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Prima di iniziare il post odierno, rielaboro per voi una mail inviatami da una cara amica a cui avevo scritto di avere letto Fama tardiva di Arthur Schnitzler e di esserne stato colpito profondamente.

Fama Tardiva

“Ciò che mi hai accennato sul libro di Schnitzler, mi ha entusiasmato: me lo voglio procurare in tedesco! Deve essere stupendo. Da quel che ricordo, questo autore viennese era molto psico-orientato per cui… senz’altro deve essere riuscito ad andare veramente a fondo sull’eterna questione fama o non fama che assilla ogni scrittore che si rispetti. Quante volte abbiamo discusso questo problema io e te? Ricordo che hai sempre fatto orecchio da mercante quando ho cercato di farti capire quanto fosse sbagliata la tua ossessione per il successo letterario. Se leggendo Fama tardiva hai finalmente preso di petto questo annoso problema, tanto di cappello al libro di Schnitzler! Vuoi conoscere qualche mio pensiero al riguardo?

snoopy-scrittore-piagnone

Secondo me tu non hai mai smesso di domandarti: “Ma IO il talento ce l’ho o non ce l’ho?” e così il tuo scrivere che era sciolto quando non pensavi di diventare uno scrittore famoso (mi riferisco a Ossi di pollo, la tua prima opera) si è incriccato quando hai tentato di salire la scalinata verso gli allori. Sbaglio a dire questo? Comunque sia, non hai ancora digerito il mancato riconoscimento delle tue capacità, e questo non ti ha dato e non ti dà la serenità che occorre per affrontare altre prove letterarie. A me è capitata la stessa cosa, temo.

Anch’io ho sognato di diventare famosa e ci sono cascata in pieno nella trappola dell’EGO e, se può farti piacere saperlo, ci cascano un po’ tutti: mio padre arriva perfino a citarsi!!!!
Non c’è ragione di deprimersi: anche in altri ambiti della vita si sente la frase “Povero diavolo…” rivolta a qualcuno che si sopravvaluta. Pensi che, scrittura a parte, io non mi renda conto di quali sono i veri sentimenti degli altri nei miei confronti? Capisco molto bene persino come mi valutano. Sai quante volte ho sentito qualcosa che suonava come “Povera diavola…” mentre ero sul palco a raccogliere degli onori che non avevo cercato ma che mi erano stati insistentemente offerti, come se mi spettassero di diritto, riuscendo a convincermi di meritarli? Beh, guarda, grazie a Schnitzler, ora entrambi conosciamo la verità vera: Nessuno – intendo proprio nessuno – merita né gli onori né la compassione. È questo il trucco da applicare a se stessi e agli altri, alternativamente.

Dovrai fartene una ragione, come ho fatto io: sappi che non è difficile. La serenità è proprio dietro l’angolo. Dopo avere toccato il fondo ed essermi scontrata con l’iceberg della realtà, io ho imparato ad accettare gli altri, le loro opinioni anche se non hanno nulla a che spartire con le mie. Mille volte avrei voluto che il mondo avesse letto e apprezzato i miei scritti perché così mi sarei sentita amata e riverita anch’io, tra l’altro senza aver nemmeno il retro pensiero vagamente altruista: “Chissà se agli altri piace quello che racconto?” ma avendo in testa soltanto quello totalmente auto-centrato: “Spero di non aver commesso errori nella consecutio temporum, perché IO non posso sbagliare”. Per quel che mi riguarda, tutto questo disagio io l’ho superato. Ora è il tuo turno.

Mi dispiace tantissimo che tu stia male: per sollevarti il morale ci vorrebbe una battuta ma io non ho il tuo sense of humour e poi oggi sono troppo stanca. Un solo consiglio: perché non fai una recensione del libro di Schnitzler, una di quelle tue divertenti, ironiche e profonde?”. Poi, eventualmente, ne riparliamo…

Snoopy scrittore

Provo a seguire il consiglio della mia amica: oggi sono dell’umore giusto per abbozzare un post dal sapore ironico…

Quest’anno, a Natale, ho ricevuto pochissimi regali, però erano tutti importanti: tra questi, quello che ho apprezzato di più è stato un libro intitolato Fama tardiva di Arthur Schnitzler (sottotitolo: Storia di un vecchio poeta) edito da Guanda. 
Sapendo che in passato ho scritto un certo numero di romanzi, evidentemente chi me l’ha donato intendeva spingermi a scriverne altri, augurandomi, al contempo, una futura quanto meritata gloria letteraria, ancorché tardiva. In realtà quel breve testo di Arthur Schnitzler, medico, scrittore, drammaturgo, nato a Vienna nel 1862 e ivi morto nel 1931 è tutt’altro che di auspicio a far riprendere in mano la penna a chi, da tempo, l’ha riposta in un cassetto, non avendo mai ricevuto un qualche riconoscimento pubblico del proprio talento. Ciò affermato, e questo è il grande valore del regalo ricevuto, Fama tardiva mi ha costretto a riflettere seriamente sulle mie passioni e sulle mie speranze attuali o pregresse. Vediamo come e perché…

*****

Fama tardiva parla di Saxberger, un vecchio signore che in gioventù (circa trent’anni prima) aveva pubblicato un libro di poesie intitolato Passeggiate, passato del tutto inosservato dalla critica e dai lettori. Costui, visti gli scarsi risultati della sua fatica e mostrando un notevole acume, aveva prontamente abbandonato la scrittura poetica e aveva cercato e trovato lavoro come impiegato di concetto in una ditta poco distante da casa e lì stava conducendo un’onesta, serena, quanto anonima carriera.

Snoopy scrittore di pancia
Un certo giorno (la vicenda si svolge a Vienna verso la fine del 1800) un giovane aspirante poeta di nome Wolfgang Meier trova su una bancarella il libro di poesie Passeggiate, lo acquista e, dopo avergli dato una veloce scorsa, rimane folgorato dalla bravura di Saxberger. L’intraprendente giovane, allora, si mette alla ricerca dell’autore del libro e, una volta incontratolo, comincia a elogiare le sue poesie chiamandolo con enfasi maestro, insomma lo ossequia così tanto che Saxberger, dopo un’iniziale perplessità, (da tempo il vecchio poeta aveva metabolizzato che se non aveva avuto successo in gioventù significava che la sua opera valeva ben poco) comincia a pensare di essere stato trattato ingiustamente dalla critica e dai lettori e accetta di entrare a far parte di un circolo di giovani artisti (poeti, commediografi, critici) che tentano di svecchiare l’ambiente letterario viennese, da sempre restio a dare credito alle nuove generazioni di letterati.

