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Per quei pochi amici che non conoscono il latino e, per introdurvi subito nell’esprit lieve del post odierno, questa potrebbe essere la traduzione del titolo: Tota erras via = Non ne imbrocchi mai una.

Per evitare equivoci, la persona che non ne ha mai azzeccata una in vita sua sono io. Vogliamo brevemente approfondire questo discorso?

A detta di molti ero nato con il numero necessario e (forse) sufficiente di neuroni per poter studiare e riuscire facilmente a laurearmi nei dovuti tempi. Ma qual è stata la facoltà universitaria che scelsi alla fine del liceo scientifico? Optai per Ingegneria Elettronica, cioè una branchia scientifica, quando in realtà io amavo tantissimo leggere e scrivere, dal momento che, più che divertirmi con i numeri, la mia mente viaggiava spesso e volentieri nel variegato mondo della fantasia.

Errare Umanum Est

Dopo una lunga, onesta, quanto anonima carriera in un mondo lavorativo dove è  importante saper usare più le mani che il cervello (o al più, dove il cervello è usato in massima parte per guidare le mani e le gambe), una volta entrato in pensione, ho creduto di potermi finalmente dedicare, anima e corpo, a quella che supponevo fosse la mia vera attitudine, cioè affrontare con gioia e intima soddisfazione il mondo letterario. Per mia libera scelta ho speso un certo numero di anni della terza età scrivendo libri che avrebbero dovuto regalarmi – in vecchiaia – quella fama che mi era stata negata in gioventù per colpa di un’errata valutazione delle mie effettive capacità mentali.

Niente di più sbagliato.

La tanto agognata fama letteraria non è arrivata, così, dopo alcune cocenti delusioni, ho scoperto che, in realtà, avevo avuto maggiori soddisfazioni a praticare l’ingegneria piuttosto che passando le mie senili giornate a scrivere libri che, pur avendo un certo intrinseco valore, ben pochi avrebbero mai letto. Ciò significa che, ancora una volta, non ne avevo imbroccato una, pur conoscendo a memoria le geniali dritte di quest’antico volume che troneggia nella mia biblioteca:

Infallibilità

Un altro grosso errore della mia vita è stato l’avere creduto (e sostenuto) di essere un fine psicologo, cioè un uomo in grado di capire immediatamente la personalità della gente con cui entravo in contatto e di intuirne, in anticipo, mosse e contromosse. In realtà quelle persone agivano in un modo  – quasi sempre – diverso da come avevo supposto io.

Cioè anche in questo caso ho sbagliato tutto.

Alla mia età, non essendo possibile tornare indietro, è arrivato il momento di dare un’ultima chance a me stesso. Dal 2016 in poi intendo passare il tempo che mi resta godendomi la vita senza pensare più in grande, affrontando in allegria qualsiasi iniziativa che la mia feconda mente voglia, da oggi in poi, escogitare. Sbagliato o giusto, sciocco o intelligente ciò che farò in futuro, da parte mia non ci saranno recriminazioni o pentimenti. Ci riuscirò a comportarmi con così tanta libertà di pensiero?

Beh, comunque provarci non costa nulla.

Termino questo mio pistolotto d’inizio d’anno raccontandovi cosa è successo mentre festeggiavo con amici di vecchia data l’arrivo del 2016: ai primi fragorosi petardi scoppiati allo scoccare della mezzanotte, il cane di una mia simpatica ospite ha fatto un’enorme cacca nell’ingresso del mio appartamento.

Quanto è accaduto significa che nel 2016 avrò grande fortuna o, al contrario, sarà un anno di m… ?

Visto che finora sono stato uno che tota erras via… non mi azzardo a fare previsioni. Vada come vada, vi chiedo una gentilezza:

Non dare consigli1

A spingermi a questo importante cambio di vita è stato un fantastico pensiero di Confucio: “Quando incontrerai qualcuno persuaso di sapere tutto e di essere in grado di fare tutto, non potrai sbagliare: costui è un imbecille.”  Sorriso A bocca aperta Occhiolino

Buon e allegro 2016 a tutti!

