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Bukowski-by-origa

    L’autore dell’immagine è Graziano Origa, Origafoundation – Opera propria, CC BY-SA 3.0

Care amiche e amici,
confesso che da tempo immemorabile avevo deciso di ignorare del tutto i libri di Charles Bukowski, uno scrittore famoso per l’eloquio sboccato e per gli argomenti quasi sempre sopra le righe con cui amava scandalizzare il mondo letterario a lui contemporaneo.

Su Wikipedia, infatti, si legge: "Henry Charles "Hank" Bukowski Jr. (Andernach, 16 agosto 1920 – San Pedro, 9 marzo 1994), nato Heinrich Karl Bukowski (noto anche con lo pseudonimo Henry Chinaski, suo alter ego letterario) è stato un poeta e scrittore statunitense di origine tedesca che ha scritto sei romanzi, centinaia di racconti e migliaia di poesie, per un totale di oltre sessanta libri. In questi tratta della sua vita, caratterizzata da un rapporto morboso con l’alcol, da frequenti esperienze sessuali (descritte in maniera realistica e senza troppi eufemismi) e da rapporti tempestosi con le persone. La corrente letteraria a cui spesso viene associato è quella del realismo sporco."

Qualche mese fa un amico mi ha regalato diversi libri di Bukowsi in formato ebook e, così, mi sono deciso finalmente ad affrontare quest’ostico scrittore tanto disprezzato da molti quanto amato da molti altri.
Il primo libro che ho scelto di affrontare è stato "Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze", colpito dal titolo davvero originale e, al contempo, parecchio auto-ironico.

Si tratta di una raccolta di racconti quasi tutti autobiografici in cui Bukoswki non smentisce la sua volontà di essere il più possibile sgradevole per il comune lettore, rivelando una sincerità al limite del masochismo (cioè consapevole di essere uno sporcaccione per nulla pentito) e riuscendo, in questo modo, ad accaparrare la simpatia di tutti coloro che riescono a digerire il turpiloquio altrui pur non professandolo mai personalmente. Tra i tanti racconti di questo libro ce ne sono alcuni godibilissimi, diversi troppo realistici sull’argomento sesso, altri molto profondi sulla scrittura e sugli scrittori di prosa e di poesia e sul rapporto conflittuale tra autori ed editori, questi ultimi, quasi sempre, incapaci di riconoscere il vero talento ma attenti unicamente al guadagno che uno scrittore di successo può procurare. Tra i brani che mi sono piaciuti ne ho scelto uno da proporvi perché esprime concetti condivisibili da chi, come il sottoscritto, non molti anni fa, si è calato (scioccamente) anima e corpo nel difficile mondo degli scrittori che sperano di raggiungere la fama con le loro opere letterarie, uscendone – per fortuna – senza essersi fatto troppo male. La casa degli orrori, per inciso, è l’ambiente dove uno scrittore vive e dove esercita la sua passione.

A presto.

Nicola

La casa degli orrori di Charles Bukowski

     Parlare di scrittura è come parlare d’amore o di fare l’amore o di vivere d’amore: se ne parli troppo puoi farlo svanire. Senza cercarli, ho, per mia disgrazia, incontrato molti scrittori, sia di successo che d’insuccesso – mi riferisco alla loro arte. Come esseri umani sono un branco di cattivi, un branco da disprezzare, lamentosi, egocentrici, perfidi. Una cosa che hanno quasi tutti in comune: ognuno di loro pensa che la sua opera sia grandiosa, forse la migliore. Se hanno successo prendono la cosa come scontata e dovuta. Se falliscono sentono che gli editori, le case editrici e gli dei sono contro di loro. Ed è vero che molti pessimi scrittori sono spinti e manipolati finché non raggiungono la cima, qualunque sia il motivo. È anche vero che molti bravi scrittori sono morti di fame, o sono quasi morti, o si sono suicidati, o sono impazziti, e così via, per essere riscoperti in seguito come talenti eccelsi (seppur morti). Questo dato storico infonde coraggio allo scrittore scadente. Gli piace immaginare che il suo (di lei o di lui) fallimento sia dovuto a una moltitudine di cose che esulano dal semplice fatto di avere scarso talento. Be’, ce ne sono tanti così.

     In più, quando penso agli scrittori che conosco, per lo più poeti, noto che sono sostenuti da altri – mogli, quasi sempre madri che si fanno carico del sostentamento economico di quelli che conosco. E vivono anche abbastanza agiatamente con televisori, frigoriferi pieni e appartamenti o case in riva al mare – quasi tutti a Venice o a Santa Monica, e prendono il sole di giorno, sentendosi sull’orlo della tragedia, questi miei amici (?) e poi di sera, magari una bottiglia di vino e un panino al crescione, seguito da una lettera piagnucolosa sulla loro indigenza, la loro grandezza indirizzata a qualcuno da qualche parte. Qualsiasi cosa pur di scrivere, lavorare, creare, buttare giù parole. Be’, credo che sia sempre meglio che lavorare a una punzonatrice. Le mogli e le madri lavoreranno alla punzonatrice, non preoccupatevi di quello. E i poeti, non avendo vissuto nel mondo là fuori, nel mondo reale, non avranno nulla su cui scrivere, ma scriveranno comunque con un ego grande così e tantissima noia.

     È praticamente impossibile scrivere sulla scrittura. Mi ricordo che una volta dopo avere tenuto un reading di poesia ho chiesto agli studenti: “Ci sono domande?”. Uno di loro mi ha chiesto: “Perché scrive?”. E io gli ho risposto: “Perché lei porta quella maglietta rossa?”.
     Essere scrittore danna l’anima ed è difficile. Se hai talento può lasciarti per sempre in una notte di sonno. Ciò che ti fa andare avanti nel gioco non è facile a dirsi. Troppo successo è distruttivo; la mancanza di successo è distruttiva. Un piccolo rifiuto può fare bene all’anima, ma il rifiuto totale crea bisbetici e pazzi, stupratori, sadici, ubriaconi e poeti mancati che picchiano le mogli. Tanto quanto fa il troppo successo.

     Anch’io sono stato fuorviato dal concetto romantico della scrittura. Da giovane ho visto troppi film sul grande Artista, e lo scrittore era sempre un tizio tragico e dannatamente interessante con un bel pizzetto, occhi lucenti e verità profonde che gli scaturivano continuamente dalla bocca. Che bello sarebbe essere così, pensavo, ah. Ma non è così. Gli scrittori più bravi che conosco parlano pochissimo, voglio dire, quelli che scrivono bene. Infatti, non c’è niente di più noioso di un bravo scrittore. Tra la gente o anche con solo una persona, è sempre occupato (nel subconscio) a registrare qualsiasi dannata cosa. Non gli interessa fare discorsi o essere l’Essenza della Festa. È avido, risparmia benzina per la macchina da scrivere. Parlando puoi allontanare l’ispirazione, con la bocca puoi distruggere il genio donatoti da Dio. L’energia arriverà fino a un certo punto. Anch’io sono avido. Bisogna esserlo. Le uniche energie a cui si può rinunciare, l’unico tempo che si può donare è il tempo per l’Amore. L’amore dà forza; distrugge odi innati e pregiudizi. Rende la scrittura più completa. Ma tutte le altre cose devono essere risparmiate per il lavoro. Uno scrittore dovrebbe effettuare quasi tutte le sue letture da giovane; mentre comincia a formarsi, la lettura diventa distruttiva – toglie la puntina dal disco.

