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L’altro giorno, rimettendo in ordine uno scaffale della libreria nel mio studio milanese, ho ritrovato due riviste speditemi anni fa da Mirella, un’amica che vive a San Bernardino, un paese a quindici chilometri da Lugo di Romagna.

La rivista in questione si chiama Il Ponte, esce una volta all’anno a cura di volenterosi che abitano in quel borgo di poche anime, situato ai lati di una delle tante statali che attraversano il nostro bel paese. A San Bernardino ho vissuto per cinque anni, il tempo di finire il liceo scientifico a Lugo e iniziare l’università a Bologna. Anni belli e difficili che, sfogliando le due riviste edite nel 2009 e 2010, mi sono tornati con prepotenza alla memoria.

IlPonte

Nella copertina  del Ponte, sopra e sotto il titolo, è in evidenza quella che io considero una straordinaria metafora interpretabile in tantissimi modi. Partiamo dal suo significato letterale:

È stato perduto in San Bernardino
è stato perduto un buttazzo di vino,
chi lo trova beva il vino,
beva il vino, e restituisca il buttazzo…

La prima interpretazione che mi viene in mente è questa: sei capitato per caso a San Bernardino, una sperduta località della Romagna, hai trovato qualcosa di bello e qualcosa di brutto, cancella il brutto e ricorda il bello…

Ed è stato proprio così. Il primo impatto con gli abitanti di San Bernardino non fu dei migliori. Quando mio padre, appena nominato maresciallo, venne trasferito lì al comando della stazione dei carabinieri in un paese profondamente “rosso”, il fatto di essere il figlio di un’autorità governativa poco amata dalla sanguigna popolazione locale certamente non mi aiutò a far nascere buoni rapporti sociali con il vicinato; in più non capivo una parola di romagnolo. La conoscenza del dialetto bolognese mi servì ben poco: i 50 chilometri che separano San Bernardino da Bologna, in termini di linguaggio popolare, sono una distanza stellare.

Cosa mi ricordo di quegli anni?
Tutte le mattine prendevo al volo il bus che raccoglieva gli studenti di San Bernardino e di alcuni altri paesini della zona per portarli al Liceo Scientifico Gregorio Ricci Curbastro o ad altri istituti professionali di Lugo di Romagna. Al volo perché la
mattina faticavo a svegliarmi e mia madre non mi lasciava uscire di casa finché non finivo la colazione che odiavo con tutto il cuore (caffelatte e pane secco, mica le merendine sfiziose che i bambini mangiano oggi…). L’autista del bus era diventato mio amico e così, per far capire a mia madre che non poteva fare aspettare troppo un mezzo pubblico, suonava più volte il clacson: in questo modo ogni tanto riuscivo a saltare l’odiata prima colazione.

Ricordo la Lambretta nuova fiammante  avuta in regalo per i miei sedici anni e la Topolino C stra-usata ottenuta come premio per la media dell’otto alla maturità che mi avrebbe permesso di entrare gratis a Ingegneria a Bologna e con tutti i libri del primo anno di università omaggiati dallo Stato a chi si era distinto durante i cinque anni di Liceo. Il primo giorno di guida "in solitaria" sulla Topolino ero così emozionato che mi lasciai tamponare "da fermo" da un’auto che, in retromarcia, stava parcheggiando sullo stesso lato della strada dove io mi stavo predisponendo per affrontare il mio battesimo da neo patentato. Non ebbi, cioè, la prontezza di spirito di segnalare con un colpo di clacson la mia presenza sulla carreggiata all’auto in manovra.

Ricordo le vacanze estive in campeggio a Porto Corsini, a due passi dal porto di Ravenna. Con la mia mini canadese, presa in affitto, e avendo pochi soldi in tasca, mi facevo adottare e benvolere dalle famiglie tedesche o francesi che avevano bellissime figliole cui tenere compagnia e alle quali insegnare i primi rudimenti sui fatti della vita… Molto spesso le mamme mi invitavano a mangiare al loro tavolo, forse per ringraziarmi delle “calorose” attenzioni che dedicavo alla loro progenie femminile.

L’unica nota stonata del mio quinquennio romagnolo fu la politica. La mia idiosincrasia per la cosa pubblica nasce proprio in quegli anni. Chi non la pensava "come loro" era un venduto, una persona poco intelligente, uno da tenere d’occhio.
C’era un personaggio politico che, all’epoca, era il più odiato in assoluto. Si trattava di Saragat. Costui – che poi divenne Presidente della Repubblica – non veniva mai chiamato per nome, ma a lui si riferivano con il termine spregiativo  de "Il traditore". Di sicuro addebitavano a lui
la rottura del Fronte popolare, impedendo così alle forze di sinistra di impadronirsi, senza spargimenti di sangue, del potere in Italia.

Il prete e il gestore della locale Casa del popolo si guardavano sempre in cagnesco e a ogni mossa di uno seguiva subito quella, analoga, dell’altro. Fu così con la televisione. Il primo ad averla fu il prete. Una settimana dopo anche la Casa del popolo ebbe la sua televisione nuova fiammante a disposizione dei frequentatori che adoravano i quiz di Mike Buongiorno.
Io, seguendo le precise indicazioni di mio padre, evitavo di parlare di politica, le mie passioni erano la musica, lo sport, filare dietro alle ragazze, andare a ballare. Qui c’era poca scelta, per ballare occorreva frequentare le Case
del popolo: solo loro avevano a disposizione grandi saloni e sapevano organizzare feste danzanti come si deve e con musica dal vivo. In questi “luoghi di perdizione”, pur sotto l’occhio vigile delle mamme sedute a bordo sala, qualche toccatina più o meno generosa veniva concessa dalle fanciulle a noi studenti con il testosterone a mille. Ma anche le ragazze, al riguardo, non scherzavano: anche a loro piaceva essere strizzate…

Faticai parecchio a fare amicizia con i ragazzi e le ragazze della mia età (ecco il brutto della faccenda), ma poi il mio buon carattere, la mia attitudine all’umorismo e alla battuta sagace vinsero l’iniziale ostilità e, nel giro di pochi mesi, entrai a far parte del gruppo che se ne fregava delle idee politiche e dei mestieri dei genitori. Con questi nuovi amici passai felicemente gran parte dell’adolescenza (ecco il bello della faccenda) a San Bernardino.