Nicola

 

 

Io e Agata 3D

Io e Agata 3D back

Quella che vedete sarà la copertina della versione cartacea di Io e Agata realizzata per CreateSpace. Coloro che hanno letto il post della settimana scorsa avranno notato che è parzialmente diversa da quella della versione e-book. Ho dovuto modificarla per necessità. Lo sfondo marmorizzato che contraddistingue l’e-book non permetteva una facile lettura del testo nella quarta di copertina e per questo, ho dovuto cambiarlo. Dopo questa (inutile) notizia entriamo nello specifico del romanzo.

I personaggi principali sono tre: Agata, Fabio, Marta.

Marta è la moglie di Fabio. Di lei non ho potuto fornire ulteriori notizie. Mi è stato tassativamente proibito di descriverne l’aspetto fisico e i suoi intimi pensieri. Posso solo aggiungere che Marta è una donna di carattere, col cuore grande come una casa, ed è la nipote preferita di Agata. Il romanzo, sia chiaro, è di fantasia, ma alcuni personaggi, tra cui Marta, assomigliano molto a personaggi reali. Nel testo, comunque, disobbedendo un pochino all’impegno preso, la personalità di Marta emerge  chiara ed evidente.

Fabio, l’Io del titolo NON sono io, cioè l’autore del libro, ma è un simpatico signore laureato in lettere antiche che ha insegnato in un liceo di Milano. E’ doveroso sottolinearlo: io (scritto in minuscolo), infatti, sono un ingegnere elettronico a riposo e ho caratteristiche e aspirazioni del tutto diverse da quelle dell’Io, Fabio. Sbaglierà chi ravviserà in alcune fissazioni di questo personaggio le stesse che, in alcuni momenti della sua vita, ha manifestato il blogger Nicola. Fabio, da sempre, insegue il sogno di diventare un grande scrittore e di arrivare a possedere una libreria con un numero infinito di libri. Nicola si accontenta dei mille e passa libri che ha letto, inoltre, ben presto, ha capito che gli manca quel misterioso quid che permette a pochi eletti di raggiungere l’immortalità in campo letterario.

Agata, la minore delle due sorelle del padre di Marta, è una psicologa per vocazione e predisposizione mentale. Benché non avesse conseguito la laurea, esercitò con successo questa professione per parecchi anni. I suoi pazienti la chiamavano dottoressa con deferenza e affetto perché riusciva sempre a risolvere i loro disturbi mentali, emotivi e comportamentali. Agata era una psicanalista sui generis: curava la mente degli esseri umani sfruttando non solo l’ascolto ma il benefico influsso terapeutico delle piante. Il suo studio, infatti, era una specie di foresta tropicale dove trovavano posto solo una sedia per l’analista e una chaise longue per il paziente. Sono pochi quelli che non uscivano guariti dalle sue sedute. La sua cura, però, non era adatta a tutti. Chi soffriva di rinite allergica o di pollinosi veniva gentilmente invitato da lei a rivolgersi ad altro analista.

A sentire la campana dei famigliari, Agata non godeva di altrettanta considerazione. La sua originalità, manifestata abbastanza presto nel corso del suo cammino terreno, veniva da loro considerata fuori da ogni regola logica: tanta originalità faceva pensare che le mancasse qualche rotella. Matta come un cavallo era l’espressione con cui – carinamente – veniva ricordata nelle conversazioni in famiglia quando ci si riferiva a lei e alle sue azzardate scelte di vita.

Fabio conosce Agata il giorno del suo matrimonio con Marta e, subito, tra la psicologa e il professore di lettere nasce un sentimento di reciproca simpatia che nemmeno i tanti contrasti che avranno nel tempo, riusciranno a distruggere. 