Il circolo, che si riunisce giornalmente in un bar molto frequentato, accoglie con grande entusiasmo e riverenza Saxberger, convinto che chi, da giovane, era stato in grado di creare Passeggiate avrebbe potuto sicuramente dare lustro a una congrega di artisti alle prime armi. In un primo momento Saxberger pensa che tutti lo stiano prendendo in giro, ma i continui apprezzamenti sulla sua unica e misconosciuta raccolta di poesie sono tanti e tali che lui stesso si convince di essere davvero un maestro dell’arte poetica a cui era stata ingiustamente negata la fama che si meritava. La presenza del vecchio poeta induce i frequentatori del circolo a preparare un evento letterario in cui declamare pubblicamente alcune loro composizioni poetiche o narrative, sicuri che la notizia, fatta circolare sulla stampa locale, che allo spettacolo sarà presente colui che aveva scritto un’opera fondamentale come Passeggiate, avrebbe avvantaggiato anche loro. Il gruppo chiede con insistenza a Saxberger di scrivere nuove poesie da leggere in occasione dell’evento programmato per la fine del mese successivo, dove sarebbe intervenuta una nota attrice di teatro a leggere, da par suo, sia i componimenti dei giovani autori sia le nuove poesie del maestro. Saxberger ci si mette d’impegno, prova e riprova, ma non riesce a produrre niente di nuovo: ormai è troppo arrugginito e l’ispirazione non gli arriva nemmeno andando a passeggiare nei luoghi dove erano scaturite le sue belle poesie giovanili. Il circolo non si perde d’animo e, per andare sul sicuro, decide di far declamare all’attrice alcune delle poesie tratte da Passeggiate.

A questo punto, Saxberger si è talmente ringalluzzito da comportarsi come se fosse effettivamente un grande poeta e quindi ascolta con una certa sufficienza, ma senza criticarli con la franchezza che meriterebbero, i modesti componimenti dei giovani autori appartenenti al circolo.
Arriva, finalmente, il giorno dell’evento letterario con spettatori paganti e con la presenza anche di alcuni giornalisti. Dietro le quinte i vari autori che si presenteranno sul palco sono, ovviamente, nervosi, ma il più nervoso di tutti è il vecchio poeta, anche se, dentro di sé, è convinto che sarà lui a ricevere gli applausi più scroscianti. La manifestazione, a sentire il calore degli applausi, sembra procedere bene. Quando l’attrice termina di leggere le poesie di Saxberger, gli applausi che lui riceve, presentandosi sul palco, sono pari a quelli di tutti gli altri autori che l’hanno preceduto, però, allo scemare del battimani, una voce sommessa, proveniente da chissà dove, pronuncia, rivolta chiaramente a lui, le parole: “Povero diavolo…”.
È un vero colpo al cuore per Saxberger che si aspettava, finalmente, il dovuto riconoscimento del suo grande talento poetico! La dura realtà dei fatti raccontava, invece, che tutti i partecipanti avevano ricevuto lo stesso plauso da parte del pubblico, ma solo a lui era stato rivolto quell’odioso commento…

Il giorno dopo sui quotidiani locali più in voga si parla poco di quell’evento letterario. Solo qualche striminzito trafiletto nelle pagine di cronaca più interne. In un’importante quotidiano letterario, invece, c’è una recensione negativa in cui venivano ironizzate tutte le performances dei giovani poeti e, in più, c’era una sottolineatura del fatto che uno di questi “giovani” fosse parecchio attempato… In un altro giornale a bassa tiratura, infine, c’è una recensione blandamente positiva, rivelatasi in seguito pilotata da Meier (proprio colui che aveva acquistato Passeggiate su una bancarella) in cui il recensore tesseva lodi equanimemente rivolte a tutti, aggiungendo, però, di attendersi a breve un miglioramento effettivo delle loro prossime prove d’autore.
Una brutta batosta per l’intero gruppo, ma soprattutto una nuova sberla in faccia a Saxberger.

Costui, allora, abbandona in silenzio il circolo che tanto lo aveva osannato e se ne torna mesto mesto a casa. Lo segue soltanto il più giovane del gruppo, quello che tutti prendevano bonariamente in giro a causa delle sue composizioni ancora troppo immature. Il ragazzo chiede al vecchio poeta il favore di leggere le sue poesie per avere da lui un parere da esperto. In cambio di questo favore lui promette di leggere il suo tanto osannato Passeggiate
Così, come ultimo e definitivo smacco, Saxberger, già depresso per quanto era successo durante l’evento letterario, viene a sapere che il ragazzino e tutti gli altri componenti del circolo di giovani artisti, pur lodandolo a gran voce, non avevano mai letto nessuna delle sue poesie contenute in Passeggiate.

snoopy scrittore pieno di sé 

Scusatemi, care amiche/amici, se mi sono dilungato tanto a raccontarvi la trama di Fama tardiva, togliendovi così il gusto di acquistare e leggere quest’ottimo e sottilmente ironico libro, ma l’ho fatto di proposito perché questo testo di Arthur Schnitzler mi ha davvero illuminato. Infatti, con qualche piccolo ritocco e pensando al mio vissuto di questi ultimi anni, la vicenda del vecchio poeta mi ha fatto venire in mente il gruppo di amici che, insieme a me, aveva partecipato a un paio di corsi di scrittura creativa e che sperava tanto nel successo letterario. Mi ha ricordato la fragile amicizia che si era instaurata tra di noi e la sottile invidia che permeava dentro di me (e penso anche negli altri) quando uno del gruppo otteneva un qualsivoglia modesto riconoscimento. Arthur Schnitzler con la sua scrittura ironica e modernissima mi ha edotto sull’inutilità di insistere nella scrittura credendo di avere qualcosa di eccelso da dire, correndo il rischio di sentirsi dire da qualcuno di avere scritto unicamente delle banalità. In verità, a differenza di Saxberger, finora nessuno, facendo in modo che io lo sentissi, mi ha dato del povero diavolo, però chissà quanti, dietro le mie spalle, avranno alzato il sopracciglio sfogliando i miei libri e decidendo così di non acquistarli e leggerli!

Fama tardiva mi ha fatto intendere di avere speso gran parte del mio tempo libero a produrre opere ammirate smodatamente solo da parenti e amici compiacenti, ma quasi del tutto ignorate dal grande pubblico e che, proprio per questo, è arrivata l’ora di cestinare i tanti sogni di gloria che mi rovinavano la vita.
Mi ha fatto sorridere, soprattutto, il pensiero che il libro di Schnitzler sia stato volontariamente scelto da qualcuno per farmi, fidandosi del titolo, un gradito regalo, quando invece, di primo acchito, leggerlo è stato come ricevere un bel pugno nello stomaco. A bocca aperta

Fortunatamente il malumore è durato solo qualche giorno e non sono caduto nel triste vortice della depressione, anzi, quel libro mi ha donato una salutare consapevolezza delle mie effettive capacità e questa, unita al mio noto sense of humour, mi ha aiutato a sgombrare in tutta fretta dalla testa anche l’idea alquanto pellegrina di considerarmi un romanziere ingiustamente valutato da critici e lettori.

Ovvio che non rinnego i libri che ho scritto in passato, tutt’altro, ma, da oggi in poi, al pari di Saxberger, li guarderò con l’occhio benevolo e maturo di chi sa che tutto ciò che si realizza con passione e sforzo mentale ha un valore intrinseco che può tranquillamente prescindere da critiche negative o riconoscimenti a cinque stelle provenienti da chicchessia.

Nicola

L'arte della poesia

Crediti: un sentito grazie a Charles M. Schulz per le esilaranti strisce di Snoopy e un ringraziamento va anche all’autore della splendida immagine qui sopra che descrive l’arte della poesia e dello scrivere in generale.