Sono passati più di 50 anni da quei giorni, eppure ricordo ancora i nomi e i volti di molti di loro: Fiorenzo, Bruno, Demetrio, Mirella, Diana, Rosalba, Francesco…

Che fantastiche le nostre scampagnate!

NicAnni50_2 

Io sono quel (bel) giovane sulla sinistra seduto a fianco di Rosalba, la fanciulla che si sta sistemando i capelli.

A proposito di “bellezza”, in Romagna c’è un detto che ho sentito più volte pronunciare dalle mamme delle mie amiche, rivolto – benevolmente – a me:

L’è bel coma e cul dla padela…”

che significa: è bello come il fondo della padella. Ovviamente, siccome si scherzava, l’accento del motto era messo sulla parola cul  che, per salvaguardare il mio amor proprio, per voi ho tradotto con fondo.

Ma, a parte la battuta, all’epoca ero un ragazzino mica male. Lo si può notare nella foto seguente, dove ero stato invitato da un gruppo di pescatori, molto più anziani di me, a mangiare il pesce pescato con la bilancia in un capanno situato sulla riva di un fiume che attraversa le paludi ferraresi.

NicAnni50_1P

Questo ero io a 16/17 anni:

NicolaTondo

Il ricordo di quella giornata e dell’allegra comitiva è così vivo che, in bocca, ho ancora il sapore del pesce piccolo appena pescato, buttato nell’olio bollente e poi salato con abbondanza: la cosiddetta “frittura mista” che si mangiava tutta, teste e lische compresi. Per stemperare il salato sul palato c’era poi chi beveva un ottimo sangiovese accompagnato da spesse fette di formaggio pecorino semi-stagionato…

NicAnni50P

Termina così questo ricordo romagnolo. Se me ne verranno in mente altri, sarà un piacere raccontarveli.

Nicola

P.S. Ringrazio la rivista Il Ponte e i legittimi proprietari delle foto per avermi dato l’opportunità di rinverdire questo amarcord. La rivista è visionabile al sito web che si raggiunge cliccando qui.

Saluti

Carissimi amici,
con il post odierno termina la mia esperienza di blogger. Terrò aperto questo spazio solo per eventuali avvisi.
Ovviamente lascio il blog a disposizione dei webnauti. Chi vorrà leggere i miei 100 e  passa post pubblicati in questi anni, potrà sempre farlo e, statene certi, mi farà piacere. Chi conosce il mio indirizzo mail e desidera comunicare con me, può farlo tranquillamente. Risponderò a tutti.
La ragione di questa decisione è la solita: stanchezza per la grande fatica di produrre, ogni settimana, il compitino da pubblicare sul blog. Non ho più l’età per mantenere questo impegno. Sono sempre più convinto che scrivere deve essere un piacere, altrimenti è solo una sofferenza inutile. Non sono stanco solo per questo. La verità è che, in questi ultimi mesi, non sono stato con le mani in tasca. Non ho fatto il fancazzista, come dicono, scherzando, i miei amici ancora in attività. Anch’io, alla mia maniera, sono stato parecchio laborioso.

1. Sto insegnando italiano in una scuola serale per stranieri. (Una ragazza indiana mi ha  chiesto il significato di minchia! e cazzo! le esclamazioni più usate dalle persone che ha conosciuto in Italia e mi ha davvero messo in imbarazzo…)

2. Da diligente  blogger ho preparato con cura i miei post settimanali. (Ma ad avere più successo sono state le facezie/barzellette non mie…)

3. Ho letto e commentato molti post dei miei amici virtuali. (Spesso rosicando per la loro bravura e per il numero esagerato di commenti  lasciati da splendide fanciulle che a me non m’hanno mai degnato di un‘occhiata…)

4. … qui non scrivo niente per il semplice fatto che non si può spiattellare proprio tutto della propria vita privata!  A bocca aperta