Marta mi presentò a sua zia il giorno delle nostre nozze, durante il rinfresco, al termine della cerimonia in Chiesa. Lei mi diede una rapida occhiata e pronunciò una frase che ricordo ancora:
«Così questo è tuo marito? Beh, non è una gran bellezza, ma credo che ti farà felice!»
Lo disse sorridendomi apertamente e senza il minimo imbarazzo, facendo nascere nella mia testa quei sentimenti contrastanti che segnarono sempre i nostri rapporti: profonda attrazione per la sua fisicità, ammirazione per la vivacità della sua mente ma anche disapprovazione per certi suoi atteggiamenti sgarbati verso chi reputava non alla sua altezza.
Ho pensato parecchie volte a quella sua frase e non ho mai capito come abbia potuto esprimere un simile giudizio pochi minuti dopo avermi conosciuto. Riguardo al mio aspetto, non so se fece solamente dell’ironia, (in quel momento ero un ragazzo niente male) oppure se, con la lungimiranza degli indovini, riuscì a vedermi come sarei stato nella decadenza fisica dei settant’anni. Di sicuro centrò in pieno che avrei fatto del mio meglio per rendere felice sua nipote. Marta voleva dei figli e ne abbiamo avuti quattro e, in quasi mezzo secolo di vita matrimoniale, abbiamo avuto più momenti belli da ricordare che periodi brutti da dimenticare.

Ad accomunare Agata e Fabio sono la passione sfrenata per i libri. Agata, tra l’altro, dispone di una ricca biblioteca a cui Fabio farà apertamente il filo, sperando di entrarne in possesso alla di lei dipartita.

Quando Marta me la presentò, Agata mi piacque subito e ancora di più l’apprezzai quando seppi che non era sposata e che possedeva una biblioteca che dire fantastica è dire poco. Da allora mettere le mani sui suoi libri divenne il mio freudiano fort-da, un ripetitivo gioco del rocchetto che praticai negli anni con tenacia degna di ben più redditizi traguardi. Mille volte rimuginai fra me e me che, catturando con astuzia la sua benevolenza oppure utilizzando metodi di persuasione violenti, avrei avuto la possibilità di realizzare la seconda delle mie ossessioni. In realtà non pensai mai di ammazzare Agata per far sì che la sua biblioteca diventasse mia in anticipo però, visto il carattere spigoloso e ondivago di quella donna, ci andai molto, molto vicino…

A sessant’anni Agata decide di lasciare Milano, vende il suo prestigioso  appartamento e con il ricavato acquista una villa nella collina pavese a una quarantina di chilometri dalla città dove ha vissuto ed esercitato la sua professione. Questa svolta nella sua esistenza si rivelerà una scelta poco ragionata e, da quel momento in poi, comincerà il suo lento ma inevitabile decadimento fisico e mentale. Questa discesa all’inferno della ragione sarà da lei combattuta con caparbietà, aiutata dall’amorevole e costante presenza di Marta che  ha promesso a suo padre di vegliare – vita natural durante – su questa parente riottosa ad accettare regole e divieti della società del suo tempo.

Anche Fabio, con sempre in testa il pensiero fisso di entrare in possesso  della biblioteca di Agata, parteciperà a questa azione di supporto morale ed economico messa in essere da sua moglie per rendere meno solitaria e degradata la vita di una donna che sta invecchiando malamente in un luogo, Strà Ferrari, composto di quattro case in croce e nemmeno segnalato nelle carte topografiche.

Agata e Fabio, due personalità molto diverse fra loro, si incontrano e scontrano, si amano e litigano senza freni, come sempre avviene tra persone legate da amorosi sensi. Dunque, Io e Agata altro non è che il romanzo di due vite solidamente ed empaticamente intrecciate.

Fabio, sin da bambino ama leggere e scrivere. Entrambe queste passioni – vere e proprie ossessioni –  saranno la sua dannazione. Tutti sanno, all’infuori di lui, che scrivere con l’idea fissa di diventare uno scrittore di successo non è il modo migliore per affrontare con serenità e profitto la pagina bianca. Potrà l’Agata psicologa aiutare Fabio a superare indenne le tante delusioni che comporta l’attività dello scrivere senza avere mai gratificazioni? Agata, abituata a spendere in maniera scriteriata (la sua  famiglia era parecchio benestante), saprà affrontare senza davvero impazzire le ristrettezze economiche con cui, da un certo punto in poi, è costretta a convivere?