     Uno scrittore deve continuare a scrivere, a colpire nel segno, o si ritroverà nei bassifondi. E non c’è modo di risalire. Perché dopo qualche anno dedicato alla scrittura, l’anima, la persona, la creatura non riesce più a operare in nessun altro campo. È inutilizzabile. È uccello in una terra di gatti. Non consiglio mai a nessuno di diventare scrittore, a meno che lo scrivere sia l’unica cosa che gli impedisca di impazzire. A quel punto, forse, ne vale la pena.

Fine

Contributi: Il racconto di Charles Bukowski è stato estratto dal libro Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze edito da Feltrinelli nella collana Universale Economica e a cui vanno le mie più sentite scuse per il furto perpetrato al solo scopo di informare i miei amici lettori. Un ringraziamento va anche a Wikipedia da cui ho estratto informazioni su Bukowski.

Questa settimana vi risparmio i miei pensieri e le mie divagazioni per parlarvi brevissimamente di un evento musicale a cui ho assistito quest’estate.

Rapallo fine agosto 2016

Capita raramente di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, vero? Bene, a me è capitato quest’estate proprio quando ascoltavo i fratelli Menin esibirsi in un repertorio di canzoni vintage ancora in grado di fare accapponare la pelle per i tanti ricordi gradevoli che esse riescono a evocare a gente della mia età.

 
f-lii-menin-in-concerto

Senza l’ausilio di microfoni e accompagnandosi solo con la chitarra (Guido) e con il Cajòn (Giulio), i due fratelli Menin hanno cantato superbamente per un’ora e mezza, divertendosi e divertendo noi spettatori, il tutto – ça va sans dire – gratuitamente.
Il repertorio? Ci trovavamo a Rapallo, cioè in Liguria, quindi non potevano mancare testi di De Andrè (Creuza de ma), di Paolo Conte (Genova per noi), del pezzo storico ligure Quartu au ma. Canzoni da cabaret come E la vita, la vita l’è bela, Ho visto un re, Ma mamma Maria,  Azz!  Quattro bellissime canzoni dei New Trolls: Miniera, Aldebaran, Quella carezza della sera, Let it be me. E, giusto per accontentare il palato di qualche spettatore meridionale, Tammurriata nera e Però quando te dico vattenne, tu te n’a ii.
Ovviamente l’elenco non è completo, visto che il concerto è terminato alle 23 e, come era prevedibile, l’ultimo pezzo è stato Il materasso, per dire a noi spettatori di una certa età che era ora di andare a dormire… Applausi a non finire per i due magnifici interpreti non sono certo mancati.
Se vi va di ascoltare la loro interpretazione di questo successo di Arbore, potete cliccare sulla foto dei due fratelli oppure su questo link: Il materasso, cover dei F.lli Menin.
Di quella simpaticissima serata fra amici ho registrato tutte le canzoni e mi sarebbe piaciuto postarne il video completo su YouTube, ma è risultato troppo pesante da trasferire con una connessione lenta, perciò dovrete fidarvi della mia parola. I due arzilli giovanotti sono decisamente in gamba!
Alla prossima!
Nicola

Felicità - Lennon

Prendo spunto dal bel pensiero di John Lennon nell’immagine di apertura del post e dal titolo di un noto film spagnolo dell’anno scorso (Stella) per fare qualche breve divagazione sulla vita e per chiedermi e chiedervi:

“E’ possibile oggi vivere facile?”

Rispondo prima io, perché, avendo una certa età (sì, lo so che è un eufemismo per non dire che sono vecchio…) questa domanda non mi assilla più come quando ero giovane e pieno di speranze. Allora inseguivo la felicità, pretendevo la facilità dell’agire, e ci rimanevo male quando, il più delle volte, mi scontravo con la dura realtà dell’esistenza. Però, per mia fortuna, qualche volta le cose giravano nel verso giusto e allora, per qualche tempo, ero felice e vivevo facile. E’ successo quando, da bambino, per tre mesi lasciavo la grande città e partivo per le vacanze in Puglia nella casa di campagna dei nonni, dove mi aspettavano i cugini. Ho fatto salti di gioia e tutto scorreva liscio ogni volta che finiva la scuola e tornavo a casa con la promozione in tasca. Ho brindato, colmo di orgoglio e felicità, quando mi sono laureato e quando, dopo pochi mesi, ho trovato un buon lavoro a Milano, quando mi sono sposato, quando sono nati i miei tre figli, quando sono entrato in pensione e ho potuto dedicarmi alle cose che piacevano a me. Eccetera, eccetera.

Tra una felicità, piccola o grande, e una conseguente facilità di vita, però, ho avuto momenti bui, momenti in cui ho temuto che il mondo mi crollasse addosso, momenti in cui la paura di non riuscire a vedere l’alba di un nuovo giorno era così forte da costringermi a far di tutto pur di non darla vinta alla nera signora con la falce che era in attesa dietro la porta di casa…

Penso, comunque, di avere vissuto una vita uguale o simile a quella di milioni di altri esseri umani che hanno calpestato le strade di questo mondo: una vita con alti e bassi quasi tutti nella norma, con qualche picco positivo o negativo, di tanto in tanto. Oggi, che non nutro più grandi aspettative per il futuro, mi limito ad accontentarmi se la mattina riesco a svegliarmi e sono felice se, dopo un breve rodaggio, sono ancora in grado di essere autosufficiente e posso dedicarmi, grazie anche alla pazienza di mia moglie, alle attività che mi danno un minimo di soddisfazione. In altre parole, per quanto riguarda il mio microcosmo, posso dire di stare vivendo una vita abbastanza facile.

Guardandomi in giro, però, ho come la sensazione di sbagliare. Con il mio pensare soltanto a me stesso, disinteressandomi (o interessandomi poco) di ciò che avviene fuori casa, è come se vivessi a occhi chiusi l’autunno della mia esistenza. Perché li tengo chiusi? Perché il mondo nel 2016 non mi piace, perché mi schifa la politica politicante di questi anni: il modo odierno di governare la cosa pubblica da parte dei vari partiti (nessuno escluso) mi ha disgustato in un recente passato e mi disgusta ancora di più adesso. Se guardassi davvero intorno a me, dovrei andare sulle barricate per difendere il futuro dei miei figli e dei giovani in generale. Ma sono troppo vecchio e stanco per combattere contro mostri che mi mangerebbero in un sol boccone. Non so se la mia sia indolenza, ignavia o solo convinzione che protestare oggi non porti a nulla: quel che è certo è che, se aprissi davvero gli occhi, ci sarebbe ben poco da ridere.

Questo è quanto. Ora tocca a voi fare le vostre riflessioni.

Nicola

La vita è facile ad occhi chiusi

Stella Il titolo del film spagnolo uscito in Italia nel 2015 è Vivir es facil con los ojos cerrados (Vivere la vita ad occhi chiusi) di David Trueba con Javier Càmara, Natalia Molina e Francesco Colomer. A me il film è piaciuto moltissimo e, se avete occasione, andatelo a vedere, vi divertirete e vi commuoverete. Dal sito MYmovies.it copio la trama e la recensione:

“1966. Antonio insegna inglese in una scuola retta da religiosi. Per favorire l’apprendimento dei suoi giovani studenti (e anche perché è un fan dei Beatles) utilizza le canzoni dei Fab Four per invogliarli a studiare la lingua e a tradurre. Quando viene a sapere che John Lennon si trova in Almeria per girare un film, decide di cercare di incontrarlo perché le sue canzoni che ha ascoltato alla radio e che lui stesso ha provato a tradurre hanno dei versi che gli suscitano delle perplessità. John, di sicuro, sarà in grado di dirgli se ha commesso errori nelle traduzioni. Lungo la strada il professore incontra due giovani autostoppisti. Prima si imbatte in Belen, una ragazza incinta che è scappata dall’istituto in cui era stata rinchiusa e poi in Juanjo, un sedicenne che si è allontanato dall’abitazione in cui vive con i genitori e con cinque fratelli perché non sopporta più la rigidità educativa del padre poliziotto. Sarà insieme a loro che il professor Antonio cercherà di coronare il suo sogno di incontrare John Lennon.