È con grande piacere che copio nel mio blog un’intervista che mi ha fatto qualche giorno fa Federico Chigbuh Gasparini, un noto quanto simpatico consulente di Marketing & Comunicazione, anche lui blogger. Vi prego di non prendere questo reblog come un’autocelebrazione, ma per quello che è, cioè un modo diverso per presentarmi a chi ancora non mi conosce e a ricordare che non sono morto a chi mi era amico e da un po’ di tempo non si fa vivo. A bocca aperta

Buona lettura.

Nicola

Modestia1

Qual è stato il tuo percorso di studi?

Ho studiato in diverse scuole dell’Emilia-Romagna. Elementari a Lavino di Mezzo (BO), medie a Bologna, liceo Scientifico a Lugo di Romagna, ingegneria elettronica all’università di Bologna, questo perché mio padre, sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri, a ogni avanzamento di grado, doveva cambiare sede. Essendo nato in Puglia mi reputo, a tutti gli effetti, un emigrante della cultura di base.

Quali sono state le tue esperienze lavorative?

Subito dopo la laurea ho trovato lavoro a Milano alla General Electric Information System poi acquisita dalla Honeywell, concorrente principale della IBM. Dopo due anni in questa società, sono stato cooptato nell’industria cartotecnica di mio suocero. Una volta informatizzata la contabilità e la direzione commerciale, sono stato dirottato alla produzione: qui, per 24 anni, ho svolto la funzione di direttore di fabbrica. Da elettronico mi sono trasformato in meccanico. Oltre alla testa ho imparato a usare le mani, cosa piuttosto impegnativa per una persona inesperta ma è stato divertente imparare a far funzionare le macchine alla massima velocità consentita. L’avvento del fax e della posta elettronica rese matura la nostra produzione (fornivamo buste commerciali a quasi tutte le banche della Lombardia e del Piemonte) e così abbiamo dovuto chiudere l’azienda. Per arrivare alla pensione (mi mancavano 12 anni) ho aperto un’attività commerciale in Milano a cui ho dato il nome, molto significativo, di Punto a Capo.

Come nasce la tua passione per la scrittura?

In modo molto naturale anche se intervallata da lunghissimi periodi di completa dimenticanza. Da piccolo leggevo molto e molto presto ho cominciato a usare la penna: il primo romanzo di 20 pagine l’ho scritto a 12 anni, il secondo a 28 prima della laurea. Due esperimenti da dimenticare. L’anno dopo, in attesa di trovare lavoro, nacque il mio amore per i fumetti d’autore. Il Signor Giacomo con i suoi pensieri e le sue divagazioni, risale proprio a quel lontano periodo della mia vita. Ho ricominciato a scrivere con impegno e costanza una volta terminato il lavoro attivo.

Come le tue esperienze di vita si riverberano nei tuoi scritti?

Praticamente i miei scritti in tarda età seguono la naturale evoluzione delle quattro stagioni degli esseri umani: l’infanzia/adolescenza, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia, stagioni da me rivissute mentalmente e rielaborate con la fantasia. I primi anni di un bambino durante le vacanze estive nella masseria dei nonni in Puglia li racconto nel mio romanzo d’esordio terminato nel 2004. Le esperienze di un giovane sposo si trovano nei racconti stilati fra il 2004 e il 2006. In questi brevi scritti parlo dell’amore, del sesso, del matrimonio, delle scappatelle, vere o inventate, di un marito e di molti altri argomenti. Da un’assidua frequentazione del mondo virtuale di Internet di un uomo maturo, nasce il mio secondo romanzo. Infine, le problematiche della vecchiaia, osservata con occhio ironico e, allo stesso tempo, realistico le affronto nel mio ultimo libro.

Cosa pensi del panorama editoriale italiano?

Il panorama editoriale italiano è attualmente tristissimo. Si pubblica troppo e male. Sui banconi ci sono sempre gli stessi scrittori e, proprio per questo, non sono per nulla invogliato ad acquistare libri. Il grosso di ciò che viene stampato in Italia è rappresentato da quegli autori stranieri che hanno già venduto parecchio all’estero, ma che ormai hanno smesso di accendere il mio interesse. Da tempo non mi fido più delle recensioni che leggo sulla stampa o ascolto in TV. Quasi sempre si tratta di marchette prezzolate. Per comprare un libro oggi mi affido al passaparola di amici e conoscenti.

Ti hanno pubblicato o ti sei auto-pubblicato?

Non ho mai inviato manoscritti a case editrici: l’unico che mi è stato chiesto espressamente da un editore conosciuto a una cena fra amici e, in seguito, anche da un responsabile della B.C.Dalai Editore, incontrato alla Cattolica durante una conferenza, è stato il romanzo Alla bisogna tango si balla, entrambi attratti dal titolo, un azzeccatissimo palindromo. Nel primo caso l’editore era alle prime armi e chiuse i battenti per sopravvenute difficoltà economiche, nel secondo caso, non so che fine fece il manoscritto: so solo che la casa editrice B.C.Dalai, in gravi difficoltà, venne venduta e cambiò ragione sociale in Baldini & Castoldi. Non vorrei che si pensasse che sia stato il mio libro a fare fallire i due editori: entrambi non fecero in tempo a metterlo in stampa… ahahahah
Dopo questa disarmante esperienza, l’estate scorsa, terminato il mio ultimo romanzo, ho deciso di auto-pubblicare sotto forma di e-book, predisponendone anche la versione cartacea, tutto ciò che la mia fantasia aveva partorito negli anni.
Da qualche mese, infatti, cinque mie opere sono presenti su Amazon Italia e sono scaricabili a prezzi decisamente abbordabili. Comunque, a chi me le chiede “con gentilezza”, sono disponibile a cederle gratuitamente.

Quanti romanzi hai scritto?

Ne ho scritti tre, nell’ordine: Ossi di Pollo, Alla bisogna tango si balla e Io e Agata. Le altre due mie pubblicazioni sono: I pensieri e le divagazioni del Signor Giacomo, una raccolta di fumetti umoristici e Piani Incrociati, una miscellanea dei miei migliori racconti. (Cliccare sulle immagini se si desiderano ulteriori informazioni.)

Ossi di Pollo   Alla bisogna tango si balla   Io e Agata

CopertinaGiacomo1000x1320   Piani Incrociati3

Quando nasce il tuo blog e perché?

Il mio blog, I pensieri e le divagazioni del Signor Giacomo, nasce quattro anni fa quando scopro l’esistenza della piattaforma WordPress. In passato avevo tenuto un blog di successo all’interno del social network Netlog, un antesignano di Facebook. Uscito da Netlog, avevo promesso a me stesso di chiudere con i social network ma, dopo una disintossicazione durata due anni, ho cominciato a scrivere su WordPress dove, a mio parere, la vita virtuale è meno aggressiva e i pericoli di sbandate sentimentali sono minori. Se ti fai i fatti tuoi e non polemizzi con altri blogger, riesci persino a divertirti pubblicando le tue cose e puoi anche fare amicizia con un sacco di persone simpatiche. Su questa piattaforma è possibile “postare” quando e come ti pare, cioè decidere tu la frequenza e le tematiche. All’inizio pubblicavo cosucce umoristiche, le strisce del Signor Giacomo, qualche mio racconto, e recensioni dei libri che avevo letto e che mi erano piaciuti. In seguito, avendo iniziato a viaggiare all’estero, ho iniziato a pubblicare a puntate anche i reportage e i filmati da me girati nei luoghi appena visitati.