Il romanzo affronta e cerca di dare una risposta a queste problematiche e a tanti altri temi (i rapporti interpersonali, l’amore, la vecchiaia, la solitudine e la malattia) che si presentano pressanti e, a volte, irrisolvibili, nella vita di tutti gli esseri umani.

Io e Agata si sviluppa in 72 capitoli e con due racconti in appendice. Le voci narranti sono due. Agata e Fabio si alterneranno sulla scena per parlare della propria esistenza, entrambi sotto l’egida di Marta, personaggio volutamente tenuto in sordina, ma che rappresenta la saggezza e l’amore incondizionato in un mondo che, quasi sempre, è disordine, cattiveria, dolore e incomprensione.

Nicola

P.S. Andate su www.amazon.it e iscrivetevi (è gratis), scegliete la categoria Libri e cercate Io e Agata oppure Nicola Losito: nella videata che compare potete trovare il mio e-book e leggerne, senza alcun impegno di acquisto, i primi otto capitoli. Se trovate di vostro interesse il romanzo, è possibile comprarlo a 1,56 Euro, o richiederlo, in via gratuita, scrivendomi alla mail n.losito@alice.it.

A metà Novembre, se non ci sono intoppi, sarà disponibile anche la versione cartacea di Io e Agata. Un consiglio disinteressato: questo libro potrebbe essere un simpatico regalo di Natale per gli amici. Caldo Occhiolino

E, per finire, ecco una strip del Signor Giacomo:

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Dal mio romanzo incompiuto Io e Agata estraggo un capitolo e, nel porlo alla vostra attenzione, vorrei segnalare due cose: primo, che Agata era una psicoanalista molto sui generis in quanto curava i suoi pazienti con l’aiuto delle piante che, a mo’ di foresta incolta, riempivano il suo studio e, secondo, che l’Io del titolo non sono io. Ma è soltanto un simpatico tipetto a cui mi sono ispirato nell’ideare questo romanzo che spero di terminare prima di passare a miglior vita.

Buona lettura!

Nicola 

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I cinque cani e la seduta psicoanalitica