Per questo film che ha collezionato ben 6 Premi Goya (che costituiscono l’equivalente iberico dei David di Donatello), il regista David Trueba, che all’epoca non era ancora nato, si è ispirato alla storia vera del professore di inglese Juan Carrión che incontrò John Lennon sul set del film di Richard Lester Come ho vinto la guerra e al quale chiese chiarimenti sui testi delle canzoni. Dopo quell’incontro (e forse grazie ad esso) gli LP realizzati dai Beatles riportarono sempre i testi delle loro canzoni. Trueba, coadiuvato dalle ottime prestazioni dei suoi interpreti, ricostruisce con grande tenerezza quella situazione, mostrando tre solitudini di età diversa che sono alla ricerca non solo di John Lennon ma anche (e soprattutto) del senso della loro esistenza. Un’esistenza che è costretta a tentare di tracciare nuove strade sotto la cappa soffocante del franchismo.

La strofa, inclusa nella canzone dei Beatles "Strawberry Fields Forever" (Life is easy with eyes closed), rappresenta perfettamente la condizione esistenziale in cui la dittatura aveva costretto gli spagnoli. Era molto meglio non vedere (o, peggio ancora, fingere di non vedere) gli schiaffi dati agli allievi a scuola o le cariche della polizia al minimo tentativo di manifestazione popolare, fare cioè quello che avevano dovuto fare anche i venerati Beatles quando avevano suonato dinanzi al Caudillo Francisco Franco.

Senza mai perdere il senso della misura, senza mai gridare ma con un solido senso della dignità e con una semplicità che ne connota le azioni, il professor Antonio offre una lezione di civismo e di civiltà ai due ragazzi, non limitandosi però solo a insegnare ma anche offrendogli la sua disponibilità all’ascolto. Rivelandogli solo alla fine il segreto di quale sia il soprannome che i suoi allievi hanno affibbiato a un docente che ha insegnato loro che qualche volta nella vita è necessario chiedere Help!”.

Alla prossima!

Crediti: le due immagini che corredano il post le ho scaricate da Internet, supponendo che siano libere da copyright.

Metafora

Chiariamo subito la faccenda: io non amo le metafore in prosa. Per tante ragioni che provo a elencare:

1- Perché non sono capace di inventarle.

2- Perché rallentano il ritmo della narrazione.

3- Perché chi sa costruirle ne approfitta per seminarle ovunque nei propri libri.

Volete un esempio di scrittrice che le ama spudoratamente? Margaret Mazzantini. Di questa autrice, regista, attrice, ho letto un solo libro ed è stato sufficiente per convincermi a lasciare perdere tutti gli altri che ha scritto in seguito. In Non ti muovere, un romanzo di 295 pagine, lei ha piazzato almeno tre metafore in ogni pagina. Fate voi il conto di quante ne ha costruite. Se le cancelliamo tutte, il numero di pagine del libro si riduce a una interessante quanto breve sceneggiatura di un film di successo, presto dimenticato.

4- Perché spesso e volentieri le metafore sono così strane e complesse che (io) non le capisco. E questo mi irrita grandemente. Siccome mi reputo una persona abbastanza intelligente, (in vita mia ho studiato e letto molto) eppure gran parte delle metafore che incontro nel mondo letterario di oggi non riesco a decodificarle. Bene, siccome non mi piace parlare a vanvera, farò degli esempi tratti da un libro che ho appena finito di leggere e che ha vinto il premio Strega proprio quest’anno. Si tratta del romanzo di Nicola Lagioia, La ferocia:

La ferocia

Primo esempio a pagina 49:

“Gli accenti spostati sui tasti del pianoforte, i cluster e i silenzi improvvisi rimescolavano i concetti di prima e dopo perché il mondo risuonasse un tutt’uno già redento in ogni scheggia.”

Secondo esempio sempre a pagina 49:

“L’dea del sublime (ma come avere la prova che non fossero le farneticazioni di un imbecille?) andava di pari passo con l’ossessione computazionale.”

Terzo esempio a pagina 61:

“Per trovare il tono giusto provò ad attingere dai colleghi delle passate generazioni, quelli che aprivano talmente male le vocali da scuotere l’Unità del paese con lo strumento che avrebbe dovuto stringerle il collare.”

Quarto esempio, sempre a pagina 61:

“In lontananza si levava il mormorio della città poco prima del risveglio, un rumore di automobili senza automobili, la piccola tempesta elettrica dei tanti che, sul punto di riaprire gli occhi, rivivevano in poche frazioni di secondo il film della giornata che stava per iniziare.”

Quinto esempio a pagina 64:

“La voce del monsignore riemerse dal silenzio come si fosse spinta in un crepaccio e ora mostrasse i segni di una profondità che superava l’opinione personale”

Così, per curiosità, qualcuno riesce a immaginarsi com’è nella realtà la voce del monsignore? Sorpresa

Sesto esempio a pagina 67:

“Ogni tanto, tra le rughe che circondavano gli occhi dei presenti, pulsa un fastidio privo di abrasioni.”

Settimo esempio a pagina 68:

“Il corpo di sua figlia irradiava l’inspiegabile verità delle stanze nelle case in cui non abitiamo più da tempo.”

Ottavo esempio a pagina 70:

“Così questa ragazza, pensò spezzando l’ostia sopra la patena, indovinando solo in parte e non immaginando, per la metà su cui sbagliava, a quale distanza fosse dalla verità.”

Nono esempio a pagina 75:

“La notizia aveva iniziato a diffondersi affidata alla sovranità degli algoritmi.”

Decimo esempio a pagina 84:

“Aveva l’aria di uno che fatica a riprendersi da un brutto colpo – la parte materiale un po’ sfocata, lo spirito sbalzato avanti per l’impatto, sembrava prigioniero di un futuro da cui cercava di tornare.”

Infine, a pagina 89, un lungo paragrafo dove lo scrittore parla della campagna:

“Impaurita dalla moto, la lucertola si tuffò nei fili d’erba. Scomparve tra i rami lacerando nella fuga la tela del ragno salticida, il quale, ricomposta l’immagine del rettile attraverso i suoi otto occhi, era riuscito a evitare l’impatto. Il ragno zampettò. Il terreno secco e arido registrò l’informazione sovrapponendola all’alfabeto delle formiche che si incrociavano spezzando e biforcando e poi ricomponendo una linea che non era mai la stessa. La legge a cui obbedivano si modificava in loro confermandosi nella legge di ogni simile, riceveva nuovi impulsi dalle profondità del formicaio, poi da più lontano, dalla tremenda forza che cambia volto alle stagioni. La saliva passò di labbra in labbra e il cuore accelerò nel buio della sala cinematografica. La curvatura dell’addome si tese su se stessa e si spaccò. Sotto la spinta della muta, un’epidermide nuova di zecca venne fuori dalla morta carcassa di colore brunastro. Dopo aver lasciato che la cuticola si indurisse all’aria aperta, la cicala spiccò il suo primo volo. Atterrò su una foglia di rosmarino. Le lamine sotto l’addome cominciarono a vibrare, e un suono secco, simile a uno schiocco di dita, segnalò la sua presenza al mondo.”

