Archivio per la categoria ‘Romanzo’

Care amiche, cari amici,

   permettetemi di lanciare uno spot pubblicitario su una gara letteraria a cui partecipo. So che non è una cosa molto elegante da fare in un blog, perciò prometto che questo annuncio non sarà ripetuto in futuro.

   Il fatto è che in famiglia hanno insistito così tanto che mi hanno convinto, per la prima volta nella mia vita, a partecipare a un torneo indetto dalla piattaforma Kobo, uno dei principali concorrenti di Amazon. Così, un mese fa, mi sono iscritto all’iniziativa "6 libri in cerca di un autore" realizzata dal Kobo Store in collaborazione con Mondadori Retail e Passione Scrittore e oggi sono pronto a sottopormi al giudizio di chi visiterà la pagina web dedicata alla tenzone fra autori auto-pubblicati:

Torneo di Self-publishingA

   Si tratta di una gara molto particolare che non prevede premi in denaro e nemmeno assicura un contratto di pubblicazione: il solo scopo è quello di dare a uno scrittore che da qualche tempo ha già auto-pubblicato un proprio libro su una piattaforma (nel mio caso, Amazon) la possibilità di godere, se rientra fra i  finalisti del torneo, di un pizzico di visibilità in più su un’altra piattaforma (Kobo Store, partner di Mondadori) dove il proprio romanzo verrà ripubblicato e rimesso in vendita. La locandina parla di 12 finalisti perché ci sono in ballo due gare separate, una che valuta 6 opere mai pubblicate prima e l’altra, 6 opere già auto-pubblicate da tempo ed è proprio di quest’ultima che vi parlo e a cui sto partecipando.

   L’idea è intrigante, visto che è proprio la visibilità ciò che manca a noi autori che ci auto-pubblichiamo (cioè che, per mille e una ragione, abbiamo deciso di evitare le case editrici tradizionali). Infatti, nell’infinito mare del web e nell’intero mondo letterario italiano e straniero, quanti sono al corrente che un certo Nicola Losito ha pubblicato uno o più libri? Tolti i parenti stretti e gli amici, praticamente non lo sa nessun altro. Quindi, ben vengano iniziative di questo genere che cercano di dare una (piccola ma importante) spinta a noi, emeriti sconosciuti.

   Termina qui il mio pistolotto introduttivo.

   Adesso, velocemente, vi spiego cosa deve fare chi vuole farmi entrare nella rosa dei 6 autori finalisti.

  – Il primo fondamentale passo da compiere è registrarsi gratuitamente nel sito Kobo-Mondadori:

 https://it.kobo.com/writinglife

   Ci si può registrare sia con il proprio account Facebook (come ho fatto io), oppure con l’account Google, oppure si può crearne uno nuovo gratuito su Kobo. Solo al termine della procedura di accreditamento è possibile continuare.

– Una volta registrati, potete visitare la pagina dedicata al concorso, cliccando su questo indirizzo:

https://www.kobo.com/it/it/p/Torneo

  – Compare la videata:

 Torneo di Self-publishingDTorneo di Self-publishingC

  Qui trovate le locandine di tutti i libri (circa un centinaio, per la cronaca) che partecipano alla gara. Sono previste 7 sezioni (Gialli e thriller, Romanzi d’amore, Narrativa e letteratura, Romanzi storici, Fantascienza, Fantasy, Young adult) su cui fare la scelta. Io partecipo nella sezione Narrativa e letteratura con il romanzo Io e Agata:

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   – Sul Kobo Store potete scaricare gratuitamente l’e-book, però, attenzione, questo contiene unicamente un’ampia sinossi del libro ed è proprio la sinossi che si deve leggere, commentare e valutare con le stelline direttamente sul sito che gestisce il concorso, cliccando sull’immagine del libro stesso.

– Una volta letta la sinossi, selezionando con il mouse la scritta "Scrivi la tua recensione", si ottiene la videata:

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  A questo punto siete pronti a esprimere la vostra opinione. Tutti campi presenti in questo form sono obbligatori, pena l’annullamento della scheda. Le sinossi dei libri che partecipano alla gara sono sottoposte a una “Recensione Collettiva” che si svolge nel periodo che va dal 21 dicembre 2016 al 20 febbraio 2017. Se qualcuno conosce la sinossi e ha già letto l’intero libro in gara, ovviamente, potrà esprimere il suo giudizio con maggiore cognizione di causa.

   Non vorrei influenzarvi (bugiardo! Occhiolino), ma l’unica valutazione di questo libro  ricevuta su Amazon, dove tutte le mie opere sono in catalogo, è stata lasciata da Viola Veloce autrice del noto romanzo Omicidio in pausa pranzo (ed. Mondadori) e ha questo tenore:

   Agata è una psicologa psicotica. Simpaticissima. La storia suona vera, e deve esserlo sul serio – da qualche parte – perché la sua personalità spumeggiante è come quella di uno di quei vini che escono dalla bottiglia per le troppe bollicine.
  Asciutto il linguaggio, pulito, senza tutti quegli aggettivi che a volte appesantiscono la narrazione.
   Ti fa pensare a quello che sarà il destino degli anziani folli.
   Ma ce n’è qualcuno di sano?

  Alcuni amici (virtuali) su WordPress hanno già letto e recensito “Io e Agata”, pubblicamente nel loro blog o personalmente via mail e di questo li ringrazio di cuore, comunque spero che mi sostengano ancora, riproponendo un loro giudizio sul sito del torneo.

Importante

  Per ringraziare tutti coloro che dedicheranno un po’ del loro prezioso tempo e donarmi così un po’ di visibilità sul Kobo Store, invierò gratis l’e-book con il testo completo del romanzo. Basta che mandiate la vostra richiesta a n.losito@alice.it e mi diciate quale formato del libro preferite (.mobi per Kindle, .epub per Kobo e tutti gli altri lettori elettronici, .pdf per chi intende leggerlo sul computer).

   Un cordiale saluto a tutti.
   Nicola

    Post Scriptum

   Notizia di oggi è che, a mio parere, c’è già un vincitore conclamato del torneo. Lo affermo perché, a differenza di tutti gli altri partecipanti (me compreso) che hanno zero o pochissime recensioni, c’è una scrittrice che partecipa con un libro autobiografico di 190 pagine sulla madre che, piangendo per i suoi guai, cantava che la vita è meravigliosa e che ha già ricevuto più di trenta valutazioni a 5 stelle. In pratica ha ormai staccato di infinite lunghezze tutti gli altri autori in gara, mettendo in paniere una seria quanto concreta possibilità di vittoria nella gara letteraria in corso.

  Avere così tante critiche entusiastiche significa che a) il libro è davvero stupendo, b) l’autrice dispone di tantissimi parenti, amici compiacenti e lettori anonimi soddisfatti che la sostengono a spada tratta.
  Nel caso a) mi tolgo tanto di cappello e m’inchino alla bravura della scrittrice.
  Nulla da contestare anche nel caso b) perché riuscire a coinvolgere un numero così grande di persone che hanno letto e apprezzato un libro e si prendono la briga di dichiararlo per iscritto in una gara fra autori sconosciuti, è un fatto veramente straordinario.

  E’ cosa straordinaria perché, pur avendo io numerosissimi parenti e una gran pletora di amici che frequento da anni e che, di sicuro, sanno che ho auto-pubblicato dei libri, nessuno di loro si è mai impegnato per commentare in Rete una qualsiasi delle mie opere, regalandomi visibilità o innestando il passa-parola. Spero vivamente che lo facciano ora… Sorriso Occhiolino

Ad maiora!

Il momento che stiamo vivendo è bruttissimo non solo per la cattiva situazione economica che c’è in molti paesi del mondo, compreso il nostro, ma anche per le terribili guerre che si stanno combattendo non lontano da noi. I morti e i feriti nei combattimenti ormai non si contano più e non fanno più nemmeno notizia sui giornali o sui telegiornali. Se potessi, con una bacchetta magica, farli terminare non ci penserei nemmeno un istante.  Vivere in pace sul nostro martoriato pianeta è un’utopia che i signori della guerra disdegnano a priori. Eppure la pace, a parole, la sostengono tutti…

Per distogliere dalla mente questi tristi pensieri, faccio ricorso a un breve capitolo del primo libro che ho scritto parecchi anni fa ricordando una guerra particolare e abbastanza cruenta, ma senza morti e feriti, a cui ho assistito quand’ero bambino.

Buona lettura.

Nicola

La guerra del latte

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L’estate del 1952 si presentava, in modo non difforme da tutte quelle precedenti, calda, stupendamente oziosa, inframmezzata dai soliti lavoretti fatti giusto per non dispiacere ai nonni che lo ospitavano nella masseria a Incoronata in Puglia.
I nonni confidavano molto in Nicola e nella sua capacità di affrontare con grinta la vita. Spettava a lui, in un futuro non lontano, portare la famiglia a un livello sociale più elevato e questo lo obbligava, quasi sempre, a comportarsi in modo da non deludere le loro aspettative.

Per nonno Pietro, Nicola da subito era diventato “il nostro ometto”.

Una simile definizione, se da un lato soddisfaceva la parte più profonda del suo io infantile, dall’altro, gli andava stretta e insopportabile proprio per la responsabilità che essa comportava. Lui avrebbe preferito mille volte di più potersi abbandonare a quelle gratificanti marachelle che sono il vero pane dei bambini della sua età.

Nonostante avesse solo dieci anni, Nicola aveva capito che conveniva dare ai nonni e ai genitori un’immagine di sé il più possibile rassicurante e matura: ciò faceva distogliere il loro sguardo vigile dalla sua persona quel tanto da permettergli un certo margine di manovra. In quei momenti di distrazione familiare, rari in verità, dava il meglio di sé e riusciva a godere di tutte le opportunità che la libertà e la sua fantasia gli offrivano.

Proprio in quei momenti nascevano le “azioni avventurose” più belle.

Con tale espressione, lui e il cugino Pietro, indicavano quei comportamenti che, una volta scoperti, avrebbero avuto ben altri appellativi e sarebbero stati salutati a scapaccioni e non certo a battimani.

Una di queste azioni, rimasta negli annali della famiglia Losito, fu la cosiddetta “guerra del latte”.

Ogni estate, alla masseria si riuniva una folla di parenti provenienti da diverse città d’Italia. I nonni Palmieri avevano generato sette figli e questi, sposandosi, si erano sparpagliati per tutta la penisola. La loro grande casa e le lunghe vacanze scolastiche erano il luogo e l’occasione adatti a riunirne buona parte. Nell’e¬state del ‘52 il lungo tavolo di cucina ospitava almeno venti persone tra adulti e bambini.

Fra questi c’era Pietro, il carissimo cugino di Roma.

Dopo pranzo, il nonno faceva sempre un breve pisolino seduto scomodamente sulla stessa sedia utilizzata poc’anzi per il pasto. La nonna e le donne di casa, figlie e nuore, rassettavano la cucina chiacchierando fra di loro a bassa voce per non disturbarlo. I bambini, se lo desideravano, potevano salire in camera per dormire o leggere.
In campagna non c’erano altre alternative. La temperatura esterna sconsigliava azioni più impegnative. Lui e il cugino Pietro, però, quel giorno non avevano sonno. I giornalini a disposizione erano stati letti e riletti più volte, per cui entrambi vagolavano annoiati per la cucina. Col proposito di fare qualcosa di diverso dall’ascoltare le chiacchiere delle donne, presero il corridoio che, attraverso l’atrio adibito ad attrezzeria, portava alla stalla. Anche qui, con i due cavalli da una parte e le sei mucche dall’altra, si respirava la stessa atmosfera oziosa del dopo pranzo.
Che inventare allora?
Saliti in groppa a Luna e Fiorello, da quell’alta e privilegiata posizione presero a imitare sfrenate cariche della cavalleria contro orde di indiani cattivissimi e dal volto variamente dipinto. A un certo punto, buttando l’occhio dall’altro lato della stalla e vedendo le enormi e gonfie mammelle delle mucche che ruminavano tranquille, a Nicola venne un’idea.

La comunicò al cugino e lui l’approvò immediatamente.

Fu così che i due bambini, afferrate per i capezzoli le mammelle delle due mucche più distanti e spremendole con forza diedero vita, con mirati spruzzi di latte, a una fantastica e combattutissima battaglia. Le mucche, per un po’ li lasciarono fare, poi cominciarono a dare segni evidenti di insofferenza, muggendo e scalciando nel contempo.

Era quello il momento di sospendere le ostilità e porre fine alla guerra.

La battaglia aveva però lasciato visibili macchie sui loro pantaloncini e magliette, macchie che, asciugandosi, si erano trasformate in striature giallastre accompagnate da un acre odore di latte, molto fastidioso all’olfatto. Fu questa la ragione per cui il ritorno in cucina dei due guerrieri non venne accolto con acclamazioni e applausi?
Parrebbe di sì. Il forte olezzo che viaggiava insieme a loro e la situazione disastrosa dei loro indumenti, trasformarono immediatamente l’esito della gloriosa tenzone in una storica disfatta. Mamme e nonni ci misero ben poco a capire cosa i due cugini avevano combinato nella stalla.