Cosa ti ha portato la tua esperienza come blogger?

Immagino che tu voglia una risposta sincera, allora, anche a rischio di ricevere bacchettate dagli amici che mi leggono, ti dico che, finalmente, ho capito la mentalità di chi, come me, porta avanti un blog in Rete. Per avere un buon riscontro devi tu stesso commentare il blog di chi ti segue. Devi, cioè, contraccambiare chi ha preso l’impegno di frequentarti. Se non lo fai, l’amicizia virtuale dura poco. Io leggo volentieri i blog degli altri e, sorpresa delle sorprese, in questo modo ho incontrato persone davvero interessanti! Certo, “contraccambiare” comporta stare molte ore attaccato a Internet, ma io mi sono dato una tempistica ferrea: alla Rete dedico solo due giorni alla settimana e poi faccio altro. Da volontario insegno italiano a stranieri, seguo un cineforum, leggo libri, faccio il dog sitter al cane di mia figlia, sono iscritto a un corso bisettimanale di ginnastica per la terza età (la mia), curo il prato nella casa di campagna (ho quasi vinto la mia guerra con i sassi), ascolto musica. Insomma ho la settimana piuttosto impegnata. Il blog, per me, è un grosso impegno mentale e fisico. Non essendo un poeta che in pochi secondi d’ispirazione sforna versi di grande pregio, ma uno scrittore di prosa che ama approfondire i problemi, i miei post sono quasi sempre lunghi, forse troppo lunghi, frutto di ore e ore passate davanti a un computer. Essendo molto lento a scrivere, ti puoi immaginare quanta fatica mi costa ogni singolo post che pubblico. I blog che vanno per la maggiore, invece, sono tutti di un’invidiabile brevità. Il vero successo in Rete arriva quando la concisione si coniuga con la capacità di proporre ogni volta temi di grande interesse. A questi blogger va tutta la mia ammirazione.

Oltre al blog utilizzi anche i social network per promuoverti?

WordPress permette automaticamente di promuovere i post su Facebook, Twitter, Pinterest, Linkedin, Google+ ma, se devo dire la verità, non credo di avere molti followers su queste piattaforme. Il mio zoccolo duro è su WordPress. Qui ho diversi amici che mi seguono fedelmente da anni e a loro rinnovo il mio grazie più sincero.

Sei soddisfatto dei risultati ottenuti dai tuoi scritti?

Sono soddisfatto dei miei scritti. Per quanto riguarda i risultati, che dire? Mi basta sapere che qualcuno, al di fuori della ristretta cerchia di amici e parenti, legge i miei libri e i miei post e apprezza la fatica e l’impegno che ci ho messo a scriverli. I soldi e la gloria mi affascinano parecchio, ma so che difficilmente busseranno alla mia porta. Comunque questo banale pensiero, alla mia età, ha smesso di turbarmi il sonno.

Giuro.

Mica Scemo

Quante volte, discutendo con amici di un mal comportamento di un Tizio, alla domanda: “Tu avresti fatto come Tizio?”, abbiamo risposto “Non sono mica scemo!” .

In realtà, ci scommetto le palle, che molti di noi (tutti?), trovandoci nella stessa identica situazione di Tizio, ci saremmo comportati come lui, sperando in cuor nostro di non essere beccati con le mani nella marmellata…

Dunque, smettiamola di fare i moralisti un tanto al tocco. In questo eccellono i politici nostrani, tanto per citare gente con parecchio pelo sullo stomaco. Costoro mica sono scemi! Sono tutte anime pie, bella gente incapace di comportamenti scorretti. Vero?

Quante volte abbiamo chiuso un occhio (o anche tutti e due) per non vedere la trave che ci stava per colpire?

Si parla sempre e soltanto dei Grandi Evasori, ma quante volte di fronte alla domanda: “Vuole la fattura?” abbiamo risposto di no per evitare di pagare l’Iva, acquistando un oggetto, o facendo fare una riparazione in casa?

Di fronte alla Giustizia (Terrena o Divina che sia), i Piccoli Evasori sono migliori di quelli Grandi?

Beh, lasciamo perdere… e sorridiamo alle altrui disgrazie…

  • Un padre al figlio: ”Su, figliolo, non abbatterti, mica sei scemo! Un sacco di gente ha avuto degli inizi difficili. Per esempio, Hitler è stato bocciato all’artistico…  (Woody Allen)
  • I tirchi mica sono scemi! Ne conosco uno che fa la punta alle matite sul caminetto… così non spreca il legno!  (Jack Benny)
  • A Milano gli automobilisti mica sono scemi! A causa del traffico la circolazione è talmente lenta che loro fanno le foto agli autovelox e poi mandano le multe al Comune… (Bruce Ketta)

Giacomo non è mica scemo… io direi che è un tantino sfigato…

FioriDiPlastica

Alla prossima!

Nicola

Crediti: La striscia di Perle ai porci è di Stephan Pastis e l’ho estratta dalla rivista a fumetti Linus di Novembre 2013. La striscia di Giacomo è basata su un testo di Leopold Fetchner. Le altre freddure le potete trovare sull’Enciclopedia della Battuta, editrice Smemoranda.

 

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Candomblé

di Nicola Losito

È difficile da ammettere ma, a volte, persino il chicchirichì di un gallo può terrorizzare…

È proprio questo il pensiero che mi frulla in testa rientrando all’una di notte con mia moglie in albergo a Salvador de Bahia, dopo una serata di folclore in salsa religiosa spesa con amici nell’estrema periferia della città. Le guide turistiche locali sostengono che Dio deve essere brasiliano: concordo in pieno con questa affermazione. Per crederci basta osservare i miracoli della natura e la molteplicità di razze che caratterizzano il Brasile. Però è altrettanto vero che nel pezzetto di mondo dove io e il mio gruppo abbiamo appena passato qualche ora della nostra esistenza il Padreterno si deve essere distratto un po’…

Ma procediamo con ordine.

Siamo alla fine d’ottobre del 2010 e il clima a Milano si manifesta più freddo e piovoso del previsto. È il periodo dell’anno in cui la vita di città mi deprime maggiormente. Ho cessato da tempo il lavoro attivo e la stagione autunnale contribuisce a peggiorare la mia attuale indolenza. Per questo, quando un amico mi propone di partecipare a un tour in Brasile a tariffa ridotta in compagnia di un gruppo di avvocati che si recano a Salvador per un congresso internazionale, prendo la palla al balzo e dico subito di sì. Né io né mia moglie siamo degli azzeccagarbugli (così, a ragione o a torto, definisco bonariamente questa tipologia di professionisti) però fra queste anime belle abbiamo parecchie amicizie. Una clausola per poter partecipare a quella vantaggiosa trasferta all’estero prevede che io porti in giro per la città, oltre la mia, anche le mogli degli amici avvocati quando costoro sono impegnati nelle riunioni congressuali. Pur consapevole delle mie limitate attitudini a far da guida turistica, sottoscrivo il patto e il 30 ottobre, dopo una decina d’ore di aeroplano, sbarchiamo a Salvador de Bahia.