A questo punto del libro, Nicola Lagioia deve essersi reso conto che non poteva continuare con questa sfilza di metafore (per me) decisamente difficili da comprendere e cambia registro, abbandona le metafore e si lancia in una ricostruzione dei fatti dove i flash back si alternano al presente in un modo così convulso e repentino che a volte si fa fatica a intuire in che tempo e in che luogo ci troviamo.

Il romanzo, per fortuna, prende quota nelle ultime sezioni in cui è diviso il libro: qui lo scrittore decide che è arrivato il momento di spiegare ai lettori qual è la vicenda e come essa andrà a finire. Ammetto che sono stato varie volte sul punto di abbandonare il romanzo al suo destino, ma, come sempre, sono arrivato in fondo. Concludendo, di sicuro Nicola Lagioia è un bravissimo scrittore che sa il fatto suo, avendo al suo attivo una grande padronanza della lingua italiana. Anche i suoi personaggi e l’ambientazione sono notevoli: pur con tutto ciò, rimane sempre fissa nella mia testa l’idea che questa sua indiscutibile capacità scrittoria sia spesa più a favore dei critici illuminati che lo leggeranno e lo voteranno in un qualche concorso letterario che per accontentare la pancia, il cuore e la comprensione di un semplice lettore qual io mi reputo.

Nicola

P.S. Mi perdonino i poeti che, invece, amano le metafore e, soprattutto, … le capiscono.

Murakami UominiSenzaDonne

Come anticipato in un recente post, eccomi a parlarvi dell’ultima opera del grandissimo scrittore giapponese Murakami Haruki. Confesso che ho acquistato questo libro, subdolamente incellofanato dall’editore Einaudi, a scatola chiusa, cioè senza prima sfogliarlo o leggere la quarta di copertina. Una volta arrivato a casa l’ho aperto e mi sono accorto che non si trattava di un romanzo (genere che preferisco in assoluto) ma di una raccolta di sette lunghi racconti.

Un pochino deluso ho iniziato a leggere di malavoglia il libro: ultimamente, infatti, i racconti mi annoiano anche se io stesso all’inizio della mia breve (seppur onorata) carriera di anziano e artigianale prosatore ne ho scritti diversi e con intima soddisfazione.

Questa sensazione, però, è durata il tempo di leggere due pagine del primo dei racconti: Drive my car. Subito sono stato catturato dall’atmosfera che Murakami in poche righe riesce a creare con la sua prosa tanto essenziale quanto profonda.

Sta di fatto che sono riuscito a chiudere il libro solo dopo averlo – letteralmente – mangiato, masticato e bevuto tutto senza tirare il fiato.  Ogni racconto è diverso dall’altro per quanto riguarda personaggi e ambientazione ma con lo stesso chiaro intento di dimostrare come possono reagire gli uomini senza donne, donne spesso traditrici, ogni volta donatrici di affetto vero e consolatorio con il loro corpo, offerto gratuitamente ma quasi mai in forma duratura.

Ovvio che Murakami parla non in generale ma solo del mondo che conosce, un Giappone moderno dove la tristezza, la solitudine e la tendenza al suicidio sono parte integrante della cultura di una popolazione seriosa, incapace di godere appieno dei piaceri della vita (un lavoro soddisfacente, dell’ottimo cibo, il sesso senza problemi moralistici) e che non sa immagazzinare tutta la positività di un rapporto uomo-donna per affrontare in pace la vecchiaia.

Cosa fanno di bello/brutto gli uomini senza le donne? Come passano le loro giornate? Sono tristi, sono allegri? Insomma è possibile per un uomo impostare la propria vita prescindendo dalle donne? Con questa raccolta di racconti, Murakami cerca di dare una risposta a questi importanti quesiti, ragionando con la sua mentalità di uomo giapponese dei nostri tempi. Ovvio che non vi rivelerò le sue risposte: a voi il piacere o il dispiacere di apprendere, siate voi uomini o donne che leggerete il libro, il comportamento di sette diversi esemplari maschili di fronte a una particolare situazione di disagio.

I titoli dei racconti sono:

  1. Drive my car
  2. Yesterday
  3. Organo indipendente
  4. Sharazad
  5. Kino
  6. Samsa innamorato
  7. Uomini senza donne

Per terminare, vi trascrivo un breve paragrafo tratto dal racconto Organo indipendente:

“C’è una cosa che ricordo bene, riguardo al dottor Tokai. Ora non rammento perché fossimo venuti a parlare di quest’argomento, ma una volta lui mi espose la sua opinione sulle donne in genere.

Era sua convinzione personale che ogni donna nascesse dotata di un organo speciale, un organo per così dire indipendente, che le permetteva di dire bugie. Quali bugie, in quali circostanze e in quale modo, dipendeva da una donna all’altra, con piccole variazioni. Ma tutte a un certo punto mentivano, senza esitazioni. Sia su dettagli di poco conto, sia su cose gravi. In quei momenti la loro espressione, il loro tono di voce, non si alteravano. Perché non erano loro, le donne in questione, ad agire, ma l’organo indipendente. Ragion per cui non succedeva mai che la consapevolezza di mentire turbasse la loro coscienza o impedisse loro di dormire serenamente – a parte alcuni casi eccezionali.”

Care amiche e cari amici, siete d’accordo con l’opinione del dottor Tokai? Sorriso

Arrivederci alla prossima settimana.

Nicola

 

NicPerùR

Puntuale come un orologio svizzero, alla fine di un lungo riposo estivo, eccomi di nuovo qui nel mio amato blog per riprendere, con tutte le amiche e gli amici che mi hanno seguito in passato, il colloquio interrotto alcuni mesi fa. Il terribile caldo che ha imperversato sul nostro paese finalmente è finito e il mio cervello (quei due neuroni che mi sono rimasti) ha ripreso a funzionare quel tanto da permettermi di raccontarvi ciò che ho fatto durante la mia assenza dalla Rete.

Essenzialmente ho cercato di rimettermi in salute ma non sono stato sempre fermo nella mia casa di campagna. Ho fatto una breve puntata in montagna a Pinzolo e un’altrettanta toccata e fuga al mare di Rapallo sempre in compagnia di cari amici: qualche scarpinata su sentieri ombreggiati o tutti al sole, alcuni bagni in acqua salata e un po’ di piscina in campagna, giusto per sopravvivere alla calura di questa torrida estate.

In questi mesi ho letto 3 soli libri: La conquista del Perù di W.H. Prescott, Storia della bambina perduta di Elena Ferrante e Uomini senza donne di Murakami Haruki.

Il primo l’ho affrontato per documentarmi sulla storia degli Inca (scoperti e brutalmente sottomessi dagli spagnoli nella prima metà del quindicesimo secolo) per potere incontrare con un minimo di informazioni in testa i loro attuali e simpaticissimi discendenti  nel mio recentissimo viaggio in Perù. Il libro in questione è una rarità: pubblicato nel 1847 nella New England (Stati Uniti), tradotto in italiano e stampato nel 1959 dalla Editrice Le Maschere, l’ho trovato nella fornitissima biblioteca dei miei defunti suoceri. Oggi quest’impegnativo e interessante tomo, ristampato qualche anno fa da Newton Compton, non è più reperibile nella nostra lingua. Esiste, però, ancora in inglese e si può ordinare su Hoepli.it, la grande libreria on line.