Nicola, rincorso da sua madre, si prese subito due solenni sculaccioni e una memorabile tirata d’orecchie. Pietro, prima che la sua potesse afferrarlo per affibbiargli la meritata punizione, fu raggiunto dal bastone che il nonno teneva sempre a portata di mano.

A quel punto successe il finimondo.

Mentre i due bambini piangevano a voce spiegata, la mamma di Pietro, offesa perché a punire il figlio fosse stato il suocero e non lei, iniziò a litigare con la madre di Nicola, colpevolizzandola per non essere mai stata capace in vita sua di bloccare in tempo le malefatte del figlio. Lei, per difendersi, contrattaccò facendo l’elenco delle cose orribili commesse da Pietro sin dal giorno della nascita. I nonni, nel tentativo di frenarle, difendendo ora uno ora l’altro dei nipoti, non fecero che provocare un ulteriore inasprimento della lite che proseguì furiosa per un paio d’ore.

Nessuno, nel frattempo, sembrava più interessarsi di Nicola e Pietro che, archiviato il pianto, si guardarono negli occhi e con gesti del capo e della mano si accordarono per salire in camera da letto e allontanarsi in fretta da un campo di battaglia diventato molto più pericoloso di quello affrontato prima nella stalla.
La guerra del latte si era rovinosamente trasformata nella ”guerra delle zie”, una battaglia così aspra e astiosa da lasciare tra le due donne strascichi e malumori mai interamente sopiti anche dopo anni di successive frequentazioni.

I due cugini, invece, amici per la pelle, nel giro di cinque minuti avevano dimenticato la punizione ricevuta. Dalla camera da letto situata proprio sopra la cucina, se la godettero un mondo nel sentire le loro madri mentre si beccavano in modo così acceso, impegnate, col procedere dello scontro, più nella strenua difesa della bontà e intelligenza del proprio figlio, che nello scusarsi del comportamento incosciente e birichino di entrambi.
Alla masseria una vera pace tornò solo al momento della partenza di Pietro per una nuova destinazione, una settimana dopo. La sua famiglia non si fermava mai per più di un mese in campagna: la loro vacanza, in agosto, proseguiva al lago di Lesina presso i nonni materni. Doversi lasciare così presto, per i due cugini era un grosso dispiacere: in barba alla nota insofferenza fra le rispettive madri, loro due si volevano un bene dell’anima. Il distacco era condito, come sempre, da lucciconi agli occhi. Per Nicola, in assenza del cugino, le “azioni avventurose” ancora possibili in quell’estate che stava volgendo al termine, sarebbero state purtroppo monche di un protagonista attivo ed efficiente.

Mio cugino, in seguito, intraprese la carriera militare in aeronautica, raggiungendo, alla fine, il grado di colonnello. Io, invece, mi laureai in ingegneria elettronica.
Da pensionati, di tanto in tanto, ci incontriamo e, come tutti i vecchi di questo mondo, spesso ricordiamo i bei tempi della nostra adolescenza.
Ci credereste?
Pietro non ha ancora dimenticato il colpo di bastone ricevuto, quella volta, dal nonno e a me provoca ancora sofferenza l’umiliante sculacciata infertami da mia madre di fronte a tutta la parentela.
Se lo incontraste e vi capitasse di parlare con lui della famosa “guerra del latte”, non dategli assolutamente retta.
Quel giorno, la battaglia con le mammelle delle mucche l’ho vinta io.
Giuro.

Bukowski-by-origa

    L’autore dell’immagine è Graziano Origa, Origafoundation – Opera propria, CC BY-SA 3.0

Care amiche e amici,
confesso che da tempo immemorabile avevo deciso di ignorare del tutto i libri di Charles Bukowski, uno scrittore famoso per l’eloquio sboccato e per gli argomenti quasi sempre sopra le righe con cui amava scandalizzare il mondo letterario a lui contemporaneo.

Su Wikipedia, infatti, si legge: "Henry Charles "Hank" Bukowski Jr. (Andernach, 16 agosto 1920 – San Pedro, 9 marzo 1994), nato Heinrich Karl Bukowski (noto anche con lo pseudonimo Henry Chinaski, suo alter ego letterario) è stato un poeta e scrittore statunitense di origine tedesca che ha scritto sei romanzi, centinaia di racconti e migliaia di poesie, per un totale di oltre sessanta libri. In questi tratta della sua vita, caratterizzata da un rapporto morboso con l’alcol, da frequenti esperienze sessuali (descritte in maniera realistica e senza troppi eufemismi) e da rapporti tempestosi con le persone. La corrente letteraria a cui spesso viene associato è quella del realismo sporco."

Qualche mese fa un amico mi ha regalato diversi libri di Bukowsi in formato ebook e, così, mi sono deciso finalmente ad affrontare quest’ostico scrittore tanto disprezzato da molti quanto amato da molti altri.
Il primo libro che ho scelto di affrontare è stato "Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze", colpito dal titolo davvero originale e, al contempo, parecchio auto-ironico.

Si tratta di una raccolta di racconti quasi tutti autobiografici in cui Bukoswki non smentisce la sua volontà di essere il più possibile sgradevole per il comune lettore, rivelando una sincerità al limite del masochismo (cioè consapevole di essere uno sporcaccione per nulla pentito) e riuscendo, in questo modo, ad accaparrare la simpatia di tutti coloro che riescono a digerire il turpiloquio altrui pur non professandolo mai personalmente. Tra i tanti racconti di questo libro ce ne sono alcuni godibilissimi, diversi troppo realistici sull’argomento sesso, altri molto profondi sulla scrittura e sugli scrittori di prosa e di poesia e sul rapporto conflittuale tra autori ed editori, questi ultimi, quasi sempre, incapaci di riconoscere il vero talento ma attenti unicamente al guadagno che uno scrittore di successo può procurare. Tra i brani che mi sono piaciuti ne ho scelto uno da proporvi perché esprime concetti condivisibili da chi, come il sottoscritto, non molti anni fa, si è calato (scioccamente) anima e corpo nel difficile mondo degli scrittori che sperano di raggiungere la fama con le loro opere letterarie, uscendone – per fortuna – senza essersi fatto troppo male. La casa degli orrori, per inciso, è l’ambiente dove uno scrittore vive e dove esercita la sua passione.

A presto.

Nicola

La casa degli orrori di Charles Bukowski

     Parlare di scrittura è come parlare d’amore o di fare l’amore o di vivere d’amore: se ne parli troppo puoi farlo svanire. Senza cercarli, ho, per mia disgrazia, incontrato molti scrittori, sia di successo che d’insuccesso – mi riferisco alla loro arte. Come esseri umani sono un branco di cattivi, un branco da disprezzare, lamentosi, egocentrici, perfidi. Una cosa che hanno quasi tutti in comune: ognuno di loro pensa che la sua opera sia grandiosa, forse la migliore. Se hanno successo prendono la cosa come scontata e dovuta. Se falliscono sentono che gli editori, le case editrici e gli dei sono contro di loro. Ed è vero che molti pessimi scrittori sono spinti e manipolati finché non raggiungono la cima, qualunque sia il motivo. È anche vero che molti bravi scrittori sono morti di fame, o sono quasi morti, o si sono suicidati, o sono impazziti, e così via, per essere riscoperti in seguito come talenti eccelsi (seppur morti). Questo dato storico infonde coraggio allo scrittore scadente. Gli piace immaginare che il suo (di lei o di lui) fallimento sia dovuto a una moltitudine di cose che esulano dal semplice fatto di avere scarso talento. Be’, ce ne sono tanti così.

     In più, quando penso agli scrittori che conosco, per lo più poeti, noto che sono sostenuti da altri – mogli, quasi sempre madri che si fanno carico del sostentamento economico di quelli che conosco. E vivono anche abbastanza agiatamente con televisori, frigoriferi pieni e appartamenti o case in riva al mare – quasi tutti a Venice o a Santa Monica, e prendono il sole di giorno, sentendosi sull’orlo della tragedia, questi miei amici (?) e poi di sera, magari una bottiglia di vino e un panino al crescione, seguito da una lettera piagnucolosa sulla loro indigenza, la loro grandezza indirizzata a qualcuno da qualche parte. Qualsiasi cosa pur di scrivere, lavorare, creare, buttare giù parole. Be’, credo che sia sempre meglio che lavorare a una punzonatrice. Le mogli e le madri lavoreranno alla punzonatrice, non preoccupatevi di quello. E i poeti, non avendo vissuto nel mondo là fuori, nel mondo reale, non avranno nulla su cui scrivere, ma scriveranno comunque con un ego grande così e tantissima noia.

     È praticamente impossibile scrivere sulla scrittura. Mi ricordo che una volta dopo avere tenuto un reading di poesia ho chiesto agli studenti: “Ci sono domande?”. Uno di loro mi ha chiesto: “Perché scrive?”. E io gli ho risposto: “Perché lei porta quella maglietta rossa?”.
     Essere scrittore danna l’anima ed è difficile. Se hai talento può lasciarti per sempre in una notte di sonno. Ciò che ti fa andare avanti nel gioco non è facile a dirsi. Troppo successo è distruttivo; la mancanza di successo è distruttiva. Un piccolo rifiuto può fare bene all’anima, ma il rifiuto totale crea bisbetici e pazzi, stupratori, sadici, ubriaconi e poeti mancati che picchiano le mogli. Tanto quanto fa il troppo successo.

     Anch’io sono stato fuorviato dal concetto romantico della scrittura. Da giovane ho visto troppi film sul grande Artista, e lo scrittore era sempre un tizio tragico e dannatamente interessante con un bel pizzetto, occhi lucenti e verità profonde che gli scaturivano continuamente dalla bocca. Che bello sarebbe essere così, pensavo, ah. Ma non è così. Gli scrittori più bravi che conosco parlano pochissimo, voglio dire, quelli che scrivono bene. Infatti, non c’è niente di più noioso di un bravo scrittore. Tra la gente o anche con solo una persona, è sempre occupato (nel subconscio) a registrare qualsiasi dannata cosa. Non gli interessa fare discorsi o essere l’Essenza della Festa. È avido, risparmia benzina per la macchina da scrivere. Parlando puoi allontanare l’ispirazione, con la bocca puoi distruggere il genio donatoti da Dio. L’energia arriverà fino a un certo punto. Anch’io sono avido. Bisogna esserlo. Le uniche energie a cui si può rinunciare, l’unico tempo che si può donare è il tempo per l’Amore. L’amore dà forza; distrugge odi innati e pregiudizi. Rende la scrittura più completa. Ma tutte le altre cose devono essere risparmiate per il lavoro. Uno scrittore dovrebbe effettuare quasi tutte le sue letture da giovane; mentre comincia a formarsi, la lettura diventa distruttiva – toglie la puntina dal disco.

     Uno scrittore deve continuare a scrivere, a colpire nel segno, o si ritroverà nei bassifondi. E non c’è modo di risalire. Perché dopo qualche anno dedicato alla scrittura, l’anima, la persona, la creatura non riesce più a operare in nessun altro campo. È inutilizzabile. È uccello in una terra di gatti. Non consiglio mai a nessuno di diventare scrittore, a meno che lo scrivere sia l’unica cosa che gli impedisca di impazzire. A quel punto, forse, ne vale la pena.

Fine

Contributi: Il racconto di Charles Bukowski è stato estratto dal libro Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze edito da Feltrinelli nella collana Universale Economica e a cui vanno le mie più sentite scuse per il furto perpetrato al solo scopo di informare i miei amici lettori. Un ringraziamento va anche a Wikipedia da cui ho estratto informazioni su Bukowski.

Prima di iniziare il post odierno, rielaboro per voi una mail inviatami da una cara amica a cui avevo scritto di avere letto Fama tardiva di Arthur Schnitzler e di esserne stato colpito profondamente.

Fama Tardiva

“Ciò che mi hai accennato sul libro di Schnitzler, mi ha entusiasmato: me lo voglio procurare in tedesco! Deve essere stupendo. Da quel che ricordo, questo autore viennese era molto psico-orientato per cui… senz’altro deve essere riuscito ad andare veramente a fondo sull’eterna questione fama o non fama che assilla ogni scrittore che si rispetti. Quante volte abbiamo discusso questo problema io e te? Ricordo che hai sempre fatto orecchio da mercante quando ho cercato di farti capire quanto fosse sbagliata la tua ossessione per il successo letterario. Se leggendo Fama tardiva hai finalmente preso di petto questo annoso problema, tanto di cappello al libro di Schnitzler! Vuoi conoscere qualche mio pensiero al riguardo?

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Secondo me tu non hai mai smesso di domandarti: “Ma IO il talento ce l’ho o non ce l’ho?” e così il tuo scrivere che era sciolto quando non pensavi di diventare uno scrittore famoso (mi riferisco a Ossi di pollo, la tua prima opera) si è incriccato quando hai tentato di salire la scalinata verso gli allori. Sbaglio a dire questo? Comunque sia, non hai ancora digerito il mancato riconoscimento delle tue capacità, e questo non ti ha dato e non ti dà la serenità che occorre per affrontare altre prove letterarie. A me è capitata la stessa cosa, temo.