5. Infine, ho rispolverato il romanzo che, da anni, riposava in un cassetto in attesa dell’ultima e definitiva revisione.  Per portare a termine questo (per me) gravoso compito ho speso gran parte delle mie energie mentali. Tutti sanno che scrivere un buon romanzo è una cosa difficilissima, mentre scrivere una ciofeca, è facilissimo… Basta vedere il numero spropositato di romanzi inutili che vengono pubblicati in Italia e nel mondo ogni anno. Per questa ragione, non volendo incrementare di un’altra unità gli inutili seller, ho lasciato riposare il mio romanzo per quattro anni nel cassetto. Quando, sei mesi fa, l’ho riletto, mi è venuto da piangere… Non certo per la gioia o la commozione, ma per avere perso tanto tempo a scrivere un’opera così sconclusionata. Quanti anni ho sprecato in questa avventura! Anni  che, invece, avrei potuto dedicare al divertimento e alla vita sociale?!  Tanti, troppi.
Pagine che mi sembravano geniali si sono rivelate, a una nuova e più attenta lettura, solo delle banali ripetizioni di pensieri già pensati e masticati da migliaia di altri pseudo scrittori prima di me.
Sono stato più volte sul punto di buttare definitivamente quel mio parto letterario nella pattumiera. A fermarmi è stato il ricordo delle revisioni/recensioni regalatemi da due amiche a cui, qualche anno fa, avevo dato da leggere quel mio ultimo e più sofferto romanzo. 
Il parere della prima amica era stato abbastanza positivo e su alcuni capitoli c’era persino appuntata l’esclamazione: bello! Il suo consiglio era stato di lasciare riposare qualche mese il libro e poi di rivederlo in alcuni punti. Solo così sarebbe stato pronto per la pubblicazione. 
Il giudizio della seconda amica era stato tragicamente negativo. Pagine e pagine cassate senza pietà, interi paragrafi cancellati… insomma, una vera tragedia. Il suo consiglio era stato di lasciare riposare qualche anno il romanzo e poi di riscriverlo di sana pianta! A suo parere, se l’avessi lasciato così, non sarebbe mai stato pronto per la pubblicazione.
Curiosamente queste due recensioni così diametralmente opposte, mi avevano convinto che, in fondo, il mio libro non era da buttare, ma necessitava di essere ulteriormente pensato, elaborato e riscritto.
Ecco perché ho lasciato passare quattro lunghi anni prima di riprenderlo in mano. Toccava a me di separare il grano dal loglio e di portarlo a una forma più acconcia e intrigante. Per compiere questa ultima revisione ho impiegato cinque mesi, lavorandoci su giorno e notte e, solo pochi giorni fa, sono arrivato a scrivere la parola fine. E, purtroppo, non sono ancora sicuro che il risultato finale sia soddisfacente! 
I cinque punti elencati dovrebbero spiegare il mio attuale stato di salute e giustificare il perché devo, forzatamente, mettere in animazione sospesa il mio amato blog. 
Sono svuotato non solo psicologicamente  ma anche fisicamente e ora sento la necessità di chiudere per un bel po’ con la scrittura. Devo riprendere fiato e rimettermi in sesto.
Appena potrò, trasformerò il libro in e-book e lo auto-pubblicherò su Amazon. Alcuni di voi conoscono già il titolo del romanzo, avendone io già presentato due capitoli nel blog, alcune settimane fa. Si tratta di “Affinità elettive” e di “I cinque cani e la seduta psicoanalitica” che avete accolto con cortese benevolenza. Per ringraziarvi, ho pensato di farvi una promessa e di sottoporvi, come mia ultima presenza su WordPress, un altro capitolo  di Io e Agata a cui io tengo in modo particolare.
La promessa è questa: se e quando Io e Agata sarà in vendita su Amazon farò in modo che tutti possiate leggerlo gratuitamente. Vi avviserò con una mail, oppure scriverò su questo blog come fare per scaricarlo gratis. 
Il terzo capitolo che presento oggi s’intitola Francesco mio. Questo è un mio vecchio racconto, rivisto e corretto, che comparirà nell’appendice di Io e Agata anche se è parte integrante della vicenda che narro nel romanzo. Il brano è piuttosto lungo, ma mi piacerebbe che lo leggeste e, bene o male, che qualcuno lo commentasse. Senza nessun obbligo, ovviamente.

Siccome questo è il mio ultimo post vorrei togliermi un sassolino dalla scarpa, ben sapendo che "la cosa peggiore che può capitare a una domanda è la risposta".
Io non conosco a fondo l’inglese, però ho sempre pensato che follower volesse significare seguace, uno che ti segue. Pare, invece, che su WordPress questo termine forestiero abbia un altro significato. Mi spiego: in quasi tre anni di mia assidua presenza su questa splendida piattaforma ho collezionato circa 280 follower, ma di questi solo il 10% si sono fatti vivi e hanno colloquiato qualche volta con me… ma tutti gli altri seguaci dove si sono nascosti!?
Forse, per questo corposo gruppo di blogger,  follower significava che dovevo essere io a seguire loro?  In verità per un po’ l’ho fatto poi, vedendo che non c’era reciprocità di amorosi sensi, ho abbandonato la partita.
Capita così anche a voi? Questa è la mia domanda da un milione di dollari…
Comunque, a volte esagero a lamentarmi. Infatti, tra i miei sostenitori silenziosi, posso vantare una parrucchiera che ha inventato e pubblicizza uno shampoo miracoloso, e un simpatico signore che promuove nel mondo bare e urne cinerarie…  Alla prima avrei voluto scrivere che è già un miracolo se, alla mia età, ho ancora quattro capelli in testa e, all’altro, toccandomi di nascosto le parti basse e non conoscendo il mio futuro, avrei voluto dire che mi piacerebbe vivere qualche anno ancora e che alla bara ci penseranno (spero) i miei cari… 

Ok, basta recriminazioni più o meno spiritose. È arrivato il momento dei saluti. Chiedendo scusa per questo lungo pistolotto, lascio un calorosissimo abbraccio ai miei followers… indistintamente.

Buona fortuna e lunga vita à tout le monde.
Nicola

Francesco mio

Francesco mio

Quando i pompieri riuscirono a entrare nell’appartamento del professor Quilici, lo trovarono seduto su una poltrona e con la bocca sorridente.
Anche il fringuello nella gabbia sorrideva.
Può sembrare un’assurdità, un volatile non può sorridere, ma chi li aveva trovati raccontò che dalla disposizione dell’uomo e della gabbia appoggiata sulle sue ginocchia, i due si stavano certamente guardando negli occhi e poiché il professore pareva sorridere, anche il fringuello doveva avere la sua stessa espressione.
«Sì, sì, – dicevano tutti – il vecchio e l’uccellino avevano dato insieme l’ultimo respiro, sorridendosi l’un l’altro».

Io, all’epoca, ero un ragazzino.
Alla storia del sorriso del fringuello ci ho creduto.
E ci credo ancora oggi.