La situazione ambientale è perfetta: si è all’inizio dell’estate, il caldo è sopportabilissimo e, soprattutto, non ci sono tanti turisti fra i piedi. L’albergo Cocoon che ci accoglie è di recente costruzione e le stanze che ci hanno assegnato sono tutte in vista mare. Stanchi per il lungo viaggio corriamo a dormire, il giorno dopo è domenica ed è prevista una prima visita turistica nella città vecchia.

Con l’orologio portato indietro di quattro ore ci svegliamo a fatica e, anche per colpa degli effetti collaterali del jet lag, quasi nessuno del gruppo è di buon umore. A sorprenderci e a darci la scossa giusta per cancellare astenia e affaticamento è la splendida piazza del Pelourinho con le sue chiese rimesse a nuovo e le sue case di stile coloniale dalle facciate azzurre o giallo ocra. Mentre da perfetti turisti (macchina fotografica a tracolla, guida Baedeker del Brasile aperta alla pagina 366) ci aggiriamo per la piazza, Ugo viene placcato da due tizi ben vestiti e particolarmente insistenti che distribuiscono volantini ai passanti. Io e gli altri del gruppo ci fermiamo ad aspettarlo seguendo con occhi e orecchie la discussione animata che si svolge tra il mio amico e i due promoters.

Non conoscendo il portoghese, con l’aiuto dell’inglese mescolato a qualche parola di spagnolo e a un’italianissima gestualità, Ugo riesce a condurre una specie di trattativa alla fine della quale ci troviamo impegnati ad assistere a una manifestazione folcloristica locale.

«Stasera si va tutti a vedere il candomblé!» ci annuncia Ugo, soddisfatto, rientrando nel gruppo.

Nella mia nota e assodata impreparazione di turista fai da te, penso subito al classico spettacolo dove danzatrici formose ballano con sederi e tette ben in vista e, facendo la solita pessima figura, chiedo:

«Il candomblé è un nuovo ballo brasiliano?»

Ugo, uomo di notevole cultura e capace di mascherare la riprovazione per l’amico ignorante preso in castagna, mi spiega che il candomblé è una cerimonia religiosa a cui bisogna assistere con grande rispetto, indossando abiti di colore chiaro, meglio se bianchi. E, aggiunge, chi lo desidera può anche ballare insieme ai fedeli.

Umiliato, non mi azzardo a chiedere altro.

Il prezzo che lui ha concordato non è alto e comprende il trasporto in auto, andata e ritorno, dal nostro albergo al luogo della cerimonia.

Alle otto della stessa sera, il gruppo formato da Ugo, Teresa, Chicca, Peppino, Gilberto e da me, si presenta di chiaro vestito, allegro e psicologicamente preparato, davanti alla reception dell’hotel, pronto per partire.

I due promoters che in mattinata avevano fermato Ugo nella piazza del Pelourinho, arrivano puntualissimi con un paio di auto vecchiotte ma ancora decorose e, prima di farci salire, pretendono da ognuno di noi il pagamento dei 70 reais pattuiti.

Non ci danno biglietti in cambio del denaro e la cosa pare a tutti strana, però nessuno del gruppo ha il coraggio di protestare.

Anch’io verso la mia quota e, nel farlo, guardo bene in faccia i nostri accompagnatori: non hanno un aspetto molto rassicurante e i loro modi sono bruschi, affatto socievoli.

Entro in agitazione e questo stato di ansia si accentua nel vedere la città vecchia, quella più turistica, allontanarsi alle mie spalle. Ben presto ci immergiamo in una superstrada (dove cazzo ci portano?) ai cui lati si ergono, in prospettiva, enormi caseggiati (condominii-dormitorio, del tutto simili a quelli della periferia di Milano) per finire poi in una zona collinare poco illuminata, seguendo stradine asfaltate ma piene di buche che separano agglomerati di malandate casupole (le cosiddette favelas) impiantate alla bell’e meglio una sopra l’altra e abitate per lo più da povera gente.

La mia ansia è a mille.

Le due macchine si fermano e parcheggiano sul ciglio di una strada in salita, in un posto così buio e degradato da far venire i brividi.

Faccio mentalmente il segno della croce.

Mi secca mostrare agli altri che me la sto facendo sotto e già immagino i titoli delle pagine di cronaca sulla nostra tragica fine: “Turisti italiani dispersi in Brasile”.

Fisso, in un angolino della memoria, la targa dell’auto da cui sono sceso: APT.2315 (tre lettere, un punto e un numero di quattro cifre), anche se non ho ben chiaro a cosa possa servirmi.

Un promoter rimane a guardia delle auto mentre l’altro ci accompagna per un breve tratto su per un vicolo così stretto che a mala pena ci passano due persone affiancate e poi, insalutato ospite, ci lascia nelle mani di un uomo in giacca e cravatta che aspettava nelle vicinanze. Mentre, sempre più attonito, seguo la nuova guida, (oh buon Dio, perdona i peccati che ho commesso!) vedo i nostri autisti salire sulle rispettive auto e sparire velocemente nella notte ormai prossima.

Non oso guardare in faccia mia moglie Chicca e gli amici, ma dal silenzio glaciale con cui procediamo in fila indiana, intuisco che nemmeno loro sono molto tranquilli.

Man mano che camminiamo, una musica di tamburi si fa sempre più vicina e incombente.

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Il lunghissimo e desolato tragitto (in realtà, abbiamo percorso poco meno di cento metri) termina davanti a un pertugio alto e stretto che divide due fatiscenti catapecchie. Da lì, attraverso un budello di corridoio largo non più di una persona, ci immettiamo in un giardinetto di cinque metri quadrati. C’è poca luce ma riesco a intravedere, tra un albero nano e una pianta a foglie larghe, una panchina in legno e un piccolo tavolo rotondo.

La musica dei tamburi adesso è fortissima.

Alla fine del giardino c’è un varco in muratura a vista, non molto grande ma dotato di una porta in legno aperta verso l’interno.

Si capisce che è l’ingresso alla zona dove si svolgerà la cerimonia perché lì ad attenderci c’è la mãe de Santo, una splendida e matronale donna di colore, truccatissima, con un sorriso a trentadue bianchissimi denti, vestita di un abito a balze multicolori. Tenendo una sigaretta accesa nella mano destra, ci bacia e ci abbraccia uno a uno, emettendo, al contempo, uno strano verso gutturale.

Finiti questi convenevoli ci invita a entrare.

Superato un altro minuscolo giardino, più attrezzato del precedente e un piccolo e luminoso atrio, raggiungiamo finalmente la nostra meta.

La casa do Santo è una stanza di sei metri per quattro, dalle pareti completamente spoglie. Sotto una finestrella sul fondo, all’interno di un palco chiuso da una balaustra dove è appeso un cartello con la scritta Autoridade, sono sistemati tre tamburi di dimensioni e suoni diversi, battuti a mani nude da tre ragazzi di colore di età comprese tra i venti e venticinque anni.

Ci sistemiamo, assieme ad altri spettatori, su sedie e panchine in legno appoggiate alle due pareti più lunghe della “casa”. Sul pavimento, disposti al centro della stanza, ci sono un bicchiere a coppa, pieno di vino e una bottiglia di spumante ancora chiusa. Di sicuro sono elementi caratteristici della cerimonia a cui stiamo per assistere.