Anch’io ho sognato di diventare famosa e ci sono cascata in pieno nella trappola dell’EGO e, se può farti piacere saperlo, ci cascano un po’ tutti: mio padre arriva perfino a citarsi!!!!
Non c’è ragione di deprimersi: anche in altri ambiti della vita si sente la frase “Povero diavolo…” rivolta a qualcuno che si sopravvaluta. Pensi che, scrittura a parte, io non mi renda conto di quali sono i veri sentimenti degli altri nei miei confronti? Capisco molto bene persino come mi valutano. Sai quante volte ho sentito qualcosa che suonava come “Povera diavola…” mentre ero sul palco a raccogliere degli onori che non avevo cercato ma che mi erano stati insistentemente offerti, come se mi spettassero di diritto, riuscendo a convincermi di meritarli? Beh, guarda, grazie a Schnitzler, ora entrambi conosciamo la verità vera: Nessuno – intendo proprio nessuno – merita né gli onori né la compassione. È questo il trucco da applicare a se stessi e agli altri, alternativamente.

Dovrai fartene una ragione, come ho fatto io: sappi che non è difficile. La serenità è proprio dietro l’angolo. Dopo avere toccato il fondo ed essermi scontrata con l’iceberg della realtà, io ho imparato ad accettare gli altri, le loro opinioni anche se non hanno nulla a che spartire con le mie. Mille volte avrei voluto che il mondo avesse letto e apprezzato i miei scritti perché così mi sarei sentita amata e riverita anch’io, tra l’altro senza aver nemmeno il retro pensiero vagamente altruista: “Chissà se agli altri piace quello che racconto?” ma avendo in testa soltanto quello totalmente auto-centrato: “Spero di non aver commesso errori nella consecutio temporum, perché IO non posso sbagliare”. Per quel che mi riguarda, tutto questo disagio io l’ho superato. Ora è il tuo turno.

Mi dispiace tantissimo che tu stia male: per sollevarti il morale ci vorrebbe una battuta ma io non ho il tuo sense of humour e poi oggi sono troppo stanca. Un solo consiglio: perché non fai una recensione del libro di Schnitzler, una di quelle tue divertenti, ironiche e profonde?”. Poi, eventualmente, ne riparliamo…

Snoopy scrittore

Provo a seguire il consiglio della mia amica: oggi sono dell’umore giusto per abbozzare un post dal sapore ironico…

Quest’anno, a Natale, ho ricevuto pochissimi regali, però erano tutti importanti: tra questi, quello che ho apprezzato di più è stato un libro intitolato Fama tardiva di Arthur Schnitzler (sottotitolo: Storia di un vecchio poeta) edito da Guanda. 
Sapendo che in passato ho scritto un certo numero di romanzi, evidentemente chi me l’ha donato intendeva spingermi a scriverne altri, augurandomi, al contempo, una futura quanto meritata gloria letteraria, ancorché tardiva. In realtà quel breve testo di Arthur Schnitzler, medico, scrittore, drammaturgo, nato a Vienna nel 1862 e ivi morto nel 1931 è tutt’altro che di auspicio a far riprendere in mano la penna a chi, da tempo, l’ha riposta in un cassetto, non avendo mai ricevuto un qualche riconoscimento pubblico del proprio talento. Ciò affermato, e questo è il grande valore del regalo ricevuto, Fama tardiva mi ha costretto a riflettere seriamente sulle mie passioni e sulle mie speranze attuali o pregresse. Vediamo come e perché…

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Fama tardiva parla di Saxberger, un vecchio signore che in gioventù (circa trent’anni prima) aveva pubblicato un libro di poesie intitolato Passeggiate, passato del tutto inosservato dalla critica e dai lettori. Costui, visti gli scarsi risultati della sua fatica e mostrando un notevole acume, aveva prontamente abbandonato la scrittura poetica e aveva cercato e trovato lavoro come impiegato di concetto in una ditta poco distante da casa e lì stava conducendo un’onesta, serena, quanto anonima carriera.

Snoopy scrittore di pancia
Un certo giorno (la vicenda si svolge a Vienna verso la fine del 1800) un giovane aspirante poeta di nome Wolfgang Meier trova su una bancarella il libro di poesie Passeggiate, lo acquista e, dopo avergli dato una veloce scorsa, rimane folgorato dalla bravura di Saxberger. L’intraprendente giovane, allora, si mette alla ricerca dell’autore del libro e, una volta incontratolo, comincia a elogiare le sue poesie chiamandolo con enfasi maestro, insomma lo ossequia così tanto che Saxberger, dopo un’iniziale perplessità, (da tempo il vecchio poeta aveva metabolizzato che se non aveva avuto successo in gioventù significava che la sua opera valeva ben poco) comincia a pensare di essere stato trattato ingiustamente dalla critica e dai lettori e accetta di entrare a far parte di un circolo di giovani artisti (poeti, commediografi, critici) che tentano di svecchiare l’ambiente letterario viennese, da sempre restio a dare credito alle nuove generazioni di letterati.

Il circolo, che si riunisce giornalmente in un bar molto frequentato, accoglie con grande entusiasmo e riverenza Saxberger, convinto che chi, da giovane, era stato in grado di creare Passeggiate avrebbe potuto sicuramente dare lustro a una congrega di artisti alle prime armi. In un primo momento Saxberger pensa che tutti lo stiano prendendo in giro, ma i continui apprezzamenti sulla sua unica e misconosciuta raccolta di poesie sono tanti e tali che lui stesso si convince di essere davvero un maestro dell’arte poetica a cui era stata ingiustamente negata la fama che si meritava. La presenza del vecchio poeta induce i frequentatori del circolo a preparare un evento letterario in cui declamare pubblicamente alcune loro composizioni poetiche o narrative, sicuri che la notizia, fatta circolare sulla stampa locale, che allo spettacolo sarà presente colui che aveva scritto un’opera fondamentale come Passeggiate, avrebbe avvantaggiato anche loro. Il gruppo chiede con insistenza a Saxberger di scrivere nuove poesie da leggere in occasione dell’evento programmato per la fine del mese successivo, dove sarebbe intervenuta una nota attrice di teatro a leggere, da par suo, sia i componimenti dei giovani autori sia le nuove poesie del maestro. Saxberger ci si mette d’impegno, prova e riprova, ma non riesce a produrre niente di nuovo: ormai è troppo arrugginito e l’ispirazione non gli arriva nemmeno andando a passeggiare nei luoghi dove erano scaturite le sue belle poesie giovanili. Il circolo non si perde d’animo e, per andare sul sicuro, decide di far declamare all’attrice alcune delle poesie tratte da Passeggiate.

A questo punto, Saxberger si è talmente ringalluzzito da comportarsi come se fosse effettivamente un grande poeta e quindi ascolta con una certa sufficienza, ma senza criticarli con la franchezza che meriterebbero, i modesti componimenti dei giovani autori appartenenti al circolo.
Arriva, finalmente, il giorno dell’evento letterario con spettatori paganti e con la presenza anche di alcuni giornalisti. Dietro le quinte i vari autori che si presenteranno sul palco sono, ovviamente, nervosi, ma il più nervoso di tutti è il vecchio poeta, anche se, dentro di sé, è convinto che sarà lui a ricevere gli applausi più scroscianti. La manifestazione, a sentire il calore degli applausi, sembra procedere bene. Quando l’attrice termina di leggere le poesie di Saxberger, gli applausi che lui riceve, presentandosi sul palco, sono pari a quelli di tutti gli altri autori che l’hanno preceduto, però, allo scemare del battimani, una voce sommessa, proveniente da chissà dove, pronuncia, rivolta chiaramente a lui, le parole: “Povero diavolo…”.
È un vero colpo al cuore per Saxberger che si aspettava, finalmente, il dovuto riconoscimento del suo grande talento poetico! La dura realtà dei fatti raccontava, invece, che tutti i partecipanti avevano ricevuto lo stesso plauso da parte del pubblico, ma solo a lui era stato rivolto quell’odioso commento…

Il giorno dopo sui quotidiani locali più in voga si parla poco di quell’evento letterario. Solo qualche striminzito trafiletto nelle pagine di cronaca più interne. In un’importante quotidiano letterario, invece, c’è una recensione negativa in cui venivano ironizzate tutte le performances dei giovani poeti e, in più, c’era una sottolineatura del fatto che uno di questi “giovani” fosse parecchio attempato… In un altro giornale a bassa tiratura, infine, c’è una recensione blandamente positiva, rivelatasi in seguito pilotata da Meier (proprio colui che aveva acquistato Passeggiate su una bancarella) in cui il recensore tesseva lodi equanimemente rivolte a tutti, aggiungendo, però, di attendersi a breve un miglioramento effettivo delle loro prossime prove d’autore.
Una brutta batosta per l’intero gruppo, ma soprattutto una nuova sberla in faccia a Saxberger.

Costui, allora, abbandona in silenzio il circolo che tanto lo aveva osannato e se ne torna mesto mesto a casa. Lo segue soltanto il più giovane del gruppo, quello che tutti prendevano bonariamente in giro a causa delle sue composizioni ancora troppo immature. Il ragazzo chiede al vecchio poeta il favore di leggere le sue poesie per avere da lui un parere da esperto. In cambio di questo favore lui promette di leggere il suo tanto osannato Passeggiate
Così, come ultimo e definitivo smacco, Saxberger, già depresso per quanto era successo durante l’evento letterario, viene a sapere che il ragazzino e tutti gli altri componenti del circolo di giovani artisti, pur lodandolo a gran voce, non avevano mai letto nessuna delle sue poesie contenute in Passeggiate.

snoopy scrittore pieno di sé 

Scusatemi, care amiche/amici, se mi sono dilungato tanto a raccontarvi la trama di Fama tardiva, togliendovi così il gusto di acquistare e leggere quest’ottimo e sottilmente ironico libro, ma l’ho fatto di proposito perché questo testo di Arthur Schnitzler mi ha davvero illuminato. Infatti, con qualche piccolo ritocco e pensando al mio vissuto di questi ultimi anni, la vicenda del vecchio poeta mi ha fatto venire in mente il gruppo di amici che, insieme a me, aveva partecipato a un paio di corsi di scrittura creativa e che sperava tanto nel successo letterario. Mi ha ricordato la fragile amicizia che si era instaurata tra di noi e la sottile invidia che permeava dentro di me (e penso anche negli altri) quando uno del gruppo otteneva un qualsivoglia modesto riconoscimento. Arthur Schnitzler con la sua scrittura ironica e modernissima mi ha edotto sull’inutilità di insistere nella scrittura credendo di avere qualcosa di eccelso da dire, correndo il rischio di sentirsi dire da qualcuno di avere scritto unicamente delle banalità. In verità, a differenza di Saxberger, finora nessuno, facendo in modo che io lo sentissi, mi ha dato del povero diavolo, però chissà quanti, dietro le mie spalle, avranno alzato il sopracciglio sfogliando i miei libri e decidendo così di non acquistarli e leggerli!

Fama tardiva mi ha fatto intendere di avere speso gran parte del mio tempo libero a produrre opere ammirate smodatamente solo da parenti e amici compiacenti, ma quasi del tutto ignorate dal grande pubblico e che, proprio per questo, è arrivata l’ora di cestinare i tanti sogni di gloria che mi rovinavano la vita.
Mi ha fatto sorridere, soprattutto, il pensiero che il libro di Schnitzler sia stato volontariamente scelto da qualcuno per farmi, fidandosi del titolo, un gradito regalo, quando invece, di primo acchito, leggerlo è stato come ricevere un bel pugno nello stomaco. A bocca aperta

Fortunatamente il malumore è durato solo qualche giorno e non sono caduto nel triste vortice della depressione, anzi, quel libro mi ha donato una salutare consapevolezza delle mie effettive capacità e questa, unita al mio noto sense of humour, mi ha aiutato a sgombrare in tutta fretta dalla testa anche l’idea alquanto pellegrina di considerarmi un romanziere ingiustamente valutato da critici e lettori.

Ovvio che non rinnego i libri che ho scritto in passato, tutt’altro, ma, da oggi in poi, al pari di Saxberger, li guarderò con l’occhio benevolo e maturo di chi sa che tutto ciò che si realizza con passione e sforzo mentale ha un valore intrinseco che può tranquillamente prescindere da critiche negative o riconoscimenti a cinque stelle provenienti da chicchessia.

Nicola

L'arte della poesia

Crediti: un sentito grazie a Charles M. Schulz per le esilaranti strisce di Snoopy e un ringraziamento va anche all’autore della splendida immagine qui sopra che descrive l’arte della poesia e dello scrivere in generale.

Metafora

Chiariamo subito la faccenda: io non amo le metafore in prosa. Per tante ragioni che provo a elencare:

1- Perché non sono capace di inventarle.

2- Perché rallentano il ritmo della narrazione.

3- Perché chi sa costruirle ne approfitta per seminarle ovunque nei propri libri.

Volete un esempio di scrittrice che le ama spudoratamente? Margaret Mazzantini. Di questa autrice, regista, attrice, ho letto un solo libro ed è stato sufficiente per convincermi a lasciare perdere tutti gli altri che ha scritto in seguito. In Non ti muovere, un romanzo di 295 pagine, lei ha piazzato almeno tre metafore in ogni pagina. Fate voi il conto di quante ne ha costruite. Se le cancelliamo tutte, il numero di pagine del libro si riduce a una interessante quanto breve sceneggiatura di un film di successo, presto dimenticato.