Il signor Quilici era un professore di musica in pensione. Viveva nel mio stesso palazzo. Quando lo conobbi, avevo quattordici anni. Lui quasi ottanta. Lo incontravo qualche volta scendendo di corsa per le scale dal mio appartamento al quinto piano. Abitava sotto di noi e, salendo a piedi con la borsa della spesa, aveva sempre il fiatone perciò rispondeva al mio saluto solo muovendo lentamente la mano libera.
Fra noi un’amicizia era inevitabile ma, all’inizio, fu vera guerra.
Io andavo matto per la canzone Rock around the clock di Bill Haley, per Only you dei Platters, per Diana di Paul Anka, lui ascoltava tutto il giorno musica classica.
Mia madre mi urlava dietro ogni volta che mettevo sul giradischi i 45 giri al massimo volume, ma io non le davo retta. Un giorno, però, dal pavimento della mia camera sentii sette o otto colpi sordi in rapidissima successione e una voce chiara, anche se lontana, che gridava:
«Basta!»
Proprio in quel momento mamma stava passando per la stanza.
Seguì un ordine:
«Vai dal signor Quilici a scusarti! Fila!»
Scesi al quarto piano e suonai il campanello.
Mi aprì la porta un uomo molto anziano dal viso chiaramente alterato.
«E tu chi sei?» chiese.
«Il bambino del piano di sopra…»
«E allora?»
«Sono venuto a scusarmi per il rumore…»
Non mi fece finire la frase.
«Bravo, hai detto giusto! La tua non è musica, è solo rumore! Va bene, accetto le tue scuse.»
Mentre l’uomo stava richiudendo la porta, sentii un canto acuto, quasi arrogante. Possedevo una coppia di canarini, che adoravo, perciò nei ripetuti e forti ciuinc, uit e ciuit, che provenivano dall’interno dell’appartamento, riconobbi il cinguettio di un volatile.
«Anche lei ha degli uccellini?» chiesi.
«Non uccellini, ma un fringuello maschio…» rispose piccato.
«Posso vederlo?»
La mia domanda lo prese in contropiede. Non sapendo se farmi entrare in casa oppure no, rimase per un attimo indeciso. Poi con la mano spalancò la porta.

Il suo appartamento era tagliato in modo del tutto diverso dal mio. Il lungo corridoio che disimpegnava razionalmente le stanze aveva una parete attrezzata a libreria. Buttando un occhio sugli scaffali, notai che i libri erano disposti in ordine di altezza decrescente da sinistra verso destra. La cucina dava l’idea di un luogo pochissimo vissuto. Non c’era un oggetto fuori di posto, nemmeno una tazzina sporca di caffè sul lavello. Magro e spilungone com’era, forse non faceva nemmeno colazione.
Arrivati nello studio, davanti a me si presentò tutto un altro mondo.
Una stanza così quante volte me l’ero sognata!
Regnava dattorno un magnifico disordine: sulla scrivania, mescolati a spartiti musicali, c’erano pile di dischi a 33 giri e sul pavimento il grammofono, retto da quattro gambe affusolate, stava ancora suonando a bassissimo volume un brano di musica sinfonica. Appesi alla parete più grande c’erano due custodie di violino e due quadri, dipinti a olio, ottime copie (così disse lui) dei famosi quadri di Manet: il Pifferaio e il Guitarrero. Nella parete più piccola, un’altra libreria stracolma di spartiti disposti alla rinfusa che, a tener conto del numero di quelli sparsi per terra, era di sicuro usata quotidianamente.
A fianco della finestra, protetto da una tenda che un tempo doveva essere stata bianca, c’era un’alta piantana con tre ganci a uncino. Su quello più alto stava appesa una gabbia metallica a forma di castello.
Dentro un fantastico uccellino dai mille colori.
Il fringuello saltabeccava incessantemente da un trespolo all’altro, sbatacchiando rumorosamente le sue alucce scure. Il piumaggio del petto tendeva al ruggine, la schiena era verde muschio. Aveva la testa color carta da zucchero, la fronte nera. Anche le ali erano nere a striature giallo–verdognole e portava una macchia bianca all’altezza della spalla. Il ventre era castano chiaro quasi biancastro e il becco tendeva al viola.
Un’esplosione di colori se paragonata al semplice, unico, anche se vivissimo, giallo dei miei canarini. Quello che però mi colpì fu la varietà di suoni che uscivano dalla gola del minuscolo volatile.
Lo feci notare al padrone di casa. Questi, invece di rispondermi, estrasse dalla biblioteca un testo di ornitologia, cercò la pagina giusta e lesse:

“Il suono più strano che emette il fringuello è il francesco mio. Si chiama in questo modo perché il volatile nella parte terminale del canto emette un verso molto simile all’invocazione – francesco mio – , e via in similitudine per gli altri canti.
Con un po’ di pratica è relativamente facile riconoscere altri suoi versi.
Quelli migliori sono:
a)    il passerino, alla fine di ogni canto emette un verso simile a quello del passero.
b)    il doppietto, emette un canto completo e, un secondo dopo, lo ripete eguale.
c)    il buicio, a ogni striscia di canto ultimata allega un verso simile a “buicio”.
d)    il cin, inizia e termina il canto con “cin – cin”.

«Ma lei riesce a distinguerli tutti questi suoni?» domandai incuriosito.
«Ho studiato e suonato il violino e ho l’orecchio abituato a cogliere le varie sfumature dei suoni. Ovviamente il fringuello non li emette tutti di seguito ma, a seconda dell’estro del momento, canta in un modo piuttosto che in un altro.»
«Lei veramente riesce a sentirlo quando pronuncia francesco mio
L’uomo sorrise alla mia domanda:
«Quello è il verso che fa soltanto a me e solo quando gli do del cibo che lo soddisfa!»
«Lei mi sta prendendo in giro…» protestai.
«Caro bambino, – fece lui – se continui ad ascoltare i tuoi urlatori, non puoi pretendere di cogliere sfumature così sottili.»
«E dai! – pensai dentro di me – Quest’uomo insiste a burlarsi di me!»
Poi, come proseguendo un suo ragionamento, tornò a prendere un altro libro sullo scaffale e quando ebbe trovato quello che cercava, disse:
«Il canto del fringuello non lo apprezziamo soltanto noi musicisti, ma anche i poeti. Tu conosci Giovanni Pascoli, vero?»
Non aspettò nemmeno la mia risposta e continuò:
«Pascoli ha scritto una splendida poesia sul fringuello. Il titolo è Il fringuello cieco e, per non annoiarti, te ne leggo solo poche righe. Attese un attimo, poi, con voce ispirata e ben impostata, recitò:

“Finch…  finché nel cielo volai,
finch…  finch’ebbi il nido sul moro;
c’era un lume, lassù, in ma’ mai,
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo…“

«La senti la musica che viene fuori da questi versi?» domandò poi.
«Sì, sì!» dissi, mentendo alla grande. Se qualcosa avevo provato, era solo un po’ di vergogna per la mia assoluta incapacità di apprezzare le poesie. A scuola ce ne facevano studiare tantissime a memoria e da ciò proveniva la mia idiosincrasia per quel strano modo di esprimere concetti e pensieri.
«I professori di lettere – continuò, come leggendomi nel pensiero – sbagliano a costringervi a studiare a memoria le poesie! Farebbero meglio a insegnarvi a leggerle ad alta voce, con la corretta dizione! In questo modo, forse, apprezzereste la musica che c’è in ognuna di loro…»
Interruppe subito il suo ragionamento perché si accorse di avermi messo in grande imbarazzo. Un attimo dopo mi accompagnò alla porta.