Mi soffermo a guardare le facce delle persone presenti nel locale, una trentina in tutto, e noto che, se si esclude un gruppetto di ragazze e ragazzi bianchi in jeans e felpe (evidentemente turisti come noi), gli altri sono uomini e donne dalla pelle scura o decisamente nera e vestono abiti abbastanza modesti. Seduta sulla panchina, accanto a mia moglie c’è una donna anziana dal viso nero ebano con in testa una fascia variopinta, camicetta bianca e gonna larga nera. Addosso, collane e braccialetti etnici.

I tre ragazzi sul palco si esercitano con i tamburi rituali, esibendosi in singoli pezzi di bravura, passandosi a turno il testimone e invitando i presenti a battere le mani. Ci proviamo un po’ tutti, ma non è facile tenere il tempo. La cosa potrebbe essere fastidiosa, ma nessuno protesta perché il fragore dei tamburi è così forte che sovrasta il nostro battimano stonato.

La mãe de Santo entra di tanto in tanto nella stanza e, dalla sigaretta che ha costantemente in mano, tira cinque o sei boccate veloci, una di seguito all’al­tra, impregnando di proposito l’aria dell’ambiente col suo fumo. Poi si china a prendere il bicchiere al centro della stanza, beve qualche sorso, lo deposita di nuovo sul pavimento ed esce.

Mescolata ad altra gente di colore che aspetta l’inizio della cerimonia, noto una splendida ragazza mulatta di quindici, sedici anni al massimo; è scalza e veste una tunica bianca di foggia occidentale. Consapevole della sua bellezza, non degna di uno sguardo nessuno dei presenti. Non fa nulla se non baciare e abbracciare la mãe de Santo quando è presente nel locale.

La fanciulla ha un viso incantevole e un corpo non più acerbo le cui forme la tunica aderente nasconde a fatica. Mentre la guardo, non sento più il suono dei tamburi e mi perdo in azzardati quanto lascivi pensieri che per qualche istante sostituiscono le percezioni di paura che fino a poco prima avevano attanagliato la mia mente.

Dopo una mezz’ora di quest’andazzo sconclusionato, fatto di un andirivieni di persone e di suoni preparatori, la donna anziana, seduta accanto a mia moglie, si alza dalla panca e si dirige verso il palco delle autorità.

Si inchina ai suonatori e inizia a muoversi, lentamente e a testa bassa, in giro per la sala. Il rollio dei tamburi riprende d’improvviso a un volume così forte da costringermi a tapparmi le orecchie. Mi volto verso mia moglie, lontana tre o quattro posti da me. So benissimo che non sopporta la musica a quel livello, eppure il suo viso è imperturbabile e i suoi occhi non danno segni di disagio.

La vecchia, per nulla turbata da quei suoni assordanti, continua a camminare, scuotendo di tanto in tanto il capo in segno di fastidio come se fosse amareggiata dal non riuscire a entrare in sintonia con la musica. Gli occhi dei presenti sono concentrati sull’anziana donna, in tutti c’è la percezione che qualcosa stia per succedere. Infatti, prima le mani poi le spalle e le gambe della vecchia cominciano a tremare vistosamente come se le vibrazioni dei tamburi fossero penetrati nel suo corpo e la spingano ad accennare qualche sgraziato passo di danza. La donna, entrata in evidente stato di trance, rivolge braccia e occhi al soffitto e con voce stridula sembra chiedere aiuto: sta quasi per cadere. A sorreggerla arriva immediatamente la ragazzina dalla tunica bianca che l’acca­rezza e cerca di farle forza. Dopo averle detto qualcosa all’orecchio, aiuta la vecchia a sfilarsi le scarpe, la fascia multicolore, le collane e i braccialetti. Al termine di quella sorta di pubblica spoliazione, la musica si abbassa di molto ed entrambe escono dalla stanza.

Mentre i tamburi continuano in sordina, da fuori si sentono delle grida concitate, come di persone che stanno litigando fra loro. Poi quelle voci si quietano e la vecchia danzatrice rientra a piedi nudi nella sala. Si è cambiata d’abito, ora veste una tuta azzurra molto aderente e sul capo ha un basso cappello a punta di stile coloniale. Nella mano sinistra tiene una specie di frustino e in bocca ha un lungo sigaro acceso.

Cammina lentamente per la stanza fumando in modo voluttuoso e buttando il fumo in direzione degli spettatori. L’aroma acre di sigaro, misto a quello di sigaretta della mãe de Santo che le va incontro, rendono l’aria densa e irrespirabile.

Mentre i tamburi riprendono a suonare in un crescendo impressionante, le due donne si baciano sulle guance, si abbracciano più volte, bevono insieme dal bicchiere raccolto dal pavimento dando, al contempo, inequivocabili segni di nervosismo.

L’atmosfera si fa elettrica, lo spettacolo entra nel vivo.

La vecchia appoggia il frustino su una sedia, corre a prostrarsi davanti alla balaustra dei suonatori, ed emette per cinque o sei volte un urlo a pieni polmoni simile al verso di un gallo che sta per essere sgozzato.

Un grosso brivido di paura mi corre lungo la schiena per fermarsi, trasformato in angoscia, alla bocca dello stomaco.

Faccio fatica a respirare.

Immobili come pietre, tutti guardano ipnotizzati la vecchia che si solleva da terra e si scatena in un acrobatico ballo del tutto inconcepibile per una donna della sua età. Tenendo nella mano sinistra il sigaro acceso e nella destra il cappello, in quello spazio ristrettissimo riesce per miracolo a evitare il bicchiere e la bottiglia di spumante sul pavimento.

Il suono dei tamburi danno ritmo e consistenza ai movimenti violenti ma aggraziati di quel corpo dalle ossa così minute da sembrare un manichino manovrato da mille fili. Un corpo che dà l’idea di essersi trasformato in uno strumento musicale a percussione che l’anziana danzatrice suona correndo e saltando a cadenza sfrenata davanti agli spettatori incantati da tanta insospettata bravura.

Quel ballo rituale va avanti per circa un quarto d’ora, accompagnato dai piccoli e incerti passi di un uomo di colore, massiccio e con occhi bovini che entra lentamente in scena.

Quando la vecchia si accorge di lui, lo raggiunge e lo invita a ballare, accarezzandolo ripetutamente sul viso.

L’uomo, vestito di tutto punto in giacca e cravatta, cerca di assecondarla ma è goffo nei movimenti. Muove le gambe senza coordinazione, comincia a sudare abbondantemente e a lanciare sguardi spauriti al soffitto, proprio come aveva fatto in precedenza la vecchia. Sulla sua faccia si stampa un sorriso ebete, vuoto di qualsiasi espressione, le gambe gli si piegano.

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I tamburi tacciono di colpo e la vecchia smette di ballare. La mãe de Santo e la ragazzina dalla tunica bian­ca corrono verso l’uomo. Entrambe lo abbracciano, lo fanno fumare, gli danno da bere. Niente da fare. Le gambe dell’uomo cedono, gli occhi gli si rovesciano completamente al­l’indietro e un urlo bestiale esce dalla sua bocca.