4- Perché spesso e volentieri le metafore sono così strane e complesse che (io) non le capisco. E questo mi irrita grandemente. Siccome mi reputo una persona abbastanza intelligente, (in vita mia ho studiato e letto molto) eppure gran parte delle metafore che incontro nel mondo letterario di oggi non riesco a decodificarle. Bene, siccome non mi piace parlare a vanvera, farò degli esempi tratti da un libro che ho appena finito di leggere e che ha vinto il premio Strega proprio quest’anno. Si tratta del romanzo di Nicola Lagioia, La ferocia:

La ferocia

Primo esempio a pagina 49:

“Gli accenti spostati sui tasti del pianoforte, i cluster e i silenzi improvvisi rimescolavano i concetti di prima e dopo perché il mondo risuonasse un tutt’uno già redento in ogni scheggia.”

Secondo esempio sempre a pagina 49:

“L’dea del sublime (ma come avere la prova che non fossero le farneticazioni di un imbecille?) andava di pari passo con l’ossessione computazionale.”

Terzo esempio a pagina 61:

“Per trovare il tono giusto provò ad attingere dai colleghi delle passate generazioni, quelli che aprivano talmente male le vocali da scuotere l’Unità del paese con lo strumento che avrebbe dovuto stringerle il collare.”

Quarto esempio, sempre a pagina 61:

“In lontananza si levava il mormorio della città poco prima del risveglio, un rumore di automobili senza automobili, la piccola tempesta elettrica dei tanti che, sul punto di riaprire gli occhi, rivivevano in poche frazioni di secondo il film della giornata che stava per iniziare.”

Quinto esempio a pagina 64:

“La voce del monsignore riemerse dal silenzio come si fosse spinta in un crepaccio e ora mostrasse i segni di una profondità che superava l’opinione personale”

Così, per curiosità, qualcuno riesce a immaginarsi com’è nella realtà la voce del monsignore? Sorpresa

Sesto esempio a pagina 67:

“Ogni tanto, tra le rughe che circondavano gli occhi dei presenti, pulsa un fastidio privo di abrasioni.”

Settimo esempio a pagina 68:

“Il corpo di sua figlia irradiava l’inspiegabile verità delle stanze nelle case in cui non abitiamo più da tempo.”

Ottavo esempio a pagina 70:

“Così questa ragazza, pensò spezzando l’ostia sopra la patena, indovinando solo in parte e non immaginando, per la metà su cui sbagliava, a quale distanza fosse dalla verità.”

Nono esempio a pagina 75:

“La notizia aveva iniziato a diffondersi affidata alla sovranità degli algoritmi.”

Decimo esempio a pagina 84:

“Aveva l’aria di uno che fatica a riprendersi da un brutto colpo – la parte materiale un po’ sfocata, lo spirito sbalzato avanti per l’impatto, sembrava prigioniero di un futuro da cui cercava di tornare.”

Infine, a pagina 89, un lungo paragrafo dove lo scrittore parla della campagna:

“Impaurita dalla moto, la lucertola si tuffò nei fili d’erba. Scomparve tra i rami lacerando nella fuga la tela del ragno salticida, il quale, ricomposta l’immagine del rettile attraverso i suoi otto occhi, era riuscito a evitare l’impatto. Il ragno zampettò. Il terreno secco e arido registrò l’informazione sovrapponendola all’alfabeto delle formiche che si incrociavano spezzando e biforcando e poi ricomponendo una linea che non era mai la stessa. La legge a cui obbedivano si modificava in loro confermandosi nella legge di ogni simile, riceveva nuovi impulsi dalle profondità del formicaio, poi da più lontano, dalla tremenda forza che cambia volto alle stagioni. La saliva passò di labbra in labbra e il cuore accelerò nel buio della sala cinematografica. La curvatura dell’addome si tese su se stessa e si spaccò. Sotto la spinta della muta, un’epidermide nuova di zecca venne fuori dalla morta carcassa di colore brunastro. Dopo aver lasciato che la cuticola si indurisse all’aria aperta, la cicala spiccò il suo primo volo. Atterrò su una foglia di rosmarino. Le lamine sotto l’addome cominciarono a vibrare, e un suono secco, simile a uno schiocco di dita, segnalò la sua presenza al mondo.”

A questo punto del libro, Nicola Lagioia deve essersi reso conto che non poteva continuare con questa sfilza di metafore (per me) decisamente difficili da comprendere e cambia registro, abbandona le metafore e si lancia in una ricostruzione dei fatti dove i flash back si alternano al presente in un modo così convulso e repentino che a volte si fa fatica a intuire in che tempo e in che luogo ci troviamo.

Il romanzo, per fortuna, prende quota nelle ultime sezioni in cui è diviso il libro: qui lo scrittore decide che è arrivato il momento di spiegare ai lettori qual è la vicenda e come essa andrà a finire. Ammetto che sono stato varie volte sul punto di abbandonare il romanzo al suo destino, ma, come sempre, sono arrivato in fondo. Concludendo, di sicuro Nicola Lagioia è un bravissimo scrittore che sa il fatto suo, avendo al suo attivo una grande padronanza della lingua italiana. Anche i suoi personaggi e l’ambientazione sono notevoli: pur con tutto ciò, rimane sempre fissa nella mia testa l’idea che questa sua indiscutibile capacità scrittoria sia spesa più a favore dei critici illuminati che lo leggeranno e lo voteranno in un qualche concorso letterario che per accontentare la pancia, il cuore e la comprensione di un semplice lettore qual io mi reputo.

Nicola

P.S. Mi perdonino i poeti che, invece, amano le metafore e, soprattutto, … le capiscono.

NicPerùR

Puntuale come un orologio svizzero, alla fine di un lungo riposo estivo, eccomi di nuovo qui nel mio amato blog per riprendere, con tutte le amiche e gli amici che mi hanno seguito in passato, il colloquio interrotto alcuni mesi fa. Il terribile caldo che ha imperversato sul nostro paese finalmente è finito e il mio cervello (quei due neuroni che mi sono rimasti) ha ripreso a funzionare quel tanto da permettermi di raccontarvi ciò che ho fatto durante la mia assenza dalla Rete.

Essenzialmente ho cercato di rimettermi in salute ma non sono stato sempre fermo nella mia casa di campagna. Ho fatto una breve puntata in montagna a Pinzolo e un’altrettanta toccata e fuga al mare di Rapallo sempre in compagnia di cari amici: qualche scarpinata su sentieri ombreggiati o tutti al sole, alcuni bagni in acqua salata e un po’ di piscina in campagna, giusto per sopravvivere alla calura di questa torrida estate.

In questi mesi ho letto 3 soli libri: La conquista del Perù di W.H. Prescott, Storia della bambina perduta di Elena Ferrante e Uomini senza donne di Murakami Haruki.

Il primo l’ho affrontato per documentarmi sulla storia degli Inca (scoperti e brutalmente sottomessi dagli spagnoli nella prima metà del quindicesimo secolo) per potere incontrare con un minimo di informazioni in testa i loro attuali e simpaticissimi discendenti  nel mio recentissimo viaggio in Perù. Il libro in questione è una rarità: pubblicato nel 1847 nella New England (Stati Uniti), tradotto in italiano e stampato nel 1959 dalla Editrice Le Maschere, l’ho trovato nella fornitissima biblioteca dei miei defunti suoceri. Oggi quest’impegnativo e interessante tomo, ristampato qualche anno fa da Newton Compton, non è più reperibile nella nostra lingua. Esiste, però, ancora in inglese e si può ordinare su Hoepli.it, la grande libreria on line.

Il secondo l’ho letto per curiosità: il fatto che l’autrice (o l’autore) fosse un nom de plume e, tra l’altro, fosse nella rosa dei probabili vincitori del premio Strega, mi ha spinto ad acquistare l’ultimo volume della quadrilogia. Nel seguito del post ve ne parlerò diffusamente.

Il terzo, essendo io un appassionato cultore di Murakami Haruki, non potevo assolutamente perderlo: leggere quei sei pregnanti racconti mi ha ulteriormente confermato che questo scrittore giapponese è uno dei più grandi autori di questo secolo. Vi consiglio, perciò, di acquistare Uomini senza donne! 

Dunque, quest’estate ho letto poco. In verità, non sono stato il solito fancazzista: gran parte del tempo libero l’ho dedicato all’ideazione e alla preparazione del mio secondo libro a fumetti (il primo, come ben sapete, è quello con protagonista Il Signor Giacomo che ha dato il titolo al presente blog). In questa nuova pubblicazione (ora in vendita su Amazon) racconto graficamente 100 avventure di Betta e del suo papà bellissimo. Coloro che mi seguono con assiduità conoscono già questa terribile/spiritosa ragazzina: infatti le prime 14 strisce sono visibili nei due post pubblicati prima della parentesi estiva. Comunque, la prossima settimana vi racconterò vita morte e miracoli di questo nuovo personaggio.

Adesso, invece, ecco alcune osservazioni sull’ultimo libro di Elena Ferrante:

FerranteStoriaBambinaPerduta

 

Dico subito che ho letto velocemente questo romanzo e mi è persino dispiaciuto che sia terminato lasciando insoluti due misteri. Aggiungo che è scritto benissimo e con un ritmo tale da far perdonare alcune ripetizioni necessarie per chi, come me, non aveva letto le prime tre parti della storia dell’amicizia tra due donne durata, fra liti e riappacificazioni, un’intera vita. I personaggi sono ben delineati e caratterizzati con maestria.

Premesso ciò, a questo punto dovrei esprimere un giudizio positivo sul libro che narra la maturità e la vecchiaia delle due protagoniste: Elena, la scrittrice e Lila, la sua amica geniale. Purtroppo non è così.

Se vado a considerare azioni e pensieri delle due donne e di tutti gli altri personaggi della saga che si svolge in una Napoli degradata e povera dove, per sopravvivere, molti sono costretti a compiere fatti e misfatti di ogni genere, sono costretto a dire che il libro mi ha deluso e amareggiato. Nessuno dei personaggi, comprese le due protagoniste principali, si salva da un giudizio morale estremamente negativo.

Le donne passano con scarso o nullo pentimento da un letto a un altro e lo stesso dicasi degli uomini: essere sposati o meno non fa alcuna differenza. Il sesso in un ambiente di sinistra (estrema, in taluni casi, fortemente critica verso lo stato e le istituzioni) dove interagiscono gli attori della storia è decisamente libero e viene considerato alla stregua di merce di scambio per ottenere vantaggi economici e posizioni privilegiate nella società. Il concetto di famiglia tradizionale, a cui io sono ancora legato, è completamente stravolto: i figli generati in questo bailamme di relazioni più o meno clandestine vengono spesso e volentieri lasciati in mano a nonni, suoceri, ex suoceri, ex mariti, amici che, bontà loro o obtorto collo, se ne prendono cura, salvo poi essere costretti a leggere disquisizioni filosofiche sui migliori metodi per educare la prole. Tutto questo comportamento “libero” è giustificato dal fatto di potersi “realizzare” nelle rispettive professioni. Bell’esempio di società da presentare ai lettori!

Elena e Lila sono due personaggi molto complessi ma decisamente riusciti, ma, a causa della loro scarsa moralità, non sono riuscito ad amarli, pur non essendo io un bacchettone. Nel quartiere degradato di Napoli, sfondo principe del romanzo, si finisce per giustificare tutto e il contrario di tutto, fino a proteggere la fuga e la latitanza di un terrorista rosso pluriomicida, e a guardare quasi con benevolenza la sua fermezza quando, catturato dalle forze dell’ordine, non esprimerà mai una parola di pentimento per tutto ciò che ha compiuto combattendo con le armi lo Stato, mentre la sua compagna di vita (che in prigione collaborerà con la magistratura) verrà considerata una bieca traditrice della causa anarco-marxista professata da entrambi in passato.

Non mi esercito a raccontarvi la trama di questo quarto volume non solo perché i personaggi e gli intrecci famigliari sono un vero zibaldone (all’inizio del quarto volume per fortuna c’è l’elenco delle famiglie, dei mariti, degli amanti, degli ex mariti e di altri personaggi coinvolti nei tre precedenti capitoli della saga, alcuni dei quali già morti, finiscono per essere solo un coro alle avventure/disavventure delle due amiche.

Ciò detto, capisco che parecchi altri lettori, non avendo le mie idiosincrasie politiche-moralistiche, possano amare questa complessa saga e possano considerare Elena Ferrante una grande scrittrice, essendo lei riuscita, con indiscutibile bravura, a creare una trama corposa piena di colpi di scena e mai noiosa.

L’ultima considerazione, tutta personale, che mi sento in dovere di fare è la convinzione che a scrivere questo ponderoso, approfondito affresco della Napoli dal dopoguerra fino ai nostri giorni, non è stata una sola donna ma un gruppo affiatato di scrittori (uomini e donne), nati e vissuti a Napoli, i quali hanno riunito le loro indubbie competenze e conoscenze della città per creare una saga tutta di sinistra e che hanno usato il nom de plume “Elena Ferrante” per raccontarla in italiano a un pubblico in grado di apprezzarla senza condizionamenti di alcun genere.

