedo: è così indecente mostrarsi felice?  Dunque, per comunicare la mia odierna gioia ai quattro lettori carissimi che mi ritrovo, invito tutti ad ascoltare insieme a me quest’allegro brano musicale che più vintage di così non si può… A bocca aperta

 

Nicola

Crediti: tutte le immagini del post odierno provengono da Internet e ai singoli autori va il mio ringraziamento.