Dopo circa un anno di matrimonio, tra me e Marta era sorto un problema che non riuscivamo a risolvere con le nostre forze e che rischiava di far saltare la nostra unione. Al sesto mese di gravidanza, per colpa di un maledetto virus che aveva attaccato la placenta di Marta e aveva impedito al feto di respirare, perdemmo il nostro primo figlio maschio. Dopo l’aborto terapeutico, resosi necessario per evitarle pericolose infezioni, mia moglie, pensando di essere in qualche modo responsabile della morte del bambino, entrò in depressione e, ben presto, l’atmosfera in casa divenne cupa e invivibile.
Appena fu possibile riprendemmo a fare l’amore, sbagliando, però, approcci e metodi. Ci assoggettammo a vere e proprie maratone, avendo come unico scopo la procreazione, dunque con preliminari ridotti al minimo, cioè con divertimento e piacere completamente assenti. Facevamo sesso senza quel contorno che rende tale attività speciale per la mente e il corpo. Forse per questo arrivai al punto di odiare il momento di andare a letto per assolvere un dovere coniugale ormai ridotto a una mera ripetizione di penetrazioni. Siccome i nostri sforzi non stavano dando i frutti desiderati, Marta, accortasi della mia crescente insoddisfazione, pretese un maggiore impegno da parte mia e, di conseguenza, cominciai a sentire il peso di una situazione che tardava a sbloccarsi. Sempre più delusi e amareggiati ci recammo da diversi medici specialisti e questi, dopo averci sottoposto ai test più avanzati sulla nostra idoneità a procreare, ci assicurarono che eravamo fisicamente a posto e che dovevamo soltanto avere “pazienza”.
In queste condizioni di acuto stress psicologico, era impensabile che Marta rimanesse incinta e, dopo alcuni mesi di quella frenetica attività sessuale, il desiderio di fare l’amore con lei cessò del tutto. Mi buttai a capofitto nel lavoro, evitando in tutti i modi possibili di affrontare la questione che ci assillava. Marta interpretò il mio atteggiamento sfuggente come mancanza d’interesse nei suoi confronti e quando prese a stigmatizzare la mia appannata aspirazione di avere un figlio, tra noi sorsero dei violenti screzi. Non era vero che avessi rinunciato alla paternità, in realtà mi ero semplicemente stancato di essere considerato alla stregua di un animale da monta, diventato inetto a procreare. Arrivati assai vicini a un punto di rottura, senza avvertirmi dei suoi piani, Marta decise di rivolgersi a Agata nella speranza che lei risolvesse il nostro problema.
Prima di proseguire, a questo punto, devo aprire una breve parentesi sulla fauna di cui Agata amava circondarsi quando abitava ancora a Milano in Corso Sempione.
Forse per colpa della sua disastrosa disavventura con lo studio medico Rolli in cui aveva perso gran parte delle sue sostanze, Agata aveva deciso di abbandonare l’università, pur mancandole pochissimi esami alla laurea e, per mantenersi, aveva allestito uno studio nel suo appartamento: lì riceveva una clientela che, aiutata dal passa parola sulla sua bravura, si stava facendo via via più numerosa. In pochi anni si era risollevata finanziariamente e aveva ripreso a condurre una vita dispendiosa, spesso permettendosi acquisti di necessità assai dubbia. A un certo punto si era convinta che due gatti e cinque costosissimi shih-tzu nani, tre maschi e due femmine, avrebbero lenito le sue sofferenze di donna tradita negli affari e negli affetti da persone che credeva amiche.
Quei cinque cani giapponesi, destinati a rimanere nella dimensione di cuccioli per tutta la vita, si chiamavano Kazu, Suke e Hiko, i maschi; Hara e Kasa, le femmine. Non so come Agata facesse a riconoscerli dal momento che avevano tutti la stessa corporatura e lo stesso colore del folto manto. Per distinguerle dai maschi, sul capo delle femmine aveva legato un ciuffettino di peli con un nastrino rosa.
Non posso dire molto sui due gatti perché non amavano gli estranei e perciò vivevano sempre nascosti da qualche parte in luoghi ben protetti dell’appartamento.
Chiusa parentesi.
Un giorno di giugno del 1970, Agata invitò Marta e me a pranzo nel suo appartamento milanese per farci conoscere i suoi cani. Pur essendo di razza molto pregiata e ricercatissima in quegli anni, se devo essere sincero, trovai quelle curiose matasse di pelo in perenne movimento, decisamente odiose, tranne una.
Kazu, il più nervoso della combriccola, non smise di abbaiarmi dietro per tutto il tempo che rimasi in casa, Suke si attaccò con le gambe anteriori al mio polpaccio destro ed ebbe con questo ripetuti e soddisfacenti approcci sessuali, Hara dopo avermi annusato per qualche minuto decise che il mio odore non era di suo gradimento e se andò via disgustata. Hiko, sin dal mio ingresso in casa, mi guardò dal basso verso l’alto con scostante sufficienza come se fossi l’uomo più brutto e sgradevole della terra. In realtà non vidi davvero quello sguardo disgustato ma lo percepii intenso e discriminante dietro la lunga chioma che gli copriva completamente occhi e muso. Non fece neppure la mossa di avvicinarsi per annusarmi ma, sculettando, se ne andò a pomiciare con Hara.