Sbaglierò, ma io la penso così.

Nicola

Solo gli imbecilli non cambiano mai idea, ha detto un intelligentone di cui non ricordo il nome. E allora anch’io, per non essere considerato tale, cambio un’idea.

Volete sapere quale?

Avevo promesso a me stesso che non avrei più parlato in questo blog dei libri che ho scritto, tanto parlarne o non parlarne, il risultato pratico è sempre lo stesso. Anzi a parlarne, stranamente, la mia ancorché scarsa popolarità tende sempre di più verso il basso…

Cosa mi ha fatto cambiare parere? La colpa (o il merito) è del motto che afferma: “Pubblicità è Progresso”, e io al progresso credo fermamente. Non fate smorfie: questo sentenzioso detto fa ridere pure me, ma uno scrittore sfigato (per carità, non sto parlando di me, ma in generale…) che non riesce a vendere nemmeno una copia dei suoi libri cosa deve fare per non deprimersi o per non considerarsi una pippa?

Spararsi? Darsi all’ippica?

Nessuna di queste drastiche alternative godono del mio favore. Siccome non voglio entrare in paranoia e, soprattutto, non è entusiasmante pensare di essere una pippa, ecco che, per raggiungere un pubblico più vasto dei soliti quattro amici e parenti, ho deciso anch’io di promuovere con la pubblicità le opere del mio (grande) ingegno. Se poi la mia posizione in classifica su Amazon resta ferma alla posizione 101.346, posso tornare a dire peste e corna della pubblicità e non prendermela più con me stesso… A bocca aperta

Bene, fin qui ho scherzato. La ragione vera per cui oggi vi parlo ancora dei miei libri auto-pubblicati è perché, qualche settimana fa ho ricevuto dalla cara amica Stravagaria, raggiungibile qui, la PRIMA recensione riguardante la mia più recente fatica letteraria “Io e Agata”.  Avendola trovata onesta, profonda e per nulla marchettara, mi sono convinto a riproporla nel mio blog, aggiungendo ad essa, come ulteriore mossa strategica, una locandina ispirata all’idea che la Pubblicità è Progresso.

Un grosso bacio, cara Viv: i tuoi complimenti e, soprattutto, le tue critiche, sempre costruttive, mi sono e saranno sempre preziose.

Lancio quindi un appello-preghiera  a tutti gli amici e ai followers del Signor Giacomo: leggete “Io e Agata” e provate a scriverne una recensione, non importa se lunga o corta: quelle (comprese le negative) che riceverò verranno pubblicate – con grande risalto – qui nel mio blog. Perciò, cari amici, datevi da fare!

Naturalmente rimane sempre valida la mia offerta di regalare a chiunque li richieda via mail (n.losito@alice.it) tutti i miei cinque libri in formato elettronico.

Nicola

Volantino Libri NicolaISBN

Recensione di Stravagaria


NuovaCopertinaAgata1 
Trecentoquaranta pagine di romanzo e due racconti in appendice che l’autore, blogger di cui ho già raccontato sulle pagine del mio blog, regala ai lettori che ne facciano richiesta.
Il romanzo alterna le voci narranti di Agata e Fabio attraverso una serie di scritti postumi che quest’ultimo – sposato con l’unica nipote con cui l’eccentrica zia abbia accettato in vita di mantenere un contatto – rielabora in forma di racconto incorporando i ricordi di quarant’anni di scontri e di proficue conversazioni letterarie.
Agata è una donna indipendente, fuori dagli schemi, che non ha mai accettato di legarsi a uomini di cui non fosse profondamente innamorata. Psicologa sui generis negli anni in cui viveva nella capitale lombarda, con l’avanzare degli anni si ritira a vivere in una villetta fatiscente dell’Oltrepò Pavese sorretta da un’ostinazione ai limiti del buon senso.
In costante oscillazione tra lucidità e piccole ossessioni, si abbandona all’acquisto compulsivo, all’accumulo di cianfrusaglie e alla naturale misantropia intellettuale del suo carattere secondo cui tutti gli esseri umani sono, nella migliore delle ipotesi, stupidi quando non addirittura imbecilli tout court, salvo restare vittima dei raggiri di coloro che tentano di approfittarsi del suo scarso acume negli affari.
Una donna brillante e di bell’aspetto che, pur vivendo una vita poco mondana, continua a inseguire la bellezza fino all’ultimo indossando con civetteria tutta femminile parrucche che ne nascondano i capelli diradati e canuti e facendo uso di costosissime creme antirughe che prosciugano le sue esigue finanze.
Un bel personaggio cui fa da contraltare Fabio, professore di lettere, affascinato dalla personalità esplosiva della zia acquisita, più volte indispettito dal suo carattere capriccioso e testardo cui contrappone un affetto sincero sorretto, con un pizzico di venalità, dall’allettante prospettiva di ereditarne la ricchissima biblioteca, per la quale nutre una vera e propria ossessione.
Se Agata è imprevedibile e stravagante, Fabio è un uomo tranquillo, un compagno solido dedicato all’insegnamento e alla famiglia cui sottrae tempo prezioso solo per inseguire il sogno della vita, ovvero di vedere il suo nome nell’Empireo dei grandi scrittori.
La figura di Marta, moglie di Fabio e nipote di Agata, è l’elemento di congiunzione che accompagna con silenziosa discrezione lo svolgersi del racconto. Un personaggio che non ama la ribalta, la cui personalità forte di donna sempre presente dotata di grande generosità e senso pratico si delinea tra le righe.
L’autore prende le distanze da Fabio sostenendo che non si tratti di un personaggio autobiografico ma che vi sia una qualche sovrapposizione, per lo meno quanto alle velleità di scrittore, risulta fuor di dubbio poiché gli attribuisce la paternità del romanzo di memorie giovanili Ossi di Pollo di cui avete già letto un post nel mio blog.
Personalmente – mi perdonerà Nicola Losito – trovo che questa concessione alla vanità letteraria finisca per togliere mordente al personaggio, confondendo inutilmente il lettore.
Il romanzo beneficia di una scrittura curata, di un tono leggero e autoironico e, a fronte di lunghe e faticose operazioni di stesura e di editing, che l’autore racconta con sincerità disarmante in una serie di post dedicati alla genesi e ai contenuti, il prodotto finale è un romanzo più che dignitoso con personaggi dalla personalità ricca e approfondita.
Lo stile di Nicola Losito è piacevole e gli si perdona volentieri un eccesso di manierismo che fa capolino di tanto in tanto con una levigatura eccessiva del linguaggio in cui mi sembra di ravvisare la primigenia riluttanza a separarsi da una frase particolarmente ben riuscita o la tentazione di accompagnare il lettore con spiegazioni eccessivamente dettagliate.
In buona sostanza se lo stile di Fabio porta la firma del Nicola Losito più costruito, passatemi il termine, a sorpresa gli va riconosciuto che le parti più convincenti e spontanee sono proprio quelle in cui si cala nei panni femminili di Agata e lascia a lei l’onere del racconto.
Il romanzo si chiude sulle ultime volontà di Agata, che finalmente ci rivela se Fabio sarà riuscito ad accaparrarsi la famigerata biblioteca e lo fa strappandoci un sorriso.
In appendice seguono due racconti.
“Francesco mio” il primo dei due, come segnalai tempo fa, è disponibile anche sul blog dell’autore. Ho un debole per questo racconto che è un piccolo gioiello di cui non mi stanco di dir bene e di cui continuo a consigliare la lettura.
Viv

 

Io e Agata 3D

Io e Agata 3D back

Quella che vedete sarà la copertina della versione cartacea di Io e Agata realizzata per CreateSpace. Coloro che hanno letto il post della settimana scorsa avranno notato che è parzialmente diversa da quella della versione e-book. Ho dovuto modificarla per necessità. Lo sfondo marmorizzato che contraddistingue l’e-book non permetteva una facile lettura del testo nella quarta di copertina e per questo, ho dovuto cambiarlo. Dopo questa (inutile) notizia entriamo nello specifico del romanzo.

I personaggi principali sono tre: Agata, Fabio, Marta.

Marta è la moglie di Fabio. Di lei non ho potuto fornire ulteriori notizie. Mi è stato tassativamente proibito di descriverne l’aspetto fisico e i suoi intimi pensieri. Posso solo aggiungere che Marta è una donna di carattere, col cuore grande come una casa, ed è la nipote preferita di Agata. Il romanzo, sia chiaro, è di fantasia, ma alcuni personaggi, tra cui Marta, assomigliano molto a personaggi reali. Nel testo, comunque, disobbedendo un pochino all’impegno preso, la personalità di Marta emerge  chiara ed evidente.

Fabio, l’Io del titolo NON sono io, cioè l’autore del libro, ma è un simpatico signore laureato in lettere antiche che ha insegnato in un liceo di Milano. E’ doveroso sottolinearlo: io (scritto in minuscolo), infatti, sono un ingegnere elettronico a riposo e ho caratteristiche e aspirazioni del tutto diverse da quelle dell’Io, Fabio. Sbaglierà chi ravviserà in alcune fissazioni di questo personaggio le stesse che, in alcuni momenti della sua vita, ha manifestato il blogger Nicola. Fabio, da sempre, insegue il sogno di diventare un grande scrittore e di arrivare a possedere una libreria con un numero infinito di libri. Nicola si accontenta dei mille e passa libri che ha letto, inoltre, ben presto, ha capito che gli manca quel misterioso quid che permette a pochi eletti di raggiungere l’immortalità in campo letterario.

Agata, la minore delle due sorelle del padre di Marta, è una psicologa per vocazione e predisposizione mentale. Benché non avesse conseguito la laurea, esercitò con successo questa professione per parecchi anni. I suoi pazienti la chiamavano dottoressa con deferenza e affetto perché riusciva sempre a risolvere i loro disturbi mentali, emotivi e comportamentali. Agata era una psicanalista sui generis: curava la mente degli esseri umani sfruttando non solo l’ascolto ma il benefico influsso terapeutico delle piante. Il suo studio, infatti, era una specie di foresta tropicale dove trovavano posto solo una sedia per l’analista e una chaise longue per il paziente. Sono pochi quelli che non uscivano guariti dalle sue sedute. La sua cura, però, non era adatta a tutti. Chi soffriva di rinite allergica o di pollinosi veniva gentilmente invitato da lei a rivolgersi ad altro analista.

A sentire la campana dei famigliari, Agata non godeva di altrettanta considerazione. La sua originalità, manifestata abbastanza presto nel corso del suo cammino terreno, veniva da loro considerata fuori da ogni regola logica: tanta originalità faceva pensare che le mancasse qualche rotella. Matta come un cavallo era l’espressione con cui – carinamente – veniva ricordata nelle conversazioni in famiglia quando ci si riferiva a lei e alle sue azzardate scelte di vita.

Fabio conosce Agata il giorno del suo matrimonio con Marta e, subito, tra la psicologa e il professore di lettere nasce un sentimento di reciproca simpatia che nemmeno i tanti contrasti che avranno nel tempo, riusciranno a distruggere. 

Marta mi presentò a sua zia il giorno delle nostre nozze, durante il rinfresco, al termine della cerimonia in Chiesa. Lei mi diede una rapida occhiata e pronunciò una frase che ricordo ancora:
«Così questo è tuo marito? Beh, non è una gran bellezza, ma credo che ti farà felice!»
Lo disse sorridendomi apertamente e senza il minimo imbarazzo, facendo nascere nella mia testa quei sentimenti contrastanti che segnarono sempre i nostri rapporti: profonda attrazione per la sua fisicità, ammirazione per la vivacità della sua mente ma anche disapprovazione per certi suoi atteggiamenti sgarbati verso chi reputava non alla sua altezza.
Ho pensato parecchie volte a quella sua frase e non ho mai capito come abbia potuto esprimere un simile giudizio pochi minuti dopo avermi conosciuto. Riguardo al mio aspetto, non so se fece solamente dell’ironia, (in quel momento ero un ragazzo niente male) oppure se, con la lungimiranza degli indovini, riuscì a vedermi come sarei stato nella decadenza fisica dei settant’anni. Di sicuro centrò in pieno che avrei fatto del mio meglio per rendere felice sua nipote. Marta voleva dei figli e ne abbiamo avuti quattro e, in quasi mezzo secolo di vita matrimoniale, abbiamo avuto più momenti belli da ricordare che periodi brutti da dimenticare.

Ad accomunare Agata e Fabio sono la passione sfrenata per i libri. Agata, tra l’altro, dispone di una ricca biblioteca a cui Fabio farà apertamente il filo, sperando di entrarne in possesso alla di lei dipartita.