Il secondo l’ho letto per curiosità: il fatto che l’autrice (o l’autore) fosse un nom de plume e, tra l’altro, fosse nella rosa dei probabili vincitori del premio Strega, mi ha spinto ad acquistare l’ultimo volume della quadrilogia. Nel seguito del post ve ne parlerò diffusamente.

Il terzo, essendo io un appassionato cultore di Murakami Haruki, non potevo assolutamente perderlo: leggere quei sei pregnanti racconti mi ha ulteriormente confermato che questo scrittore giapponese è uno dei più grandi autori di questo secolo. Vi consiglio, perciò, di acquistare Uomini senza donne! 

Dunque, quest’estate ho letto poco. In verità, non sono stato il solito fancazzista: gran parte del tempo libero l’ho dedicato all’ideazione e alla preparazione del mio secondo libro a fumetti (il primo, come ben sapete, è quello con protagonista Il Signor Giacomo che ha dato il titolo al presente blog). In questa nuova pubblicazione (ora in vendita su Amazon) racconto graficamente 100 avventure di Betta e del suo papà bellissimo. Coloro che mi seguono con assiduità conoscono già questa terribile/spiritosa ragazzina: infatti le prime 14 strisce sono visibili nei due post pubblicati prima della parentesi estiva. Comunque, la prossima settimana vi racconterò vita morte e miracoli di questo nuovo personaggio.

Adesso, invece, ecco alcune osservazioni sull’ultimo libro di Elena Ferrante:

FerranteStoriaBambinaPerduta

 

Dico subito che ho letto velocemente questo romanzo e mi è persino dispiaciuto che sia terminato lasciando insoluti due misteri. Aggiungo che è scritto benissimo e con un ritmo tale da far perdonare alcune ripetizioni necessarie per chi, come me, non aveva letto le prime tre parti della storia dell’amicizia tra due donne durata, fra liti e riappacificazioni, un’intera vita. I personaggi sono ben delineati e caratterizzati con maestria.

Premesso ciò, a questo punto dovrei esprimere un giudizio positivo sul libro che narra la maturità e la vecchiaia delle due protagoniste: Elena, la scrittrice e Lila, la sua amica geniale. Purtroppo non è così.

Se vado a considerare azioni e pensieri delle due donne e di tutti gli altri personaggi della saga che si svolge in una Napoli degradata e povera dove, per sopravvivere, molti sono costretti a compiere fatti e misfatti di ogni genere, sono costretto a dire che il libro mi ha deluso e amareggiato. Nessuno dei personaggi, comprese le due protagoniste principali, si salva da un giudizio morale estremamente negativo.

Le donne passano con scarso o nullo pentimento da un letto a un altro e lo stesso dicasi degli uomini: essere sposati o meno non fa alcuna differenza. Il sesso in un ambiente di sinistra (estrema, in taluni casi, fortemente critica verso lo stato e le istituzioni) dove interagiscono gli attori della storia è decisamente libero e viene considerato alla stregua di merce di scambio per ottenere vantaggi economici e posizioni privilegiate nella società. Il concetto di famiglia tradizionale, a cui io sono ancora legato, è completamente stravolto: i figli generati in questo bailamme di relazioni più o meno clandestine vengono spesso e volentieri lasciati in mano a nonni, suoceri, ex suoceri, ex mariti, amici che, bontà loro o obtorto collo, se ne prendono cura, salvo poi essere costretti a leggere disquisizioni filosofiche sui migliori metodi per educare la prole. Tutto questo comportamento “libero” è giustificato dal fatto di potersi “realizzare” nelle rispettive professioni. Bell’esempio di società da presentare ai lettori!

Elena e Lila sono due personaggi molto complessi ma decisamente riusciti, ma, a causa della loro scarsa moralità, non sono riuscito ad amarli, pur non essendo io un bacchettone. Nel quartiere degradato di Napoli, sfondo principe del romanzo, si finisce per giustificare tutto e il contrario di tutto, fino a proteggere la fuga e la latitanza di un terrorista rosso pluriomicida, e a guardare quasi con benevolenza la sua fermezza quando, catturato dalle forze dell’ordine, non esprimerà mai una parola di pentimento per tutto ciò che ha compiuto combattendo con le armi lo Stato, mentre la sua compagna di vita (che in prigione collaborerà con la magistratura) verrà considerata una bieca traditrice della causa anarco-marxista professata da entrambi in passato.

Non mi esercito a raccontarvi la trama di questo quarto volume non solo perché i personaggi e gli intrecci famigliari sono un vero zibaldone (all’inizio del quarto volume per fortuna c’è l’elenco delle famiglie, dei mariti, degli amanti, degli ex mariti e di altri personaggi coinvolti nei tre precedenti capitoli della saga, alcuni dei quali già morti, finiscono per essere solo un coro alle avventure/disavventure delle due amiche.

Ciò detto, capisco che parecchi altri lettori, non avendo le mie idiosincrasie politiche-moralistiche, possano amare questa complessa saga e possano considerare Elena Ferrante una grande scrittrice, essendo lei riuscita, con indiscutibile bravura, a creare una trama corposa piena di colpi di scena e mai noiosa.

L’ultima considerazione, tutta personale, che mi sento in dovere di fare è la convinzione che a scrivere questo ponderoso, approfondito affresco della Napoli dal dopoguerra fino ai nostri giorni, non è stata una sola donna ma un gruppo affiatato di scrittori (uomini e donne), nati e vissuti a Napoli, i quali hanno riunito le loro indubbie competenze e conoscenze della città per creare una saga tutta di sinistra e che hanno usato il nom de plume “Elena Ferrante” per raccontarla in italiano a un pubblico in grado di apprezzarla senza condizionamenti di alcun genere.

Sbaglierò, ma io la penso così.

Nicola

ErmellinoCurioso

Ermellino curioso

Innanzi tutto, giungano a chi ha la pazienza di seguire il mio blog (e anche a chi mi segue saltuariamente) i miei più sentiti auguri di un 2015 pieno di successi professionali e di vivere ogni giorno del nuovo anno in buona salute, accompagnato dall’affetto dei propri famigliari e amici.

Dopo la lunga pausa di fine anno, ricominciano i nostri incontri settimanali con un post apparentemente frivolo, ma che potrà piacere (o non piacere) a chi manifesta (o nasconde) delle velleità letterarie. Pongo una semplice domanda a cui mi piacerebbe che qualcuno rispondesse e a cui io stesso non mi sottrarrò.

Cosa desidera maggiormente chi ha pubblicato un libro?

Vi do un aiutino, elencando quattro risposte che tutti gli scrittori hanno in mente ma che si vergognano di esternare al mondo…

La prima è: “Vendere una vagonata di copie del libro e diventare milionario”.

La seconda è: “Scoprire un passaparola virale su Internet che convinca centinaia di milioni di webnauti a comprare una copia del libro. Alzi la mano chi non spera in una botta di culo come quello della scrittrice (si fa per dire…) Erica Leonard (E.L. James) che ha sfornato i tre “capolavori” di 50 sfumature di maialate…

La terza è: “Una presentazione con intervista da Fazio in TV”. Questo showman superpagato, con la sua faccia da falso amicone, per ogni intervista “marchettara” nel suo programma su Rai 3, assicura allo scrittore 300.000 copie vendute, minimo, del libro.