A Kasa, invece, piacqui da subito. Mi venne incontro sulla porta e, con le zampette protese verso di me, diede chiari segni di volere essere presa in braccio. L’accontentai e rimase accoccolata sul mio grembo sia durante il pranzo sia dopo, nel prosieguo della visita in casa della sua padrona.
Non desiderando far sapere a Agata che il mio matrimonio era in crisi, feci di tutto per mostrami allegro e collaborativo, ma risultai ben poco credibile. Finito di pranzare, infatti, Agata disse che doveva parlarmi e, stranamente, mi fece accomodare nello studio dove riceveva i clienti,  “ordinandomi” con un tono tra il serio e il faceto di rilassarmi mentre lei e Marta sparecchiavano la tavola.
Chiusa la porta dello studio, non più intento a difendermi dagli assalti passionali di Suke e con le orecchie non più martoriate dall’abbaio insistente di Kazu, seguito solo dalla scodinzolante Kasa, mi accomodai sulla poltrona in vimini con il poggia piedi in stoffa colorata (quella destinata ai pazienti). Di colpo la tensione accumulata negli ultimi mesi si allentò e da lì a poco mi addormentai con Kasa adagiata sulla pancia. Merito dell’ottima colazione offerta da Agata, del leggero e musicale russare della bestiola e del gradevole calore del suo corpo. Merito, soprattutto, della verde foresta tropicale che imperava attorno a me e che, appena entrato nella stanza, mi aveva stordito con i suoi profumi.
Agata interruppe il mio sonno un quarto d’ora dopo per sottopormi, di sicuro dietro sollecitazione di Marta, a una serie di domande sulla mia vita privata. Senza averglielo chiesto, ero diventato un cliente con un problema da curare.
Di quella seduta psicoanalitica ricordo poco o nulla. La sonnolenza postprandiale, l’aria pregna delle essenze odorose provenienti dalle piante che incombevano fin sopra la mia testa, avevano reso il parlare pacato di Agata una melodiosa nenia per le mie orecchie.
Molto probabile che discutemmo del mio matrimonio in pericolo, della depressione di sua nipote e di come fare per superare queste difficoltà. Stranamente, pur essendo una donna di larghe vedute, non mi parlò di unguenti magici o di strane posizioni Kāma Sūtra che potessero rinfocolare la mia passione amorosa ormai spenta per Marta. Invece ricordo molto bene che, alla fine del colloquio, disse: «Seppellire una persona cara non significa dimenticarla, perciò il vostro bambino nato morto riposerà in pace solo quando avrà ricevuto una degna sepoltura “anche” nella vostra mente e, solo allora, tu e tua moglie sarete in grado di affrontare, nel modo giusto, una nuova gravidanza.»
Non so se furono queste parole a darmi la scossa benefica che da tempo desideravo, fatto sta che, uscendo dallo studio, ero in uno stato di benessere tale da considerare inezie superabilissime le tensioni che ultimamente si erano accese fra me e Marta. Ero così felice e rilassato che accettai, senza protestare troppo, di portare a passeggio lungo i marciapiedi di Milano i cinque cani di Agata. Mentre ero sulla porta, vidi Agata e mia moglie entrare nello studio. Sicuramente anche Marta stava per essere sottoposta a una seduta psicoanalitica analoga alla mia.
Uscito in strada, mi aspettava una missione quasi impossibile.
Sfido chiunque a portare in giro, senza impazzire, con un guinzaglio a più corde, cinque infernali bestiole ognuna con in testa una diversa direzione di moto. Hara e Hiko (i fidanzatini) tiravano a destra, Kazu, rinculando, continuava imperterrito ad abbaiarmi addosso, Suke e Kasa volevano andare a sinistra. Stanco di tutto quel bailamme, mi misi davanti a quel gruppo di cani indisciplinati e li trascinai di peso dove volevo io, cioè nel giardinetto a trecento metri dalla casa di Agata. Lì c’erano degli alberi a disposizione e un bel prato su cui scorrazzare e così, finalmente, potei lasciarli liberi. Per fortuna trovarono altri loro simili e per un po’ si disinteressarono di me. Aspettai che tutti facessero i loro bisogni e poi, con la stessa identica fatica dell’andata, li riportai a casa dove trovai Agata e Marta che mi aspettavano in cucina, chiacchierando allegramente.
Marta aveva il volto disteso e dagli occhi usciva un bagliore speciale come non ricordavo da mesi. In tutta evidenza anche a lei la seduta psicoanalitica aveva fatto un gran bene.
Fantastica Agata!
Con un estemporaneo colloquio a quattrocchi aveva compiuto lo stesso miracolo su due persone ormai prossime alla separazione.
Tornati a casa ci bastò un’occhiata complice, assai significativa e, senza bisogno di profferire parola, Marta e io ci spogliammo e facemmo l’amore con la stessa partecipazione e intensità di due sposini in viaggio di nozze. Non saprei dire con precisione se accadde quella notte o la seguente ma, in una o l’altra di queste due occasioni, Marta rimase incinta della nostra prima figlia.
E nei successivi anni mise al mondo altri tre bambini.