Quando Marta me la presentò, Agata mi piacque subito e ancora di più l’apprezzai quando seppi che non era sposata e che possedeva una biblioteca che dire fantastica è dire poco. Da allora mettere le mani sui suoi libri divenne il mio freudiano fort-da, un ripetitivo gioco del rocchetto che praticai negli anni con tenacia degna di ben più redditizi traguardi. Mille volte rimuginai fra me e me che, catturando con astuzia la sua benevolenza oppure utilizzando metodi di persuasione violenti, avrei avuto la possibilità di realizzare la seconda delle mie ossessioni. In realtà non pensai mai di ammazzare Agata per far sì che la sua biblioteca diventasse mia in anticipo però, visto il carattere spigoloso e ondivago di quella donna, ci andai molto, molto vicino…

A sessant’anni Agata decide di lasciare Milano, vende il suo prestigioso  appartamento e con il ricavato acquista una villa nella collina pavese a una quarantina di chilometri dalla città dove ha vissuto ed esercitato la sua professione. Questa svolta nella sua esistenza si rivelerà una scelta poco ragionata e, da quel momento in poi, comincerà il suo lento ma inevitabile decadimento fisico e mentale. Questa discesa all’inferno della ragione sarà da lei combattuta con caparbietà, aiutata dall’amorevole e costante presenza di Marta che  ha promesso a suo padre di vegliare – vita natural durante – su questa parente riottosa ad accettare regole e divieti della società del suo tempo.

Anche Fabio, con sempre in testa il pensiero fisso di entrare in possesso  della biblioteca di Agata, parteciperà a questa azione di supporto morale ed economico messa in essere da sua moglie per rendere meno solitaria e degradata la vita di una donna che sta invecchiando malamente in un luogo, Strà Ferrari, composto di quattro case in croce e nemmeno segnalato nelle carte topografiche.

Agata e Fabio, due personalità molto diverse fra loro, si incontrano e scontrano, si amano e litigano senza freni, come sempre avviene tra persone legate da amorosi sensi. Dunque, Io e Agata altro non è che il romanzo di due vite solidamente ed empaticamente intrecciate.

Fabio, sin da bambino ama leggere e scrivere. Entrambe queste passioni – vere e proprie ossessioni –  saranno la sua dannazione. Tutti sanno, all’infuori di lui, che scrivere con l’idea fissa di diventare uno scrittore di successo non è il modo migliore per affrontare con serenità e profitto la pagina bianca. Potrà l’Agata psicologa aiutare Fabio a superare indenne le tante delusioni che comporta l’attività dello scrivere senza avere mai gratificazioni? Agata, abituata a spendere in maniera scriteriata (la sua  famiglia era parecchio benestante), saprà affrontare senza davvero impazzire le ristrettezze economiche con cui, da un certo punto in poi, è costretta a convivere?

Il romanzo affronta e cerca di dare una risposta a queste problematiche e a tanti altri temi (i rapporti interpersonali, l’amore, la vecchiaia, la solitudine e la malattia) che si presentano pressanti e, a volte, irrisolvibili, nella vita di tutti gli esseri umani.

Io e Agata si sviluppa in 72 capitoli e con due racconti in appendice. Le voci narranti sono due. Agata e Fabio si alterneranno sulla scena per parlare della propria esistenza, entrambi sotto l’egida di Marta, personaggio volutamente tenuto in sordina, ma che rappresenta la saggezza e l’amore incondizionato in un mondo che, quasi sempre, è disordine, cattiveria, dolore e incomprensione.

Nicola

P.S. Andate su www.amazon.it e iscrivetevi (è gratis), scegliete la categoria Libri e cercate Io e Agata oppure Nicola Losito: nella videata che compare potete trovare il mio e-book e leggerne, senza alcun impegno di acquisto, i primi otto capitoli. Se trovate di vostro interesse il romanzo, è possibile comprarlo a 1,56 Euro, o richiederlo, in via gratuita, scrivendomi alla mail n.losito@alice.it.

A metà Novembre, se non ci sono intoppi, sarà disponibile anche la versione cartacea di Io e Agata. Un consiglio disinteressato: questo libro potrebbe essere un simpatico regalo di Natale per gli amici. Caldo Occhiolino

E, per finire, ecco una strip del Signor Giacomo:

Striscia70a

 

Comunicazione di servizio

NuovaCopertinaAgata1

Finalmente è uscito su Amazon Io e Agata, il libro di cui vi ho parlato tante volte e di cui ho già pubblicato sul blog un certo numero di capitoli di assaggio: Francesco mio, I cinque cani e la seduta psicanalitica e Affinità Elettive. Per il momento si tratta solo della versione E-book, ma presto sarà disponibile anche quella cartacea. Sto solo aspettando la bozza di prova da parte di CreateSpace e poi darò l’ok alla possibilità di prenotare il libro stampato e rilegato.

Comincio a dirlo oggi, ma lo ripeterò infinite volte in futuro, tutti i libri che ho scritto fino a questo momento, pur essendo già disponibili a pagamento su Amazon a questo indirizzo, potete averli gratis direttamente da me. Perché li regalo? Semplice. Il mio scopo non è guadagnare royalties vendendo libri, bensì ottenere gratificazione/ amarezza sapendo che i prodotti della mia fantasia sono apprezzati/ stroncati. Le versioni GRATUITE sono COMPLETE al pari di quelle a pagamento e sono disponibili nei formati più comuni per pc, e cioè come .pdf (leggibile con Adobe Reader), come .epub (leggibile con Adobe Digital Editions), come .mobi (leggibile con Kindle Previewer). I programmi di lettura citati sono scaricabili anch’essi gratuitamente da Internet.

Basta che mi scriviate una mail all’indirizzo n.losito@alice.it e, a stretto giro di posta, riceverete i libri nel formato che preferite.

Inoltre, presto, farò una promozione per scaricare gratis da Amazon la versione adatta ai lettori elettronici in commercio: naturalmente, quando sarà il momento, vi avviserò.

Finita la comunicazione di servizio, adesso vorrei parlarvi di come, quando e perché è nata l’idea di Io e Agata e delle grandi difficoltà che ho incontrato nel portare a termine quest’opera che – di sicuro – è e sarà il mio canto del cigno.  La ragione, toccandomi le parti basse, non dipende dal fatto che è arrivata la fine della mia corsa terrena, ma dalla constatazione che, alla mia età, non ho più l’energia mentale e fisica per scrivere un nuovo romanzo. Questo libro mi ha succhiato via ogni mia residua capacità letteraria (se mai ne ho avuta una) e anche tutta la fantasia che possedevo. Credetemi, esco completamente svuotato da quattro lunghi anni di scrittura spesi sempre sullo stesso soggetto, e con sul groppone un numero esagerato di revisioni, proprio per tentare di offrire a un eventuale lettore un prodotto letterario il più accurato possibile. In questi quattro anni molti amici mi hanno aiutato, soprattutto la cara Sissa che, al pari di me, ha letto e rivisto praticamente tutte le versioni che si sono succedute nel tempo. Lei ha vissuto le mie stesse esaltazioni e le mie stesse delusioni quando, finito l’editing della versione corrente e riprendendo in mano una pagina a caso, ci si accorgeva di qualche errore (nascosto o non visto) o di qualche svista sia grammaticale sia logica sia temporale della trama. E allora, via, pronti a ricominciare daccapo per sistemare l’inghippo. Come diceva un grande scrittore, a volere essere pignoli, un libro non è mai finito, e ci sarà sempre qualche bug, qualche errore di battitura di cui, anche dopo n riletture, nessuno si è accorto.  La colpa, il più delle volte, è da addebitare alla nostra mente di lettori veloci.

Mi spiego.

Quando leggiamo mentalmente, in realtà non leggiamo, parola per parola, il testo che abbiamo sotto gli occhi, ma compiamo una sintesi per cui, a volte, non ci accorgiamo di quei piccoli errori che si fanno mentre si scrive velocemente al computer.

Un esempio di bug difficile da scovare?  “L’uomo prese discutere della faccenda”. Scoprire che manca la congiunzione “a” tra “prese” e “discutere” non è facile se si legge velocemente.  La nostra mente sa che la congiunzione tra quei due verbi ci deve essere e non si accorge che, in realtà essa manca. Nel mio libro, un tomo di circa 400 pagine, errori di questo genere ne abbiamo trovati parecchi… e chissà quanti altri ce ne sono!

Io e Agata nasce da un mio racconto umoristico, pubblicato qualche anno fa su un sito web di scrittura amatoriale, che parlava di viaggi nella campagna pavese compiuti in macchina insieme a mia moglie, per andare a trovare una vecchia zia che viveva in uno sperduto paesino situato in cima a una collina. Oltre alla difficoltà di trovare quelle quattro case in croce, c’era da considerare il gran numero di strade che collegano Milano a Pavia: mia moglie, annoiata dalla poca bellezza della campagna pavese, mi faceva cambiare strada ogni volta che andavamo o tornavamo da quelle visite periodiche e, spesso, sbagliavamo strada all’andata o al ritorno, complici la fitta nebbia che d’inverno copre quella zona e la scomparsa, nelle tante rotonde che nascono ovunque come funghi da un giorno all’altro, dei cartelli indicanti la direzione da e verso Pavia oppure da e verso Milano.

Sbagliare strada e litigare con mia moglie – in realtà bravissima navigatrice al pari di un piccione viaggiatore –  era diventato il leit motif  dei nostri viaggi in auto quando si andava a far visita a quella vecchia, simpatica, intrigante, originalissima zia che, appunto, si chiamava Agata. Il racconto ebbe un notevole successo e così mi venne l’idea di creare attorno a quel personaggio un vero e proprio romanzo.

Appena completato il libro, (un testo di un centinaio di pagine) lo pubblicai a puntate su quel sito web amatoriale, chiedendo, al contempo, consigli per migliorarlo. Ricevetti buone accoglienze ma zero dritte e fu letto, non mi vergogno a dirlo, da un numero modestissimo di persone. Capii, proprio allora, che pubblicare in rete un romanzo a puntate è una scommessa persa in partenza. Anche se si tratta di un capolavoro, sono ben pochi i webnauti che hanno la pazienza di seguirlo fino alla fine. Già è faticoso leggere una mezza paginetta al computer, (Twitter insegna) ovvio che tenere sveglia l’attenzione di un lettore davanti allo schermo, per leggere tre o quattro videate per volta è praticamente impossibile.

Dopo questa quasi-fallimentare esperienza, revisionai più volte Io e Agata, ne stampai tre copie e le diedi da leggere a tre mie amiche. Non mi dilungo perché su questa faccenda ho già scritto un post nel giugno del 2011 e, se ne avete voglia, potete andarvelo a leggere. Se non ricordo male ero all’ottava revisione e la storia – a mio parere – cominciava a funzionare. Avevo persino introdotto un prologo per spiegare quali erano i miei intendimenti.  Naturalmente quel prologo si è poi disperso in vari rivoli…

Il risultato, per chi ha letto i miei precedenti post, è noto. Lo ripeto brevemente per i nuovi lettori.

Ebbi tre pareri diversi. Uno di questi fu – papale, papale –  di gettare il libro in pattumiera. Immaginatevi la mia delusione! Ovviamente non lo buttai. Chiusi il romanzo in un cassetto e passai a fare altre cose.

Superata, dopo diversi mesi, la grande crisi psicologica provocata da quei tre giudizi così discordanti, feci tesoro delle critiche costruttive di tutte e tre le amiche e mi misi a riscrivere daccapo il libro.  A questo punto lasciai in animazione sospesa le due signore che mi avevano scritto critiche parzialmente positive e instaurai con la terza, quella più esigente, un rapporto diretto di consegna manoscritto, lettura, critica, riscrittura, consegna manoscritto, lettura, critica, riscrittura… eccetera: rapporto che è durato circa due anni, fino ad arrivare all’odierna versione (la sedicesima) da lei accettata ancora con qualche piccola riserva, ma accompagnata da un giudizio – finalmente – positivo. Sissa e io – in tutta evidenza – siamo due perfezionisti, ma lei è sempre un chilometro avanti a me su cosa si debba intendere per perfezione. A bocca aperta

Oggi termino qui: mi sono dilungato fin troppo. Nel prossimo post entrerò nello specifico della trama di Io e Agata.

Anche il Signor Giacomo ha avuto dei problemi con la sua produzione letteraria:

Cattiveria

Un caro saluto a tutti.

Nicola

P.S. Le scritte in rosso sono dei link (collegamenti) dove potete trovare i libri, i racconti, i software indicati.

Saluti

Carissimi amici,
con il post odierno termina la mia esperienza di blogger. Terrò aperto questo spazio solo per eventuali avvisi.
Ovviamente lascio il blog a disposizione dei webnauti. Chi vorrà leggere i miei 100 e  passa post pubblicati in questi anni, potrà sempre farlo e, statene certi, mi farà piacere. Chi conosce il mio indirizzo mail e desidera comunicare con me, può farlo tranquillamente. Risponderò a tutti.
La ragione di questa decisione è la solita: stanchezza per la grande fatica di produrre, ogni settimana, il compitino da pubblicare sul blog. Non ho più l’età per mantenere questo impegno. Sono sempre più convinto che scrivere deve essere un piacere, altrimenti è solo una sofferenza inutile. Non sono stanco solo per questo. La verità è che, in questi ultimi mesi, non sono stato con le mani in tasca. Non ho fatto il fancazzista, come dicono, scherzando, i miei amici ancora in attività. Anch’io, alla mia maniera, sono stato parecchio laborioso.