Evidentemente anche l’uomo è entrato in trance. Le due donne, gli tolgono le scarpe, la giacca, la cravatta e lo trascinano fuori dal locale.

Tra il pubblico serpeggia un brusio. Forse la scena a cui abbiamo assistito è stata troppo cruda, più cruda della recente trance della vecchia danzatrice. Nella stanza si è creata una grande partecipazione emotiva, particolarmente riscontrabile nelle persone di colore che con noi assistono alla cerimonia.

Guardo la mia vicina di panca e scambio con lei un’occhiata incredula a significare: «cosa diavolo sta succedendo qui?»

L’anziana danzatrice, sigaro in bocca, si avvicina a ognuno di noi, ci invita ad alzarci e ad accennare insieme a lei dei passi di danza. Molti rifiutano di farlo: di sicuro a trattenerli è la paura di entrare in trance e di non essere più padroni del proprio corpo.

Quando è il mio turno, afferro la mano che lei mi tende e mi concentro sul suono dei tamburi. L’imbarazzo è forte e il mio corpo rimane incollato al pavimento. Lei si accorge della mia difficoltà a lasciarmi andare, mi sorride benevola e con un gesto del capo mi fa segno di sedermi. Si vede che non mi ha trovato adatto psicologicamente a sostenere quella traumatica esperienza.

Ultimata questa parte della cerimonia, il bicchiere e la bottiglia di spumante al centro della stanza vengono finalmente ritirati dal pavimento.

La bottiglia viene stappata e la mãe de Santo, in barba a qualsiasi precauzione igienica, offre a ciascuno dei presenti un sorso di vino sempre dallo stesso bicchiere.

Anche se sono del tutto astemio, non ho il coraggio di rifiutare. Il vino è di bassa gradazione e ha un sapore dolciastro: riesco a mandarlo giù senza problemi.

Nell’atmosfera che si è creata nella stanza, sempre più impregnata di fumo di sigaro, sigarette e di sudore corporeo, mi sento stranito e indifeso. Sbircio mia moglie e gli amici e non vedo che visi attoniti ed espressioni imbarazzate.

Il più perplesso e preoccupato è Ugo. Credo senta il peso di averci coinvolti in un’avventura che nessuno di noi sa come andrà a finire.

Al termine del rito di assaggio del vino cerimoniale, rientra in sala l’uomo che poco prima era andato in trance. L’hanno liberato dagli abiti borghesi ed è rimasto in mutandoni bianchi a gamba lunga, abbottonati ai polpacci, e canottiera a righe orizzontali senza maniche.

Barcolla ancora vistosamente.

La vecchia lo raggiunge e col frustino compie su di lui dei gesti rituali, lo abbraccia e lo bacia. L’uomo emette una lunga serie di versi gutturali (imitando nuovamente il grido straziante di un gallo che sta per essere sgozzato) e da goffo che era, si trasforma come per magia in esperto ballerino acrobatico, instaurando un accesissimo colloquio, ora allegro, ora rabbioso, con i tre suonatori di tamburo, alternando parole in lingua iorubà a balli e canti di grande impatto emotivo.

Non capisco nulla di ciò che dicono, ma ho l’impressione che raccontino piccoli fatti personali della vita di tutti i giorni da condividere con i fedeli. L’uomo cerca di coinvolgere la gente di colore che sta assistendo alla cerimonia, e qualcuno, a turno, si alza, discute e balla con lui.

Accetta l’invito anche una donna mulatta, non bella ma piuttosto appariscente, vestita con una minigonna jeans che le copre a malapena gli slip. Ha capelli ricci, tagliati cortissimi e con mèches biondo rossastro disposte con sapienza sulla nuca e sulla fronte. Con un sorriso malizioso stampato sul viso si avvicina all’uomo e comincia a ballargli intorno in modo provocante. Lui non disdegna quelle attenzioni e la sua danza assume la forma di aperto corteggiamento. Dai movimenti del basso ventre dell’uomo, dalla sua mano destra tesa e dall’ammiccante esclamazione fudu, fudu! pronunciata ripetutamente (in perfetta assonanza col nostro fotti, fotti!) si intuisce cosa le stia proponendo. Dopo qualche minuto di quella manfrina piuttosto volgare, la donna rientra nei ranghi, fermandosi sorridente sulla soglia della stanza.

I canti e le spettacolari danze continuano senza sosta mentre i tamburi, percossi a più non posso, fanno tremare i muri.

La mia testa sta per scoppiare.

Sento che la mia volontà di reagire è praticamente a zero, come travolta da qualcosa che inconsciamente rifiuta ma che non è più in grado di controllare. In questo stato confusionale, accetto di assaggiare un liquido nero, dolciastro, intriso di sapori sconosciuti che l’anziana danzatrice mi offre dal bicchiere che prima conteneva il vino e, tra gli sbuffi del sigaro che ha in bocca, accolgo il suo abbraccio rituale. Una volta finito con me, si rivolge alla mia vicina di panca, ma questa si rifiuta di bere quello strano intruglio speziato, anzi si alza di scatto e con passo deciso esce dalla stanza. Subito un’altra giovane turista la imita e ciò convince anche me e tutti gli amici del gruppo ad abbandonare la cerimonia.

La plateale fuoruscita di almeno una decina di persone non provoca nessun imbarazzo nell’assemblea dei fedeli: i canti e il martellamento dei tamburi continuano imperterriti, come se ciò che si sta celebrando in quella stanza fosse rivolto alla gente di colore e non uno spettacolo allestito a beneficio dei turisti.

Appena fuori all’aria aperta finiamo in un giardinetto dove diverse persone di colore chiacchierano tranquillamente, qualcuno beve o fuma, e dei bambini giocano a rincorrersi. È ormai notte fonda, l’aria è fresca, respiro a pieni polmoni per espellere dal petto il tantissimo fumo che il mio corpo ha immagazzinato. Cerco di calmarmi ma la tensione accumulata fino a quel momento non cede e nella mia testa frulla insistente la domanda:

«Come faremo adesso a tornare in albergo?»

Avvicino gli altri del gruppo, li guardo negli occhi e nei loro volti leggo la mia stessa preoccupazione. Ugo è così pallido e teso che mi viene quasi voglia di rincuorarlo.

Nel piccolo spazio in cui ci troviamo, delimitato da una rete metallica, ci sono un paio di tavolini a forma di semicerchio, pieni zeppi di oggetti rituali, candele e statuine in legno intagliato a mano. Appesi alla rete di recinzione, diversi quadretti votivi con iscrizioni o foto di famiglie di colore. Alla casa do Santo, proprio di fronte a quei modesti altari, si affianca una piccola costruzione a forma cubica in mattoni, chiusa da una bassa porta dipinta di un colore blu molto intenso che si sta sfaldando in più punti e dotata di un’unica finestrella dai vetri anch’essi blu scuro da cui esce una luce tremolante. Mi ci avvicino per curiosare, ma non faccio in tempo perché dalla casupola esce la mãe de Santo seguita da un uomo piegato in due per evitare di sbattere il capo contro lo stipite della porta. È Gilberto, l’avvocato che, oltre a essere il più giovane e il più alto del gruppo, è venuto in Brasile senza la moglie. Sul suo viso leggo dell’imbarazzo ma non faccio in tempo a chiedergli spiegazioni perché è immediatamente fagocitato dalle due ragazze che per prime avevano abbandonato la cerimonia religiosa. Cerco di allontanarmi ma vengo preso delicatamente per mano dalla mãe de Santo e invitato a seguirla oltre la porta blu.