Fine

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   Editore Ponte alle Grazie – 16 Euro                   Rebecca Hunt

Come ho scritto nel post della settimana scorsa, dalla biblioteca comunale avevo preso in prestito, oltre a “Il lamento del bradipo” di Sam Savage, il romanzo “Il cane nero” della scrittrice inglese esordiente Rebecca Hunt e vi avevo promesso che, se ne fosse valsa la pena, ve ne avrei parlato.

Dunque, dopo aver finito rapidamente questo strano romanzo, ero molto in dubbio se spendere il mio tempo (che qualcuno asserisce essere assai poco prezioso) per scriverne una recensione e costringere i miei quattro lettori a leggere un post la cui conclusione è, grossomodo, questa: “Il cane nero” lo consiglio a quei pochi (o tanti) che amano i libri che disquisiscono di psicologia e in cui gli animali parlano e interagiscono con gli umani.

Oddio, non è che il libro in questione sia una bufala o sia scritto male (ripeto, la Hunt è un’esordiente, quindi, tanto di cappello!) tutt’altro, il problema sta nel fatto che l’autrice racconta delle cose che tutti più o meno conosciamo e per dirle c’impiega 256 pagine, per fortuna utilizzando caratteri grandi e un’apprezzabile verve surreale.

Il suo scopo era quello di narrare una storia attinente alla “depressione”, malattia che colpisce gran parte del genere umano maschile e femminile, usando, come enunciato nella quarta di copertina, un linguaggio arguto e vivace, sfrontato, originale e divertentissimo.

Questo giudizio de “Il Guardian” è vero solo nei primi tre aggettivi: arguto, vivace, originale. Tutti gli altri sono esagerati, perché il romanzo della Hunt è tutto fuorché sfrontato e divertentissimo.

È arguto come sanno esserlo gli inglesi dotati di fine humour.

È vivace perché la prosa utilizzata permette una lettura veloce.

È originale nell’uso delle descrizioni dell’ambiente (La luce disegnava un paio di calzoncini da tennis sulla parete della stanza) e perché uno dei protagonisti del romanzo è Winston Churchill, il famoso statista inglese raccontato nel momento del suo pensionamento.

Sfrontato, non capisco dove e perché, non essendoci alcuna scena di sesso né hard né soft.

Divertentissimo, direi assolutamente no. Anzi, per tutte le 256 pagine si respira un’atmosfera appesantita da tragedie pregresse e probabilmente anche incombenti che si sveleranno solo nelle ultime pagine.

Brava, è giusto sottolinearlo, è stata Rebecca Hunt a concludere il libro in modo positivo, cioè facendo capire che con la depressione si può convivere anche tutta la vita senza arrivare al suicidio e che i più fortunati possono persino vincerla.

Come ho detto nel mio precedente post, la scelta di leggere “Il cane nero” l’avevo fatta perché anch’io, anni fa, avevo scritto un racconto con lo stesso titolo, racconto che trovate in questo blog. Nella mia operetta il cane nero non è un animale parlante, ma qualcosa di reale, fisico, che abbaia agli sconosciuti, un essere che se morde fa danni immediati e visibili e con cui, a volte, ci si scontra in battaglie epiche ma che, alla fine della guerra, diventa un amico insostituibile.

Il cane nero (cane=fedeltà, nero=aggressività) nella rappresentazione letteraria che ne ha dato Rebecca Hunt, è la terribile metafora di una malattia psicologica che nessuno vorrebbe avere e che è difficilissima, se non impossibile, da vincere.

Ecco, credo di avervi dato tutti gli spunti per decidere da soli se affrontare o meno questo romanzo.

Personalmente vi consiglio di più il mio omonimo racconto: si legge in dieci minuti e non costa nulla…

Nicola

I pensieri e le divagazioni del Signor Giacomo

Ventunesima Puntata

Amore non riamato

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Le ragioni forti dell’amore

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Sentimenti e realtà

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Ombre oscure all’orizzonte

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Arrivederci alla prossima puntata…