1. Sto insegnando italiano in una scuola serale per stranieri. (Una ragazza indiana mi ha  chiesto il significato di minchia! e cazzo! le esclamazioni più usate dalle persone che ha conosciuto in Italia e mi ha davvero messo in imbarazzo…)

2. Da diligente  blogger ho preparato con cura i miei post settimanali. (Ma ad avere più successo sono state le facezie/barzellette non mie…)

3. Ho letto e commentato molti post dei miei amici virtuali. (Spesso rosicando per la loro bravura e per il numero esagerato di commenti  lasciati da splendide fanciulle che a me non m’hanno mai degnato di un‘occhiata…)

4. … qui non scrivo niente per il semplice fatto che non si può spiattellare proprio tutto della propria vita privata!  A bocca aperta

5. Infine, ho rispolverato il romanzo che, da anni, riposava in un cassetto in attesa dell’ultima e definitiva revisione.  Per portare a termine questo (per me) gravoso compito ho speso gran parte delle mie energie mentali. Tutti sanno che scrivere un buon romanzo è una cosa difficilissima, mentre scrivere una ciofeca, è facilissimo… Basta vedere il numero spropositato di romanzi inutili che vengono pubblicati in Italia e nel mondo ogni anno. Per questa ragione, non volendo incrementare di un’altra unità gli inutili seller, ho lasciato riposare il mio romanzo per quattro anni nel cassetto. Quando, sei mesi fa, l’ho riletto, mi è venuto da piangere… Non certo per la gioia o la commozione, ma per avere perso tanto tempo a scrivere un’opera così sconclusionata. Quanti anni ho sprecato in questa avventura! Anni  che, invece, avrei potuto dedicare al divertimento e alla vita sociale?!  Tanti, troppi.
Pagine che mi sembravano geniali si sono rivelate, a una nuova e più attenta lettura, solo delle banali ripetizioni di pensieri già pensati e masticati da migliaia di altri pseudo scrittori prima di me.
Sono stato più volte sul punto di buttare definitivamente quel mio parto letterario nella pattumiera. A fermarmi è stato il ricordo delle revisioni/recensioni regalatemi da due amiche a cui, qualche anno fa, avevo dato da leggere quel mio ultimo e più sofferto romanzo. 
Il parere della prima amica era stato abbastanza positivo e su alcuni capitoli c’era persino appuntata l’esclamazione: bello! Il suo consiglio era stato di lasciare riposare qualche mese il libro e poi di rivederlo in alcuni punti. Solo così sarebbe stato pronto per la pubblicazione. 
Il giudizio della seconda amica era stato tragicamente negativo. Pagine e pagine cassate senza pietà, interi paragrafi cancellati… insomma, una vera tragedia. Il suo consiglio era stato di lasciare riposare qualche anno il romanzo e poi di riscriverlo di sana pianta! A suo parere, se l’avessi lasciato così, non sarebbe mai stato pronto per la pubblicazione.
Curiosamente queste due recensioni così diametralmente opposte, mi avevano convinto che, in fondo, il mio libro non era da buttare, ma necessitava di essere ulteriormente pensato, elaborato e riscritto.
Ecco perché ho lasciato passare quattro lunghi anni prima di riprenderlo in mano. Toccava a me di separare il grano dal loglio e di portarlo a una forma più acconcia e intrigante. Per compiere questa ultima revisione ho impiegato cinque mesi, lavorandoci su giorno e notte e, solo pochi giorni fa, sono arrivato a scrivere la parola fine. E, purtroppo, non sono ancora sicuro che il risultato finale sia soddisfacente! 
I cinque punti elencati dovrebbero spiegare il mio attuale stato di salute e giustificare il perché devo, forzatamente, mettere in animazione sospesa il mio amato blog. 
Sono svuotato non solo psicologicamente  ma anche fisicamente e ora sento la necessità di chiudere per un bel po’ con la scrittura. Devo riprendere fiato e rimettermi in sesto.
Appena potrò, trasformerò il libro in e-book e lo auto-pubblicherò su Amazon. Alcuni di voi conoscono già il titolo del romanzo, avendone io già presentato due capitoli nel blog, alcune settimane fa. Si tratta di “Affinità elettive” e di “I cinque cani e la seduta psicoanalitica” che avete accolto con cortese benevolenza. Per ringraziarvi, ho pensato di farvi una promessa e di sottoporvi, come mia ultima presenza su WordPress, un altro capitolo  di Io e Agata a cui io tengo in modo particolare.
La promessa è questa: se e quando Io e Agata sarà in vendita su Amazon farò in modo che tutti possiate leggerlo gratuitamente. Vi avviserò con una mail, oppure scriverò su questo blog come fare per scaricarlo gratis. 
Il terzo capitolo che presento oggi s’intitola Francesco mio. Questo è un mio vecchio racconto, rivisto e corretto, che comparirà nell’appendice di Io e Agata anche se è parte integrante della vicenda che narro nel romanzo. Il brano è piuttosto lungo, ma mi piacerebbe che lo leggeste e, bene o male, che qualcuno lo commentasse. Senza nessun obbligo, ovviamente.

Siccome questo è il mio ultimo post vorrei togliermi un sassolino dalla scarpa, ben sapendo che "la cosa peggiore che può capitare a una domanda è la risposta".
Io non conosco a fondo l’inglese, però ho sempre pensato che follower volesse significare seguace, uno che ti segue. Pare, invece, che su WordPress questo termine forestiero abbia un altro significato. Mi spiego: in quasi tre anni di mia assidua presenza su questa splendida piattaforma ho collezionato circa 280 follower, ma di questi solo il 10% si sono fatti vivi e hanno colloquiato qualche volta con me… ma tutti gli altri seguaci dove si sono nascosti!?
Forse, per questo corposo gruppo di blogger,  follower significava che dovevo essere io a seguire loro?  In verità per un po’ l’ho fatto poi, vedendo che non c’era reciprocità di amorosi sensi, ho abbandonato la partita.
Capita così anche a voi? Questa è la mia domanda da un milione di dollari…
Comunque, a volte esagero a lamentarmi. Infatti, tra i miei sostenitori silenziosi, posso vantare una parrucchiera che ha inventato e pubblicizza uno shampoo miracoloso, e un simpatico signore che promuove nel mondo bare e urne cinerarie…  Alla prima avrei voluto scrivere che è già un miracolo se, alla mia età, ho ancora quattro capelli in testa e, all’altro, toccandomi di nascosto le parti basse e non conoscendo il mio futuro, avrei voluto dire che mi piacerebbe vivere qualche anno ancora e che alla bara ci penseranno (spero) i miei cari… 

Ok, basta recriminazioni più o meno spiritose. È arrivato il momento dei saluti. Chiedendo scusa per questo lungo pistolotto, lascio un calorosissimo abbraccio ai miei followers… indistintamente.

Buona fortuna e lunga vita à tout le monde.
Nicola

Francesco mio

Francesco mio

Quando i pompieri riuscirono a entrare nell’appartamento del professor Quilici, lo trovarono seduto su una poltrona e con la bocca sorridente.
Anche il fringuello nella gabbia sorrideva.
Può sembrare un’assurdità, un volatile non può sorridere, ma chi li aveva trovati raccontò che dalla disposizione dell’uomo e della gabbia appoggiata sulle sue ginocchia, i due si stavano certamente guardando negli occhi e poiché il professore pareva sorridere, anche il fringuello doveva avere la sua stessa espressione.
«Sì, sì, – dicevano tutti – il vecchio e l’uccellino avevano dato insieme l’ultimo respiro, sorridendosi l’un l’altro».

Io, all’epoca, ero un ragazzino.
Alla storia del sorriso del fringuello ci ho creduto.
E ci credo ancora oggi.

Il signor Quilici era un professore di musica in pensione. Viveva nel mio stesso palazzo. Quando lo conobbi, avevo quattordici anni. Lui quasi ottanta. Lo incontravo qualche volta scendendo di corsa per le scale dal mio appartamento al quinto piano. Abitava sotto di noi e, salendo a piedi con la borsa della spesa, aveva sempre il fiatone perciò rispondeva al mio saluto solo muovendo lentamente la mano libera.
Fra noi un’amicizia era inevitabile ma, all’inizio, fu vera guerra.
Io andavo matto per la canzone Rock around the clock di Bill Haley, per Only you dei Platters, per Diana di Paul Anka, lui ascoltava tutto il giorno musica classica.
Mia madre mi urlava dietro ogni volta che mettevo sul giradischi i 45 giri al massimo volume, ma io non le davo retta. Un giorno, però, dal pavimento della mia camera sentii sette o otto colpi sordi in rapidissima successione e una voce chiara, anche se lontana, che gridava:
«Basta!»
Proprio in quel momento mamma stava passando per la stanza.
Seguì un ordine:
«Vai dal signor Quilici a scusarti! Fila!»
Scesi al quarto piano e suonai il campanello.
Mi aprì la porta un uomo molto anziano dal viso chiaramente alterato.
«E tu chi sei?» chiese.
«Il bambino del piano di sopra…»
«E allora?»
«Sono venuto a scusarmi per il rumore…»
Non mi fece finire la frase.
«Bravo, hai detto giusto! La tua non è musica, è solo rumore! Va bene, accetto le tue scuse.»
Mentre l’uomo stava richiudendo la porta, sentii un canto acuto, quasi arrogante. Possedevo una coppia di canarini, che adoravo, perciò nei ripetuti e forti ciuinc, uit e ciuit, che provenivano dall’interno dell’appartamento, riconobbi il cinguettio di un volatile.
«Anche lei ha degli uccellini?» chiesi.
«Non uccellini, ma un fringuello maschio…» rispose piccato.
«Posso vederlo?»
La mia domanda lo prese in contropiede. Non sapendo se farmi entrare in casa oppure no, rimase per un attimo indeciso. Poi con la mano spalancò la porta.

Il suo appartamento era tagliato in modo del tutto diverso dal mio. Il lungo corridoio che disimpegnava razionalmente le stanze aveva una parete attrezzata a libreria. Buttando un occhio sugli scaffali, notai che i libri erano disposti in ordine di altezza decrescente da sinistra verso destra. La cucina dava l’idea di un luogo pochissimo vissuto. Non c’era un oggetto fuori di posto, nemmeno una tazzina sporca di caffè sul lavello. Magro e spilungone com’era, forse non faceva nemmeno colazione.
Arrivati nello studio, davanti a me si presentò tutto un altro mondo.
Una stanza così quante volte me l’ero sognata!
Regnava dattorno un magnifico disordine: sulla scrivania, mescolati a spartiti musicali, c’erano pile di dischi a 33 giri e sul pavimento il grammofono, retto da quattro gambe affusolate, stava ancora suonando a bassissimo volume un brano di musica sinfonica. Appesi alla parete più grande c’erano due custodie di violino e due quadri, dipinti a olio, ottime copie (così disse lui) dei famosi quadri di Manet: il Pifferaio e il Guitarrero. Nella parete più piccola, un’altra libreria stracolma di spartiti disposti alla rinfusa che, a tener conto del numero di quelli sparsi per terra, era di sicuro usata quotidianamente.
A fianco della finestra, protetto da una tenda che un tempo doveva essere stata bianca, c’era un’alta piantana con tre ganci a uncino. Su quello più alto stava appesa una gabbia metallica a forma di castello.
Dentro un fantastico uccellino dai mille colori.
Il fringuello saltabeccava incessantemente da un trespolo all’altro, sbatacchiando rumorosamente le sue alucce scure. Il piumaggio del petto tendeva al ruggine, la schiena era verde muschio. Aveva la testa color carta da zucchero, la fronte nera. Anche le ali erano nere a striature giallo–verdognole e portava una macchia bianca all’altezza della spalla. Il ventre era castano chiaro quasi biancastro e il becco tendeva al viola.
Un’esplosione di colori se paragonata al semplice, unico, anche se vivissimo, giallo dei miei canarini. Quello che però mi colpì fu la varietà di suoni che uscivano dalla gola del minuscolo volatile.
Lo feci notare al padrone di casa. Questi, invece di rispondermi, estrasse dalla biblioteca un testo di ornitologia, cercò la pagina giusta e lesse:

“Il suono più strano che emette il fringuello è il francesco mio. Si chiama in questo modo perché il volatile nella parte terminale del canto emette un verso molto simile all’invocazione – francesco mio – , e via in similitudine per gli altri canti.
Con un po’ di pratica è relativamente facile riconoscere altri suoi versi.
Quelli migliori sono:
a)    il passerino, alla fine di ogni canto emette un verso simile a quello del passero.
b)    il doppietto, emette un canto completo e, un secondo dopo, lo ripete eguale.
c)    il buicio, a ogni striscia di canto ultimata allega un verso simile a “buicio”.
d)    il cin, inizia e termina il canto con “cin – cin”.