Nei mesi seguenti mi sforzai a tenere basso il volume del giradischi e tentai persino di leggere ad alta voce sul mio libro di antologia alcune famose poesie. L’effetto acustico della mia dizione doveva sembrare però alquanto stridulo e angosciante, perché mia madre spesso entrava di corsa in camera credendo che stessi male. Dovetti, a gran fatica, imparare a regolare il tono della voce e ad abbassare ad altezze più umane il braccio sollevato e teso con cui accompagnavo la recita dei versi.
Dopo innumerevoli e penosi tentativi, riuscii finalmente a declamare in modo decente Davanti San Guido di Carducci: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar…” e persino a sentire la musica che c’era in quella poesia.
Avrei voluto correre giù dal professore a fargli sentire i miei progressi, ma qualcosa mi impediva di farlo. Da qualche giorno dal suo appartamento uscivano pochissimi suoni, niente musica classica e neppure il canto del fringuello.
C’era qualcosa che non andava, me lo sentivo sulla pelle.
Vivendo da solo, il signor Quilici era costretto a procurarsi di persona le provviste per la settimana. Lo faceva ogni mercoledì mattina al mercatino rionale. Molte volte, quando il mio turno a scuola cadeva di pomeriggio, andavo con la mamma allo stesso mercato e lo incontravo mentre sceglieva la verdura per sé e per l’uccellino. In queste occasioni riuscivo a scambiare qualche chiacchiera con lui e spesso, quando la nostra spesa era leggera, lo aiutavo a portare su per le scale le sue borse piene. Il suo respiro era così affannoso da farmi temere che un giorno o l’altro non ce l’avrebbe fatta a salire tutti e quattro i piani.
Da un paio di settimane, però, il professore non si era fatto vivo al mercato.
Il secondo mercoledì segnalai a mia madre la sua assenza e lei mi consigliò di andare a suonare al suo appartamento.
Dopo un’attesa infinita, la porta si aprì e vidi davanti a me non l’uomo che conoscevo ma un essere rinsecchito e barcollante. Aveva occhiaie profonde e i capelli erano del tutto fuori posto. Il vestito era spiegazzato e pieno di borse alle ginocchia: chissà da quanti giorni non se lo cambiava!
Invece di salutarmi e invitarmi a entrare, in modo alquanto brusco chiese:
«Cosa vuoi?»
«È un po’ che non la vediamo e la mamma e io eravamo preoccupati…» risposi.
Ci mise un secondo a scoppiare in un pianto senza freni.
«Cosa le è successo?»
«Il mio fringuello ha perso la voce! Non canta più… morirà presto…»
Mi fece entrare in casa e mi condusse nello studio. Le tapparelle erano completamente abbassate, il disordine che mi aveva così affascinato la prima volta, ora aveva preso il sopravvento e rendeva squallida la stanza. Piatti con avanzi di cibo ammuffito avevano invaso la scrivania, normalmente ingombra di mille altre cose. C’erano foglie d’insalata rinsecchita e ossetti di seppia sparsi un po’ dovunque. Un puzzo incredibile rendeva difficoltoso respirare.
«Posso aprire le finestre per cambiare l’aria?» chiesi, cercando di essere il più possibile gentile.
«Fa come vuoi…»
Con voce lugubre, inframmezzata da un pianto lamentoso e da un’espressione di apatia stampata sul viso, mi raccontò che due settimane prima, mentre gli stava dando il solito cibo, il fringuello aveva improvvisamente emesso un verso rauco, straziante e da allora non aveva più cantato. Da quel giorno a malapena accettava un po’ di granaglie.
«Ha chiamato il veterinario?» chiesi.
«Ti pare che un veterinario si muova per uno stupido uccello che non canta più?»
Non sapendo cosa fare per aiutarlo, mi misi allora a raccogliere i piatti sporchi e a rassettare dattorno. Mentre eseguivo quelle semplici operazioni, la mia mente era indaffarata a cercare una soluzione al suo problema. Ben presto però dovetti arrendermi. Quando nello studio una parvenza di ordine fu ristabilito, non potei fare altro che salutarlo lasciandolo solo con il suo sconforto.

Avevo da poco iniziato il primo anno al liceo scientifico Righi che era, a detta di tutti, il migliore della città. Fra i cinque o sei professori che ci seguivano, ero convinto che avrei trovato chi sarebbe stato in grado di darmi una mano a risolvere il problema del signor Quilici. Raccontai la storia del fringuello, diventato improvvisamente muto, al mio professore di scienze, ma l’unica cosa che riuscii a ottenere fu un sorriso di compatimento:
«Ragazzo mio, con tutti i grandi problemi che ci sono al mondo, il tuo mi sembra davvero poco importante!»
Ottenni la stessa indifferenza dal professore di italiano e da quello di matematica.
Stavo ormai per perdere ogni speranza, quando, una mattina, l’insegnante d’inglese prese a parlare di un libro che aveva appena finito di leggere e il cui titolo era:

Siamo tutti nati poliglotti di Alfred A. Tomatis

Spiegò che, avendo da poco iniziato a studiare una lingua straniera, qualcuno di noi avrebbe fatto parecchia fatica a impararla. Nel parlarla, alcuni si sarebbero trovati a disagio, come quando si indossano vestiti più larghi o più stretti di un’altra persona.