Non riesco a dirle di no. Mentre sto varcando la soglia della cabana, mi volto e intravedo Chicca e Teresa, preoccupatissime in viso, che m’implorano di non entrare.

Anch’io ho paura, ma, nello stesso tempo, sono curioso di sapere cosa c’è in quel luogo che sa tanto di mistero. L’ambiente è angusto e poco illuminato: un divano occupa il centro della sala dove, su un vecchio tappeto beige, sta disteso un cane addormentato in posizione fetale. Non vedo quadri o reliquie alle pareti. Una grande pentola metallica contenente pop corn, in buona parte sparsi per terra e sul divano, e un cesto di vimini con qualche moneta dentro, completano l’arredamento. Prima che la porta si chiuda un gatto ne approfitta per uscire in giardino.

La vera scioccante sorpresa è che dentro la cabana c’è la bellissima ragazzina mulatta tutta vestita di bianco che mi accoglie con un aperto sorriso.

Vado letteralmente in confusione.

La giovane si avvicina, mi regala un fugace abbraccio e mi aiuta a togliermi le scarpe. Poi mi conduce, mano nella mano, sul tappeto di fronte al divano.

Indecenti idee, a forza prima cancellate, tornano a offuscare la mia mente.

La mãe de Santo si china, preleva dalla pentola una manciata di pop corn e me li sparge sul capo, sottoponendomi a una specie di rito battesimale in cui l’acqua, simbolo cristiano della purificazione, è sostituita dal leggero granoturco scoppiato in olio e sale.

Una scena a dir poco comica se non ci fosse stato il timore reverenziale per il mondo sconosciuto in cui da due ore sono immerso e il pensiero di quant’al­tro di emozionante può accadermi lì dentro (la stanza col divano, seppure disseminata di pop corn, sembra una perfetta alcova…).

Dopo quella breve cerimonia pagana, la fanciulla che mi sta tenendo per mano cerca la mia attenzione e con il capo mi indica il cesto delle offerte.

Torno rapidamente in me e temendo di essere derubato di quei pochi reais che ho nel portafoglio, faccio segno, battendo le mani sul fianco dei pantaloni, di non avere denaro con me. Questo mio gesto segna la brusca fine del mio viaggio forzato nella cabana do mistério e lo sgretolarsi delle fantasie sessuali partorite dalla mia mente sovreccitata.

Le due donne m’invitano a rimettermi le scarpe e vengo riportato, con fredda cordialità, nel cortile a cielo aperto.

Raggiungo gli amici e dopo aver confabulato brevemente con loro, decidiamo all’unanimità che ne abbiamo a sufficienza del folclore afro–brasiliano e che è giunto il momento di fare ritorno in albergo.

«Ma come faremo a tornare, se i nostri due autisti se ne sono andati?» ci chiediamo all’unisono.

Non sappiamo assolutamente in quale sperduta parte di Salvador de Baia ci troviamo e quanta strada a piedi dovremo percorrere.

Ugo sente il dovere di prendere in mano la situazione.

Butta l’occhio d’intorno e vede nei paraggi il tizio distinto, vestito all’occi­dentale e dalla pelle neanche tanto scura che ci aveva accompagnato all’ingres­so della favela, dopo che i nostri autisti avevano tagliato la corda.

Ha tutta l’aria di essere il padrone di casa perché molti dei presenti lo contattano e gli parlano, mostrando un misto di deferenza e familiarità.

Ugo lo avvicina e sfoderando di nuovo il suo spagnolo/inglese gli chiede come fare per tornare in albergo.

«Siete già stanchi?» fa l’uomo.

«No, no! È che domani mattina presto si apre il congresso mondiale degli avvocati…» risponde Ugo, sottolineando volutamente la parola avvocati.

L’uomo, rivelatosi come il pai de Santo della piccola comunità, per nulla intimorito, gli sorride con cordialità, estrae dalla giacca un telefonino di ultima generazione e compone un numero.

Lo sentiamo parlare con calma e, in una pausa della conversazione, chiede ad alta voce in un perfetto inglese quanti desiderino tornare adesso al proprio albergo. A noi si accodano altre cinque turisti, comprese le due ragazze che stavano accanto a me durante la cerimonia. Con estrema cortesia, infine, ci avverte che tra pochi minuti arriverà a prelevarci un pulmino a sedici posti.

Lo stato di angoscia che mi ha rovinato la serata non scompare ma si attenua un po’. Qualcosa di simile deve essere successo anche agli altri. Tutti, quasi in contemporanea, torniamo loquaci e interessati a quello che ci circonda. Mentre aspettiamo il pulmino assaliamo con mille domande il pai de Santo e lui, parlando un inglese scolastico, facile da capire, ci racconta brevemente la storia della religione africana di cui è sacerdote e divulgatore nella sua zona di competenza.

Imparo così che il Candomblé, un vero e proprio culto importato nelle Americhe dagli schiavi neri dell’Africa, per tanto tempo è stato vietato dalle autorità governative nazionali ma che oggi può essere liberamente professato sia in Brasile sia in altre zone dell’America del Sud.

Che i difficili nomi delle loro divinità Orixa sono: Exù, Ogum, Oxossi, Oxala e tanti altri ancora. Che il loro credo non è politeista, come si potrebbe pensare, ma contempla un unico Principio Primo (con un nome diverso da nazione a nazione africana di provenienza) da cui discendono tutte le altre divinità.

Che per aggirare il divieto di celebrare apertamente le cerimonie, il culto degli Orixa venne furbescamente associato a quello dei santi cattolici, per cui ancora oggi a ciascuna delle loro divinità corrisponde una figura della liturgia cristiana.

Che a Salvador de Bahia, nel gruppo etnico africano Yoruba, appartenente alla nazione Ketu, il Principio Primo si chiama Olorum e che il dio della creatività Oxala coincide con Gesù.

Accogliamo queste nozioni con rispetto ma anche con scetticismo, scetticismo che diventa disincanto e persino aperto rigetto in alcuni ragazzi che con noi aspettano di rientrare in albergo. Evidentemente costoro non hanno superato lo shock di quella celebrazione religiosa fatta di chiassosa promiscuità i cui simboli essenziali sono uno stato di trance ipnotica indotto dalla musica, il ballo acrobatico, il vino speziato e il fumo di tabacco.

Il pulmino non tarda ad arrivare e ci riporta sani e salvi in albergo.

È mezzanotte passata, le luci dell’hotel Cocoon sono soffuse e il portiere di notte sonnecchia. C’è silenzio dattorno. Stiamo per darci la buonanotte, quando Peppino, serissimo e noto avvocato del Foro di Milano, emette, a pieni polmoni, due potentissimi e strazianti chicchirichì che rompono il silenzio della notte.

In quel momento non riusciamo a ridere.

Nessuno di noi è in grado di dire se quel suo grido è per burla o liberatorio.

Fine

Illustrazioni di Olivier Maceratesi