«Ma lei riesce a distinguerli tutti questi suoni?» domandai incuriosito.
«Ho studiato e suonato il violino e ho l’orecchio abituato a cogliere le varie sfumature dei suoni. Ovviamente il fringuello non li emette tutti di seguito ma, a seconda dell’estro del momento, canta in un modo piuttosto che in un altro.»
«Lei veramente riesce a sentirlo quando pronuncia francesco mio
L’uomo sorrise alla mia domanda:
«Quello è il verso che fa soltanto a me e solo quando gli do del cibo che lo soddisfa!»
«Lei mi sta prendendo in giro…» protestai.
«Caro bambino, – fece lui – se continui ad ascoltare i tuoi urlatori, non puoi pretendere di cogliere sfumature così sottili.»
«E dai! – pensai dentro di me – Quest’uomo insiste a burlarsi di me!»
Poi, come proseguendo un suo ragionamento, tornò a prendere un altro libro sullo scaffale e quando ebbe trovato quello che cercava, disse:
«Il canto del fringuello non lo apprezziamo soltanto noi musicisti, ma anche i poeti. Tu conosci Giovanni Pascoli, vero?»
Non aspettò nemmeno la mia risposta e continuò:
«Pascoli ha scritto una splendida poesia sul fringuello. Il titolo è Il fringuello cieco e, per non annoiarti, te ne leggo solo poche righe. Attese un attimo, poi, con voce ispirata e ben impostata, recitò:

“Finch…  finché nel cielo volai,
finch…  finch’ebbi il nido sul moro;
c’era un lume, lassù, in ma’ mai,
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo…“

«La senti la musica che viene fuori da questi versi?» domandò poi.
«Sì, sì!» dissi, mentendo alla grande. Se qualcosa avevo provato, era solo un po’ di vergogna per la mia assoluta incapacità di apprezzare le poesie. A scuola ce ne facevano studiare tantissime a memoria e da ciò proveniva la mia idiosincrasia per quel strano modo di esprimere concetti e pensieri.
«I professori di lettere – continuò, come leggendomi nel pensiero – sbagliano a costringervi a studiare a memoria le poesie! Farebbero meglio a insegnarvi a leggerle ad alta voce, con la corretta dizione! In questo modo, forse, apprezzereste la musica che c’è in ognuna di loro…»
Interruppe subito il suo ragionamento perché si accorse di avermi messo in grande imbarazzo. Un attimo dopo mi accompagnò alla porta.

Nei mesi seguenti mi sforzai a tenere basso il volume del giradischi e tentai persino di leggere ad alta voce sul mio libro di antologia alcune famose poesie. L’effetto acustico della mia dizione doveva sembrare però alquanto stridulo e angosciante, perché mia madre spesso entrava di corsa in camera credendo che stessi male. Dovetti, a gran fatica, imparare a regolare il tono della voce e ad abbassare ad altezze più umane il braccio sollevato e teso con cui accompagnavo la recita dei versi.
Dopo innumerevoli e penosi tentativi, riuscii finalmente a declamare in modo decente Davanti San Guido di Carducci: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar…” e persino a sentire la musica che c’era in quella poesia.
Avrei voluto correre giù dal professore a fargli sentire i miei progressi, ma qualcosa mi impediva di farlo. Da qualche giorno dal suo appartamento uscivano pochissimi suoni, niente musica classica e neppure il canto del fringuello.
C’era qualcosa che non andava, me lo sentivo sulla pelle.
Vivendo da solo, il signor Quilici era costretto a procurarsi di persona le provviste per la settimana. Lo faceva ogni mercoledì mattina al mercatino rionale. Molte volte, quando il mio turno a scuola cadeva di pomeriggio, andavo con la mamma allo stesso mercato e lo incontravo mentre sceglieva la verdura per sé e per l’uccellino. In queste occasioni riuscivo a scambiare qualche chiacchiera con lui e spesso, quando la nostra spesa era leggera, lo aiutavo a portare su per le scale le sue borse piene. Il suo respiro era così affannoso da farmi temere che un giorno o l’altro non ce l’avrebbe fatta a salire tutti e quattro i piani.
Da un paio di settimane, però, il professore non si era fatto vivo al mercato.
Il secondo mercoledì segnalai a mia madre la sua assenza e lei mi consigliò di andare a suonare al suo appartamento.
Dopo un’attesa infinita, la porta si aprì e vidi davanti a me non l’uomo che conoscevo ma un essere rinsecchito e barcollante. Aveva occhiaie profonde e i capelli erano del tutto fuori posto. Il vestito era spiegazzato e pieno di borse alle ginocchia: chissà da quanti giorni non se lo cambiava!
Invece di salutarmi e invitarmi a entrare, in modo alquanto brusco chiese:
«Cosa vuoi?»
«È un po’ che non la vediamo e la mamma e io eravamo preoccupati…» risposi.
Ci mise un secondo a scoppiare in un pianto senza freni.
«Cosa le è successo?»
«Il mio fringuello ha perso la voce! Non canta più… morirà presto…»
Mi fece entrare in casa e mi condusse nello studio. Le tapparelle erano completamente abbassate, il disordine che mi aveva così affascinato la prima volta, ora aveva preso il sopravvento e rendeva squallida la stanza. Piatti con avanzi di cibo ammuffito avevano invaso la scrivania, normalmente ingombra di mille altre cose. C’erano foglie d’insalata rinsecchita e ossetti di seppia sparsi un po’ dovunque. Un puzzo incredibile rendeva difficoltoso respirare.
«Posso aprire le finestre per cambiare l’aria?» chiesi, cercando di essere il più possibile gentile.
«Fa come vuoi…»
Con voce lugubre, inframmezzata da un pianto lamentoso e da un’espressione di apatia stampata sul viso, mi raccontò che due settimane prima, mentre gli stava dando il solito cibo, il fringuello aveva improvvisamente emesso un verso rauco, straziante e da allora non aveva più cantato. Da quel giorno a malapena accettava un po’ di granaglie.
«Ha chiamato il veterinario?» chiesi.
«Ti pare che un veterinario si muova per uno stupido uccello che non canta più?»
Non sapendo cosa fare per aiutarlo, mi misi allora a raccogliere i piatti sporchi e a rassettare dattorno. Mentre eseguivo quelle semplici operazioni, la mia mente era indaffarata a cercare una soluzione al suo problema. Ben presto però dovetti arrendermi. Quando nello studio una parvenza di ordine fu ristabilito, non potei fare altro che salutarlo lasciandolo solo con il suo sconforto.

Avevo da poco iniziato il primo anno al liceo scientifico Righi che era, a detta di tutti, il migliore della città. Fra i cinque o sei professori che ci seguivano, ero convinto che avrei trovato chi sarebbe stato in grado di darmi una mano a risolvere il problema del signor Quilici. Raccontai la storia del fringuello, diventato improvvisamente muto, al mio professore di scienze, ma l’unica cosa che riuscii a ottenere fu un sorriso di compatimento:
«Ragazzo mio, con tutti i grandi problemi che ci sono al mondo, il tuo mi sembra davvero poco importante!»
Ottenni la stessa indifferenza dal professore di italiano e da quello di matematica.
Stavo ormai per perdere ogni speranza, quando, una mattina, l’insegnante d’inglese prese a parlare di un libro che aveva appena finito di leggere e il cui titolo era:

Siamo tutti nati poliglotti di Alfred A. Tomatis

Spiegò che, avendo da poco iniziato a studiare una lingua straniera, qualcuno di noi avrebbe fatto parecchia fatica a impararla. Nel parlarla, alcuni si sarebbero trovati a disagio, come quando si indossano vestiti più larghi o più stretti di un’altra persona.

A detta di Tomatis “queste sensazioni non sono cose immaginarie: un corpo che parla una lingua risuona in maniera diversa dal corpo che ne parla un’altra, e se un corpo parla una lingua con la quale non entra in risonanza, per quanto la si studi, non la si padroneggerà mai”.

Nel libro citato – aggiunse il professore – era indicata una strada per rendere possibile un effettivo multilinguismo dei cittadini d’Europa, una strada fondata tutta sull’ascolto.

Alfred Tomatis fu immerso fin dall’infanzia in un variegato mondo sonoro: i nonni erano italiani e parlavano nizzardo, un dialetto ricco di influenze dal piemontese, il padre, cantante lirico, era un famoso basso all’Opera di Parigi. Queste esperienze, unite alla vocazione per la medicina, lo portarono ad approfondire i rapporti tra l’orecchio, la voce, e la salute degli esseri umani. Sarebbe stato perciò riduttivo definire Tomatis un otorinolaringoiatra, piuttosto lo si sarebbe potuto chiamare un professore dell’orecchio”.

A questo punto la mia attenzione era diventata vivissima: forse Tomatis avrebbe risolto il problema che mi assillava.
Cominciai a prendere degli appunti, scrivendo con estrema cura tutto quanto l’insegnante stava spiegando e, tornando a casa in tram, li rilessi più e più volte.

“Nelle prime pagine del suo libro l’autore racconta che a dare inizio alla sua ricerca fu l’osservazione delle sordità professionali degli operai che lavoravano negli arsenali dell’aeronautica negli anni ‘50. Da essa trasse le cosiddette tre leggi del metodo Tomatis:

1)    La voce esprime solo ciò che l’orecchio può sentire.
2)    Se l’ascolto si modifica, immediatamente e inconsciamente si modifica anche la voce.
3)    È possibile trasformare durevolmente la fonazione se la stimolazione acustica viene mantenuta per un certo tempo (legge della rimanenza).

Ma ciò che mi colpì di più fu la seguente riflessione sugli effetti terapeutici della musica classica:

Le opere di Vivaldi, insieme a quelle di Mozart, Tchaikovsky e Corelli, sono state incluse nelle teorie di Alfred Tomatis per dimostrare i benefici della musica sul comportamento umano e vengono utilizzate nella terapia musicale”.

Ecco la soluzione che cercavo! Sostituendo in quella frase l’aggettivo umano con animale, risultava che la musica avrebbe potuto curare anche il fringuello.

Corsi a casa e feci le scale a tre per tre. Arrivato al quarto piano suonai alla porta dell’appartamento del professor Quilici, senza chiedere permesso entrai in casa e gli raccontai quanto avevo appreso a scuola.
L’uomo mi ascoltò prima con grande scetticismo, poi, man mano che gli spiegavo come avremmo dovuto procedere, fu preso anche lui dall’entusiasmo.
«Ecco perché non canta più! – disse – Da due settimane il mio fonografo si è guastato e da allora il fringuello sta facendo lo sciopero della voce!»
«E se le prestassi il mio e gli facessimo sentire dei pezzi delle mie band?»
Un’occhiataccia mi fece capire che non era il momento di scherzare.
Salii nel mio appartamento, presi il giradischi e lo sistemai nello studio del professore.
Mettemmo poi la gabbia su una sedia molto vicina agli altoparlanti e il signor Quilici, nella sua vasta discoteca, scelse un pezzo di Mozart. Nel locale, per tanti giorni silenzioso, le note melanconiche e gioiose di Così fan tutte si sparsero per l’aria e attraversarono anche la gabbietta.
Tutti e due ci aspettavamo qualcosa.
Ma non accadde nulla.
La bestiola apatica era e tale rimase per tutto il tempo in cui la musica aveva ripreso possesso della stanza.
Me ne tornai a casa deluso ma non completamente vinto.
«Può tenere il giradischi per tutto il tempo necessario. – dissi – Cambi musica, può darsi che Mozart non gli piaccia!»
Per più di una settimana il professore passò le giornate a cercare fra i suoi dischi il brano sinfonico che poteva compiere il miracolo. Fu tutto inutile, il fringuello non dava segni di ripresa, anzi, a volte, rifiutava persino il suo cibo preferito. Forse la terapia musicale era efficace sugli umani, di certo si stava rivelando un fiasco con gli animali. L’uccelletto era ormai ridotto a pelle e ossa, mancava davvero poco alla sua fine.

Si trattava solo di attendere.

In un pomeriggio noioso come tanti altri, stavo studiando di malavoglia geografia, quando, tra uno sbadiglio e l’altro, sotto i miei piedi sentii sette o otto colpi sordi. Quei colpi che provenivano dallo studio del professore, erano il nostro mezzo di comunicare: tre volevano dire vieni giù, di più significavano emergenza.
«Oddio! il fringuello è morto!» pensai.
Col cuore in gola scesi al quarto piano.
Quando il signor Quilici aprì la porta, una musica molto triste e una voce che mi fu difficile stabilire se di uomo o di donna, arrivò alle mie orecchie.
«Ha cantato di nuovo… con un pezzo di Vivaldi!” disse il professore.
Corsi nello studio. La musica era a un livello molto alto e quasi copriva i versi dell’uccellino. Abbassai leggermente il volume del giradischi in modo da riuscire a sentire la voce del fringuello. Il suo canto era bellissimo e melodioso come mesi prima. Mi sedetti su una poltrona e chiusi gli occhi per assaporare meglio l’atmosfera che si era creata nella stanza.
Non posso dire con assoluta sicurezza se ero sveglio o se sognavo, ricordo solo che, a un certo punto, udii con estrema chiarezza due suoni che non avevo mai uditi prima:

francesco mio!
cin cin!

Giuro di averli sentiti.

Due settimane dopo quello straordinario evento, i pompieri furono costretti ad abbattere la porta dell’appartamento del professore.

Fine

Crediti: la strip del Signor Giacomo mi appartiene. L’immagine che accompagna il racconto Francesco mio è una mia rielaborazione di una scultura di Alberto Giacometti, il famoso scultore e pittore svizzero.