A detta di Tomatis “queste sensazioni non sono cose immaginarie: un corpo che parla una lingua risuona in maniera diversa dal corpo che ne parla un’altra, e se un corpo parla una lingua con la quale non entra in risonanza, per quanto la si studi, non la si padroneggerà mai”.

Nel libro citato – aggiunse il professore – era indicata una strada per rendere possibile un effettivo multilinguismo dei cittadini d’Europa, una strada fondata tutta sull’ascolto.

Alfred Tomatis fu immerso fin dall’infanzia in un variegato mondo sonoro: i nonni erano italiani e parlavano nizzardo, un dialetto ricco di influenze dal piemontese, il padre, cantante lirico, era un famoso basso all’Opera di Parigi. Queste esperienze, unite alla vocazione per la medicina, lo portarono ad approfondire i rapporti tra l’orecchio, la voce, e la salute degli esseri umani. Sarebbe stato perciò riduttivo definire Tomatis un otorinolaringoiatra, piuttosto lo si sarebbe potuto chiamare un professore dell’orecchio”.

A questo punto la mia attenzione era diventata vivissima: forse Tomatis avrebbe risolto il problema che mi assillava.
Cominciai a prendere degli appunti, scrivendo con estrema cura tutto quanto l’insegnante stava spiegando e, tornando a casa in tram, li rilessi più e più volte.

“Nelle prime pagine del suo libro l’autore racconta che a dare inizio alla sua ricerca fu l’osservazione delle sordità professionali degli operai che lavoravano negli arsenali dell’aeronautica negli anni ‘50. Da essa trasse le cosiddette tre leggi del metodo Tomatis:

1)    La voce esprime solo ciò che l’orecchio può sentire.
2)    Se l’ascolto si modifica, immediatamente e inconsciamente si modifica anche la voce.
3)    È possibile trasformare durevolmente la fonazione se la stimolazione acustica viene mantenuta per un certo tempo (legge della rimanenza).

Ma ciò che mi colpì di più fu la seguente riflessione sugli effetti terapeutici della musica classica:

Le opere di Vivaldi, insieme a quelle di Mozart, Tchaikovsky e Corelli, sono state incluse nelle teorie di Alfred Tomatis per dimostrare i benefici della musica sul comportamento umano e vengono utilizzate nella terapia musicale”.

Ecco la soluzione che cercavo! Sostituendo in quella frase l’aggettivo umano con animale, risultava che la musica avrebbe potuto curare anche il fringuello.

Corsi a casa e feci le scale a tre per tre. Arrivato al quarto piano suonai alla porta dell’appartamento del professor Quilici, senza chiedere permesso entrai in casa e gli raccontai quanto avevo appreso a scuola.
L’uomo mi ascoltò prima con grande scetticismo, poi, man mano che gli spiegavo come avremmo dovuto procedere, fu preso anche lui dall’entusiasmo.
«Ecco perché non canta più! – disse – Da due settimane il mio fonografo si è guastato e da allora il fringuello sta facendo lo sciopero della voce!»
«E se le prestassi il mio e gli facessimo sentire dei pezzi delle mie band?»
Un’occhiataccia mi fece capire che non era il momento di scherzare.
Salii nel mio appartamento, presi il giradischi e lo sistemai nello studio del professore.
Mettemmo poi la gabbia su una sedia molto vicina agli altoparlanti e il signor Quilici, nella sua vasta discoteca, scelse un pezzo di Mozart. Nel locale, per tanti giorni silenzioso, le note melanconiche e gioiose di Così fan tutte si sparsero per l’aria e attraversarono anche la gabbietta.
Tutti e due ci aspettavamo qualcosa.
Ma non accadde nulla.
La bestiola apatica era e tale rimase per tutto il tempo in cui la musica aveva ripreso possesso della stanza.
Me ne tornai a casa deluso ma non completamente vinto.
«Può tenere il giradischi per tutto il tempo necessario. – dissi – Cambi musica, può darsi che Mozart non gli piaccia!»
Per più di una settimana il professore passò le giornate a cercare fra i suoi dischi il brano sinfonico che poteva compiere il miracolo. Fu tutto inutile, il fringuello non dava segni di ripresa, anzi, a volte, rifiutava persino il suo cibo preferito. Forse la terapia musicale era efficace sugli umani, di certo si stava rivelando un fiasco con gli animali. L’uccelletto era ormai ridotto a pelle e ossa, mancava davvero poco alla sua fine.

Si trattava solo di attendere.

In un pomeriggio noioso come tanti altri, stavo studiando di malavoglia geografia, quando, tra uno sbadiglio e l’altro, sotto i miei piedi sentii sette o otto colpi sordi. Quei colpi che provenivano dallo studio del professore, erano il nostro mezzo di comunicare: tre volevano dire vieni giù, di più significavano emergenza.
«Oddio! il fringuello è morto!» pensai.
Col cuore in gola scesi al quarto piano.
Quando il signor Quilici aprì la porta, una musica molto triste e una voce che mi fu difficile stabilire se di uomo o di donna, arrivò alle mie orecchie.
«Ha cantato di nuovo… con un pezzo di Vivaldi!” disse il professore.
Corsi nello studio. La musica era a un livello molto alto e quasi copriva i versi dell’uccellino. Abbassai leggermente il volume del giradischi in modo da riuscire a sentire la voce del fringuello. Il suo canto era bellissimo e melodioso come mesi prima. Mi sedetti su una poltrona e chiusi gli occhi per assaporare meglio l’atmosfera che si era creata nella stanza.
Non posso dire con assoluta sicurezza se ero sveglio o se sognavo, ricordo solo che, a un certo punto, udii con estrema chiarezza due suoni che non avevo mai uditi prima:

francesco mio!
cin cin!

Giuro di averli sentiti.

Due settimane dopo quello straordinario evento, i pompieri furono costretti ad abbattere la porta dell’appartamento del professore.

Fine

Crediti: la strip del Signor Giacomo mi appartiene. L’immagine che accompagna il racconto Francesco mio è una mia rielaborazione di una scultura di Alberto Giacometti, il famoso scultore e pittore svizzero.