La quarta, forse la più eccitante fra le possibili risposte che si nascondono nell’animo di uno scrittore, è: “Raggiungere la fama in vita”, cioè ricevere il premio Nobel della letteratura e, subito dopo, buttare via carta e penna per godersi la vita sfruttando l’assegno milionario allegato al prestigioso riconoscimento dell’accademia svedese. Naturalmente ciò deve avvenire prima che l’Alzheimer bussi con prepotenza alla porta…

Ce ne sarebbero parecchie altre di risposte che gli scrittori vorrebbero dare, ma che per un certo qual pudore, non osano rivelare in giro. Tutte, più o meno, ribadiscono lo stesso arido concetto: arricchirsi dopo avere pubblicato un libro.

Come risponde, se interrogato, un qualsiasi scrittore per fare una bella figura?

  1. Desideravo mettere sulla carta le mie esperienze personali, unicamente per soddisfare un mio imprescindibile desiderio di approfondimento critico su me stesso, senza pensare che il mio vissuto potesse interessare altri da me.
  2. Ho sempre scritto sin da quando ero bambino e mai avrei pensato che il mio pensiero scritto potesse diventare un libro e mai ho desiderato che il frutto del mio ingegno uscisse dal cassetto della scrivania e fosse subito accettato da un casa editrice importante come la Mondadori (tanto per citarne una a caso…). Ho pubblicato il libro solo dopo pressanti insistenze di parenti, amici… e del mio agente letterario.
  3. Ammetto di essere consapevole delle mie capacità e mi diverto tantissimo a scrivere, ma mai ho sperato di diventare un maître à penser: cioè una importante guida in grado di orientare e influenzare la società con i miei scritti. Insomma lungi da me pensare di surclassare Umberto Eco.
  4. ….

Potete riempire a piacimento, basandovi su vostre esperienze personali i punti 4, 5, 6, eccetera, cioè segnalando altre (false) risposte che potrebbe dare uno scrittore per giustificare il suo successo o per sperare di ottenerlo.

Per quel che mi riguarda, (eh già, perché anch’io mi reputo uno scrittore…) queste sono le mie due semplici risposte alla domanda iniziale:

  • Essere letto da pochi ma genuini lettori. Vendere il libro a vagonate non  è ciò che m’interessa: sto bene di famiglia e godo di una pensione decente, ottenuta lavorando sodo per più di quarant’anni.
  • Essere recensito da chi ha letto il libro fino all’ultima pagina. Non sopporto le critiche di quei redattori che, su quotidiani e riviste, tengono una rubrica periodica sui libri. Costoro (quasi tutti scrittori mancati) odiano i libri e chi li ha scritti. Raramente leggono i libri che recensiscono, di solito sfogliano qualche pagina e scopiazzano la quarta di copertina. La recensione critica, inoltre, deve essere sincera e non una marchetta alla Fazio. Ecco, infatti, come un redattore vede i libri che deve recensire:

Peso sulla testa

…un gran peso sul cranio!

Una recensione critica che mi è molto piaciuta è quella fatta da Stravagaria e che potete leggere cliccando sia sul nome dell’autrice sia su questo link.

Avendo io acquistato 10 copie in cartaceo di “Io e Agata” da regalare a Natale ai parenti più prossimi, alcune settimane fa Amazon mi ha scritto che, se lo desideravo, potevo auto-recensirmi. Di primo acchito pensavo di rifiutare, invece poi ho accettato l’invito. Di seguito potete leggere ciò che ho scritto in Rete sul sito di Amazon Italia:

NuovaCopertinaAgata1

Cara Amazon,
grazie per avermi dato l’opportunità di recensire il mio ultimo libro, ma credimi, è come chiedere a una mamma se il suo bambino è bello o brutto.
Lei risponderà nell’unico modo che ci si aspetta.
Bene, io voglio essere onesto al massimo e dirò solo questo:
Scrivere e revisionare "Io e Agata" ha tenuto impegnata la mia mente per sei lunghi anni, mi ha fatto spesso soffrire e, a volte, sorridere, ma non mi ha mai annoiato. Chiunque lo leggerà, indipendentemente dal giudizio che poi ne darà, di sicuro arriverà fino in fondo al libro per sapere come finisce la vicenda. Io credevo nel personaggio di Agata: l’ho amato dalla prima volta che si è materializzato davanti ai miei occhi.
Agata esiste nella realtà e forse, se un giorno lei stessa leggerà questo libro che le ho dedicato, dopo avermi tirato le orecchie come si fa con i bambini discoli, mi regalerà una schietta risata e mi offrirà un bicchiere di buon vino.
Tutto qui.
Cordiali saluti e ancora grazie.
Nicola Losito

 

Solo gli imbecilli non cambiano mai idea, ha detto un intelligentone di cui non ricordo il nome. E allora anch’io, per non essere considerato tale, cambio un’idea.

Volete sapere quale?

Avevo promesso a me stesso che non avrei più parlato in questo blog dei libri che ho scritto, tanto parlarne o non parlarne, il risultato pratico è sempre lo stesso. Anzi a parlarne, stranamente, la mia ancorché scarsa popolarità tende sempre di più verso il basso…

Cosa mi ha fatto cambiare parere? La colpa (o il merito) è del motto che afferma: “Pubblicità è Progresso”, e io al progresso credo fermamente. Non fate smorfie: questo sentenzioso detto fa ridere pure me, ma uno scrittore sfigato (per carità, non sto parlando di me, ma in generale…) che non riesce a vendere nemmeno una copia dei suoi libri cosa deve fare per non deprimersi o per non considerarsi una pippa?

Spararsi? Darsi all’ippica?

Nessuna di queste drastiche alternative godono del mio favore. Siccome non voglio entrare in paranoia e, soprattutto, non è entusiasmante pensare di essere una pippa, ecco che, per raggiungere un pubblico più vasto dei soliti quattro amici e parenti, ho deciso anch’io di promuovere con la pubblicità le opere del mio (grande) ingegno. Se poi la mia posizione in classifica su Amazon resta ferma alla posizione 101.346, posso tornare a dire peste e corna della pubblicità e non prendermela più con me stesso… A bocca aperta

Bene, fin qui ho scherzato. La ragione vera per cui oggi vi parlo ancora dei miei libri auto-pubblicati è perché, qualche settimana fa ho ricevuto dalla cara amica Stravagaria, raggiungibile qui, la PRIMA recensione riguardante la mia più recente fatica letteraria “Io e Agata”.  Avendola trovata onesta, profonda e per nulla marchettara, mi sono convinto a riproporla nel mio blog, aggiungendo ad essa, come ulteriore mossa strategica, una locandina ispirata all’idea che la Pubblicità è Progresso.

Un grosso bacio, cara Viv: i tuoi complimenti e, soprattutto, le tue critiche, sempre costruttive, mi sono e saranno sempre preziose.

Lancio quindi un appello-preghiera  a tutti gli amici e ai followers del Signor Giacomo: leggete “Io e Agata” e provate a scriverne una recensione, non importa se lunga o corta: quelle (comprese le negative) che riceverò verranno pubblicate – con grande risalto – qui nel mio blog. Perciò, cari amici, datevi da fare!

Naturalmente rimane sempre valida la mia offerta di regalare a chiunque li richieda via mail (n.losito@alice.it) tutti i miei cinque libri in formato elettronico.