Shine on Award credo sia una specie di catena di S. Antonio pensata per gli utenti di WordPress e di altre piattaforme social in Rete. Una catena non malefica che ha come scopo quello di sollecitare un contatto più diretto fra i vari blogger che già si conoscono o si conoscono poco. È una nomination (se sbaglio, correggetemi) che non porta a vincite in denaro o alla distribuzione di statuette dorate, ma semplicemente dovrebbe servire ad aumentare di un pochino il numero dei click e delle visualizzazioni di chi è stato nominato.
Ciò detto e, soprattutto perché non amo le competizioni, prometto che quella di oggi sarà la prima e ultima volta che aderisco a una catena: in futuro ringrazierò di cuore chi mi nomina ma non parteciperò alla relativa kermesse. Scrivo su WordPress ormai da tre anni e, prima o poi, una nomination mi doveva capitare. Questa segnalazione penso di averla ottenuta non tanto per la mia bravura (questa è indiscutibile… A bocca aperta ) ma per il semplice calcolo delle probabilità.

Shine ON

 
La nomina allo Shine on Award la devo al blogger:

Incostante Ricerca  .incostantericerca. 

che ringrazio di cuore e, con solerzia, mi accingo a rispettare l’oneroso compito che spetta  a chi intende partecipare a questa gara.

Ecco le 5 regole che si devono seguire:
– Inserire il logo dell’Award sul front del post;
– Riportare il nome del blog che ti ha nominato all’inizio del post;
– Indicare 7 cose su noi stessi;
– Nominare 15 blogger per questo premio e riportare il link del loro blog;
– Notificare a questi blogger la nomination.

7  cose su di me. Per chi non mi conosce confesso alcuni peccati: mi piace leggere, scrivere, bloggare, viaggiare, fare riprese con la videocamera, collezionare fumetti d’autore e andare al cinema.

1. Perché hai iniziato questo blog?
L’ho iniziato perché penso di avere le caratteristiche “giuste” per tenere un blog in rete. Volete sapere quali sono? Presto detto. Avere tanto tempo libero a disposizione, essere cordiale con tutti e, soprattutto, essere un “fancazzista laborioso”. Chi mi conosce sa bene cosa significa quest’ultima caratteristica. Chi, invece, è capitato qui per la prima volta è invitato a sfogliare l’elenco dei miei post per svelare l’arcano.
2. Qual è la cosa più importante nella tua vita?
Ovvio, la famiglia. Perché è lei che mi aiuta a mantenere in buona forma le mie cellule celebrali.
3. Il cibo di cui non puoi fare a meno?
La pasta col sugo, i pasticcini con la panna e la cioccolata di qualunque tipo. Di tutto il resto posso benissimo fare a meno.
4. Il tuo posto del cuore?
Il mio studiolo in città o in campagna con mia moglie in giro nelle altre stanze. È importante che lei sia nelle vicinanze e che brontoli con veemenza perché sto sempre chiuso nello studio.
5. Come ti vedi nei prossimi 10 anni?
Scherziamo?! Sono già impresentabile adesso. Preferirei stendere un velo pietoso su come sarò nei prossimi dieci anni. Comunque mi piacerebbe continuare a passare in allegria il mio tempo libero con amici e famigliari. Questo è il migliore augurio che posso farmi per il futuro.
6. Tre cose senza le quali non esci di casa?
Esco poco e quando esco il più delle volte dimentico le chiavi, il cellulare e dove devo andare. Per non parlare, poi, delle strade da prendere per arrivarci. Eppure abito a Milano da più di quarant’anni…
7. Una citazione che ti caratterizza?
Quando gli amici mi presentano a persone che non conosco dicono sempre che “sono uno scrittore”. Evidentemente più che una citazione è una presa per i fondelli.

Per quanto riguarda le nomination dei blog più meritevoli vorrei precisare che ho “di proposito” evitato di citare quei blogger di WordPress con migliaia di follower e centinaia di migliaia di visualizzazioni: l’ho fatto non perché di rado passano a dare un’occhiata ai miei post, ma perché sono già stati premiati così tante volte che una in meno, a loro, non fa né caldo né freddo. Nomino invece amiche/amici che seguo regolarmente perché ritengo abbiano qualcosa da dire, perché aumentano la mia cultura e perché, spesso, mi fanno sorridere o commuovere con le loro esperienze di vita. Avrei desiderato citare tutti i settanta e passa blogger che contatto con una certa frequenza, ma le regole del gioco impongono di sceglierne solo quindici.

  1. Trame di Pensieri Trame di Pensieri:  .marta riesce a trovare nell’oceano web tante notizie, immagini, testi, musiche, citazioni che io manco me le sogno.
  2. Andrea Magliano Ames’world:  Andrea Magliano mi piace per i suoi variegati interessi e per la cura con cui prepara i suoi post.

  3. Sguardi e Percorsi Sguardi e Percorsi: qui troverete una brava fotografa e una brava scrittrice.

  4. Ombre Flessuose Ombre Flessuose: una poetessa emergente che colpisce al cuore con pochi e azzeccati versi.

  5. Germogliare Germogliare: attrae per la sua vasta cultura generalista.

  6. Rosso di Persia Rosso di Persia: ogni suo post è un bel frammento letterario.

  7. Stravagaria Stravagaria: lettrice accanita e mano favolosa in grado di produrre oggetti speciali.

  8. Harleyquinn86 Harleyquinn86: confessioni anonime di una farfalla impazzita. Un’anima bella mette a nudo se stessa sotto mentite spoglie.

  9. Viola Veloce Viola Veloce: è un’arguta scrittrice self-made che ha parecchio da dire su tanti argomenti attinenti alla scrittura e su come gestire suo figlio.

  10. Francesca Francesca: amante della letteratura e dei suoi addentellati.

  11. José Bernò Josè  Bernò: un occhio attento e curioso del presente trasforma la realtà in post molto gradevoli da leggere.