Nicola

Volantino Libri NicolaISBN

Recensione di Stravagaria


NuovaCopertinaAgata1 
Trecentoquaranta pagine di romanzo e due racconti in appendice che l’autore, blogger di cui ho già raccontato sulle pagine del mio blog, regala ai lettori che ne facciano richiesta.
Il romanzo alterna le voci narranti di Agata e Fabio attraverso una serie di scritti postumi che quest’ultimo – sposato con l’unica nipote con cui l’eccentrica zia abbia accettato in vita di mantenere un contatto – rielabora in forma di racconto incorporando i ricordi di quarant’anni di scontri e di proficue conversazioni letterarie.
Agata è una donna indipendente, fuori dagli schemi, che non ha mai accettato di legarsi a uomini di cui non fosse profondamente innamorata. Psicologa sui generis negli anni in cui viveva nella capitale lombarda, con l’avanzare degli anni si ritira a vivere in una villetta fatiscente dell’Oltrepò Pavese sorretta da un’ostinazione ai limiti del buon senso.
In costante oscillazione tra lucidità e piccole ossessioni, si abbandona all’acquisto compulsivo, all’accumulo di cianfrusaglie e alla naturale misantropia intellettuale del suo carattere secondo cui tutti gli esseri umani sono, nella migliore delle ipotesi, stupidi quando non addirittura imbecilli tout court, salvo restare vittima dei raggiri di coloro che tentano di approfittarsi del suo scarso acume negli affari.
Una donna brillante e di bell’aspetto che, pur vivendo una vita poco mondana, continua a inseguire la bellezza fino all’ultimo indossando con civetteria tutta femminile parrucche che ne nascondano i capelli diradati e canuti e facendo uso di costosissime creme antirughe che prosciugano le sue esigue finanze.
Un bel personaggio cui fa da contraltare Fabio, professore di lettere, affascinato dalla personalità esplosiva della zia acquisita, più volte indispettito dal suo carattere capriccioso e testardo cui contrappone un affetto sincero sorretto, con un pizzico di venalità, dall’allettante prospettiva di ereditarne la ricchissima biblioteca, per la quale nutre una vera e propria ossessione.
Se Agata è imprevedibile e stravagante, Fabio è un uomo tranquillo, un compagno solido dedicato all’insegnamento e alla famiglia cui sottrae tempo prezioso solo per inseguire il sogno della vita, ovvero di vedere il suo nome nell’Empireo dei grandi scrittori.
La figura di Marta, moglie di Fabio e nipote di Agata, è l’elemento di congiunzione che accompagna con silenziosa discrezione lo svolgersi del racconto. Un personaggio che non ama la ribalta, la cui personalità forte di donna sempre presente dotata di grande generosità e senso pratico si delinea tra le righe.
L’autore prende le distanze da Fabio sostenendo che non si tratti di un personaggio autobiografico ma che vi sia una qualche sovrapposizione, per lo meno quanto alle velleità di scrittore, risulta fuor di dubbio poiché gli attribuisce la paternità del romanzo di memorie giovanili Ossi di Pollo di cui avete già letto un post nel mio blog.
Personalmente – mi perdonerà Nicola Losito – trovo che questa concessione alla vanità letteraria finisca per togliere mordente al personaggio, confondendo inutilmente il lettore.
Il romanzo beneficia di una scrittura curata, di un tono leggero e autoironico e, a fronte di lunghe e faticose operazioni di stesura e di editing, che l’autore racconta con sincerità disarmante in una serie di post dedicati alla genesi e ai contenuti, il prodotto finale è un romanzo più che dignitoso con personaggi dalla personalità ricca e approfondita.
Lo stile di Nicola Losito è piacevole e gli si perdona volentieri un eccesso di manierismo che fa capolino di tanto in tanto con una levigatura eccessiva del linguaggio in cui mi sembra di ravvisare la primigenia riluttanza a separarsi da una frase particolarmente ben riuscita o la tentazione di accompagnare il lettore con spiegazioni eccessivamente dettagliate.
In buona sostanza se lo stile di Fabio porta la firma del Nicola Losito più costruito, passatemi il termine, a sorpresa gli va riconosciuto che le parti più convincenti e spontanee sono proprio quelle in cui si cala nei panni femminili di Agata e lascia a lei l’onere del racconto.
Il romanzo si chiude sulle ultime volontà di Agata, che finalmente ci rivela se Fabio sarà riuscito ad accaparrarsi la famigerata biblioteca e lo fa strappandoci un sorriso.
In appendice seguono due racconti.
“Francesco mio” il primo dei due, come segnalai tempo fa, è disponibile anche sul blog dell’autore. Ho un debole per questo racconto che è un piccolo gioiello di cui non mi stanco di dir bene e di cui continuo a consigliare la lettura.
Viv

 

Grazie

Carissimi amici,

prima di partire per un lunghissimo viaggio in Cina, ho fatto un sondaggio via mail (non tramite telefono, come fanno gli istituti demoscopici) fra tutti i parenti, gli amici e conoscenti vari per sapere quale impatto aveva avuto la notizia che, finalmente, aveva visto la luce il mio ultimo romanzo. La domanda era molto semplice: “Ti interessa leggere gratis Io e Agata, il romanzo della maturità artistica di Nicola Losito?”

Ho lasciato passare una settimana per dare tempo a tutti di riflettere prima di rispondere a un quesito semplice ma molto importante per me e oggi, finalmente, sono in grado di darvi il risultato dell’indagine.

Sinceramente non mi aspettavo tanto interesse.

Su 1500 mail inviate, 1480 hanno risposto sì, 10 hanno dichiarato che, per partito preso, non leggono mai libri di sconosciuti, i restanti 10 hanno esplicitato che amano la lettura ma non sopportano il modo di scrivere di Nicola Losito.

Fregandomene altamente di quei venti incompetenti che mi hanno snobbato e, felice come una pasqua per l’inaspettato risultato, sento il dovere di ringraziare – separatamente – tutti coloro che hanno reso esaltante questa irripetibile occasione della mia vita.

Grazie ai miei 300 followers, grazie ai 200 amici del social network Netlog, grazie ai 150 amici di Neteditor (un sito web di scrittura amatoriale), grazie ai 50 colleghi del Corso di scrittura creativa dell’Università Cattolica di Milano, grazie ai 40 colleghi dei Fiori blu (una brillante scuola di scrittura che frequentai una decina di anni fa), grazie ai 100 amici con cui ho viaggiato in Italia e all’estero, grazie alle 400 persone sconosciute che fanno parte di una mailing list nata spontaneamente leggendo i miei post .

****

Finiti i ringraziamenti, il prepotente trillo di una sveglia mi ha costretto ad aprire gli occhi. Sono sceso dal letto con un brutto presentimento in testa. Avevo forse sognato tutto? Sono corso nello studio, ho acceso il computer, ho aperto il mio gestore di posta… ed ecco l’amara sorpresa. Dalla lettura delle mail di risposta al sondaggio mi sono reso conto che la realtà è ben diversa:

Su 1500 intervistati, solo 10 persone hanno risposto sì alla domanda, altri 10 hanno risposto con frasi del tipo: “Di norma non leggo libri di sconosciuti e, per favore, mi cancelli dalla sua mailing list.”. I restanti 1480 hanno cestinato la mia mail.

Sinceramente non mi aspettavo tanto disinteresse.

Che tristezza scoprire che quasi nessuno è attratto dai libri di perfetti sconosciuti qual sono io, nemmeno se glieli regali! A mie spese ho capito perché le case editrici importanti pubblicano solo autori già famosi all’estero o in Italia e rifiutano le opere di esordienti. Di regola, quasi tutte le copie stampate di un libro di un principiante, dopo i classici 90 giorni, vanno dritte al macero. Per non parlare delle opere auto-pubblicate: queste sono destinate ai pochi parenti e ai quattro amici che uno si ritrova: il destino di questi libri, dunque, è l’oblio negli scantinati o l’annegamento  nel mare magnum della Rete.