  12. Mente Minima Mente minima: una blogger dalle idee chiare e spesso spiritose.

  13. Ludmillarte Ludmillante: parla di tutto un po’. Con arte.

  14. Vetro Colato Vetro Colato: una blogger emergente che sta cercando la sua strada con mille pensieri per la testa.

  15. Tilla Durieux Tilla Durieux: mi piace il suo umorismo e il suo parlare fuori di metafora. 

Prima di terminare vorrei farvi notare che le mie nomination, a parte l’amico Andrea, sono tutte al femminile. Ci sono diverse ragioni in questa scelta. Primo, è il mio (spero gradito) omaggio all’altra parte del cielo che ha ottime carte da giocare per non farsi sottomettere da noi maschietti. Secondo, sono più fedeli degli uomini a seguire le mie avventure in Rete: una fedeltà che contraccambio con piacere. Terzo, pur avendo tutte una grinta invidiabile sono meno inclini degli uomini a creare polemiche. Fino a prova contraria… A bocca aperta
Per controbilanciare il mio eccessivo amore per le donne in generale, cedo volentieri la parola a Dilbert e al Signor Giacomo che, come molti sanno, non hanno lo stesso mio cuore tenero per l’universo femminino:
 
Chiedere la luna
 
 
striscia59a
 
Adesso avviserò i quindici blogger che ho nominato.
Alla prossima settimana!
Nicola
 
Crediti: le immagini dei blogger nominati le ho ricavate dai relativi Gravatar, la striscia di Dilbert di Scott Adams l’ho estratta da Linus di gennaio 2014, la striscia del Signor Giacomo è mia.

Della serie: gli scrittori di oggi supereranno i grandi del passato? – 3

Stroncatura

(Autore ignoto)

“No, Nicola!  Il tuo post di lunedì scorso era superbo fino al penultimo capoverso (credo) quando con due paroline riferite a te e alla tua gloria hai, secondo me, buttato tutto nel pattume (perdona, è una metafora troppo forte: diciamo che hai ammaccato il parafango dell’automobile con la quale porti a spasso i tuoi lettori). Se non avessi messo quelle due parole di specificazione (che potevano essere eliminate senza danno al testo e al senso generale) avresti raggiunto il top ma, sempre a mio scemo parere, sei un po’ precipitato: di fatto non è del tutto assurdo perché sei un essere umano, come me. Ma sinceramente ne sono rimasto turbato. E se ti dico queste cose è solo perché tu, se lo desideri, possa riflettere su una mia sensazione (che è mia e non di tutti).”

Riporto testualmente parte di una mail di un caro amico che – viva la sincerità – ha voluto dire in privato la sua sul mio ultimo post, quello in cui mi vantavo di una piccola (piccolissima) gratificazione che avevo ricevuto qualche settimana fa  da parte di un sito web letterario emergente. Di primo acchito quel suo giudizio tranciante mi aveva ferito profondamente ed ero stato sul punto di rispondergli per le rime, rischiando così di rompere un’amicizia che ci lega da anni.

Cazzarola, avevo pensato, quasi tutti i miei post sono all’insegna di una garbata (e spero spiritosa) presa in giro di me stesso e della mia attività di scrittore da quattro soldi e l’unica volta – sottolineo unica volta – che scrivo una frasetta in cui mostro la mia gioia per un modesto riconoscimento ottenuto da un mio racconto – ecco che vengo tacciato di sciocca vanagloria proprio da una persona che mi conosce bene e che sa che ormai da tempo ho abbandonato ogni velleità di gridare al mondo il valore letterario dei miei scritti.

Per fortuna ho contato fino a dieci, anzi fino a mille, e ho evitato di rispondergli con pari aggressività, rivendicando il mio passato e il mio presente per ricordagli che la mia serenità attuale nasce proprio dalla consapevolezza che avere successo oggi scrivendo dei libri è come vincere al superenalotto, cioè è praticamente impossibile. Questo, lui e io, ce lo siamo detto e scritto più volte: perciò il fatto che la settimana scorsa io abbia voluto condividere con chi segue il mio blog un raccontino di cui vado abbastanza fiero, era e voleva essere un peccatuccio veniale e non una manifestazione imperdonabile di vanità.

Ripensando a quanto è successo durante la settimana che si è appena conclusa, devo ammettere che aveva ragione il mio amico a dire che non dovevo lodarmi e che avrei fatto meglio a ricordare il famoso proverbio che afferma “chi si loda s’imbroda”… Anzi, visto che sono in vena di citazioni, avrei dovuto rammentare la famosa poesia “Il cinque maggio”  in cui l’esimio Manzoni si chiedeva, pensando alla morte del grande Napoleone, “Fu vera la gloria la sua?” e rimandare il giudizio ai posteri.

Nel mio caso specifico non c’è bisogno di scomodare nessun critico di oggi o di domani per sapere se avrò successo in futuro:  basta guardare le statistiche settimanali del mio blog per capire che aveva ragione il mio asprigno censore a dire che avrei fatto meglio a non sbrodolarmi addosso. I freddi numeri, infatti, raccontano verità incontrovertibili:

Numero di click (letture) ricevuti dal mio post di lunedì scorso = 200  Sorriso

Numero degli ascolti del brano sonoro Bisce d’acqua da me consigliato = 10 In lacrime

Volendo fare un parallelo fra i risultati del mio ultimo post e l’attuale situazione politica italiana, con un pizzico di amarezza mi accorgo che 8 milioni e mezzo di persone sono stati incollati davanti alla TV tre ore e passa per assistere ai battibecchi fra Santoro, Travaglio e Berlusconi, mentre solo 10 volenterosi lettori, nel giro di una settimana, hanno trovato otto minuti e mezzo per ascoltare un brano letterario di mia produzione.

Questo, dunque, è il mio attuale appeal di scrittore… cioè sono anni luce lontano dal superare i grandi autori del passato.

Comunque non demordo, continuo serenamente a scribacchiare e non mi piango addosso davanti a critiche a volte feroci, anzi trovo che le statistiche del mio blog possano fornire lo spunto per farsi una bella risata con un’adeguata freddura tratta dalla Settimana Enigmistica:

Cave Canem

Alla prossima settimana!

Nicola