Invece di mettermi a frignare per lo scarsissimo appeal di Io e Agata e del sottoscritto, autore alle prime armi, mi è venuto da ridere. Una risata un pochino isterica, ovvio, ma ridere è sempre liberatorio, e fa vedere le cose sotto una diversa luce. Infatti la delusione che si era intrufolata nei miei pensieri l’ho subito spazzata via prima che s’impossessasse della mia testa. Ho preso atto della débâcle delle mie aspettative e ho lanciato al vento questo messaggio subliminale: “Peggio per  loro! Non sanno cosa si perdono…”

Ieri, per cercare di capire le ragioni di un risultato così negativo, sono andato da un professionista esperto di marketing. Dopo avergli raccontato cosa mi era successo, lui mi ha elencato gli errori che avevo compiuto nel promuovere Io e Agata.

  1. Per lanciare un libro non usare mai quelle piattaforme dove i blogger sono tutti scrittori più o meno vanitosi  e sempre in competizione fra loro. Costoro, di sicuro, non fanno salti di gioia quando un competitor ha successo. Sfrutta, invece il passaparola innescato da qualcuno che ha letto e apprezzato veramente il tuo libro.
  2. Non regalare mai un libro scritto da te. Regali di questo genere vengono visti come una mossa disperata di un autore che non crede in se stesso e nelle proprie capacità di attrazione. E’ come chiedere benevolenza in anticipo.
  3. E’ sbagliato proporre a un amico che, come te, ha velleità letterarie di leggere un tuo testo. Questo invito viene interpretato come un impegno oneroso e nessuno ama essere costretto a fare delle letture obbligate. C’è gente che legge di mestiere e, a pagamento, può darti un parere professionale.
  4. Non sottovalutare, mai, l’invidia del pene o della vagina. C’è sempre qualcuna o qualcuno più bravo e più dotato di te.
  5. Sii umile. Anche se pensi di avere scritto un capolavoro, non esaltarti: lascia che siano gli altri a giudicare i tuoi scritti. Non esultare nemmeno se la tua opera vince un qualche premio. I libri che arrivano primi a un concorso quasi sempre sono delle sole…

Insomma non ne ho azzeccata una e si spiega così perché il post della settimana scorsa dove promuovevo Io e Agata è stato letto e commentato così poco.

A farmi sorridere, per fortuna, c’è il mio alter ego. Lui non ha i miei problemi…

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Arrivederci ai primi di Novembre.

Nicola

 

Io e Agata 3D

Io e Agata 3D back

Quella che vedete sarà la copertina della versione cartacea di Io e Agata realizzata per CreateSpace. Coloro che hanno letto il post della settimana scorsa avranno notato che è parzialmente diversa da quella della versione e-book. Ho dovuto modificarla per necessità. Lo sfondo marmorizzato che contraddistingue l’e-book non permetteva una facile lettura del testo nella quarta di copertina e per questo, ho dovuto cambiarlo. Dopo questa (inutile) notizia entriamo nello specifico del romanzo.

I personaggi principali sono tre: Agata, Fabio, Marta.

Marta è la moglie di Fabio. Di lei non ho potuto fornire ulteriori notizie. Mi è stato tassativamente proibito di descriverne l’aspetto fisico e i suoi intimi pensieri. Posso solo aggiungere che Marta è una donna di carattere, col cuore grande come una casa, ed è la nipote preferita di Agata. Il romanzo, sia chiaro, è di fantasia, ma alcuni personaggi, tra cui Marta, assomigliano molto a personaggi reali. Nel testo, comunque, disobbedendo un pochino all’impegno preso, la personalità di Marta emerge  chiara ed evidente.

Fabio, l’Io del titolo NON sono io, cioè l’autore del libro, ma è un simpatico signore laureato in lettere antiche che ha insegnato in un liceo di Milano. E’ doveroso sottolinearlo: io (scritto in minuscolo), infatti, sono un ingegnere elettronico a riposo e ho caratteristiche e aspirazioni del tutto diverse da quelle dell’Io, Fabio. Sbaglierà chi ravviserà in alcune fissazioni di questo personaggio le stesse che, in alcuni momenti della sua vita, ha manifestato il blogger Nicola. Fabio, da sempre, insegue il sogno di diventare un grande scrittore e di arrivare a possedere una libreria con un numero infinito di libri. Nicola si accontenta dei mille e passa libri che ha letto, inoltre, ben presto, ha capito che gli manca quel misterioso quid che permette a pochi eletti di raggiungere l’immortalità in campo letterario.

Agata, la minore delle due sorelle del padre di Marta, è una psicologa per vocazione e predisposizione mentale. Benché non avesse conseguito la laurea, esercitò con successo questa professione per parecchi anni. I suoi pazienti la chiamavano dottoressa con deferenza e affetto perché riusciva sempre a risolvere i loro disturbi mentali, emotivi e comportamentali. Agata era una psicanalista sui generis: curava la mente degli esseri umani sfruttando non solo l’ascolto ma il benefico influsso terapeutico delle piante. Il suo studio, infatti, era una specie di foresta tropicale dove trovavano posto solo una sedia per l’analista e una chaise longue per il paziente. Sono pochi quelli che non uscivano guariti dalle sue sedute. La sua cura, però, non era adatta a tutti. Chi soffriva di rinite allergica o di pollinosi veniva gentilmente invitato da lei a rivolgersi ad altro analista.

A sentire la campana dei famigliari, Agata non godeva di altrettanta considerazione. La sua originalità, manifestata abbastanza presto nel corso del suo cammino terreno, veniva da loro considerata fuori da ogni regola logica: tanta originalità faceva pensare che le mancasse qualche rotella. Matta come un cavallo era l’espressione con cui – carinamente – veniva ricordata nelle conversazioni in famiglia quando ci si riferiva a lei e alle sue azzardate scelte di vita.

Fabio conosce Agata il giorno del suo matrimonio con Marta e, subito, tra la psicologa e il professore di lettere nasce un sentimento di reciproca simpatia che nemmeno i tanti contrasti che avranno nel tempo, riusciranno a distruggere. 

Marta mi presentò a sua zia il giorno delle nostre nozze, durante il rinfresco, al termine della cerimonia in Chiesa. Lei mi diede una rapida occhiata e pronunciò una frase che ricordo ancora:
«Così questo è tuo marito? Beh, non è una gran bellezza, ma credo che ti farà felice!»
Lo disse sorridendomi apertamente e senza il minimo imbarazzo, facendo nascere nella mia testa quei sentimenti contrastanti che segnarono sempre i nostri rapporti: profonda attrazione per la sua fisicità, ammirazione per la vivacità della sua mente ma anche disapprovazione per certi suoi atteggiamenti sgarbati verso chi reputava non alla sua altezza.
Ho pensato parecchie volte a quella sua frase e non ho mai capito come abbia potuto esprimere un simile giudizio pochi minuti dopo avermi conosciuto. Riguardo al mio aspetto, non so se fece solamente dell’ironia, (in quel momento ero un ragazzo niente male) oppure se, con la lungimiranza degli indovini, riuscì a vedermi come sarei stato nella decadenza fisica dei settant’anni. Di sicuro centrò in pieno che avrei fatto del mio meglio per rendere felice sua nipote. Marta voleva dei figli e ne abbiamo avuti quattro e, in quasi mezzo secolo di vita matrimoniale, abbiamo avuto più momenti belli da ricordare che periodi brutti da dimenticare.

Ad accomunare Agata e Fabio sono la passione sfrenata per i libri. Agata, tra l’altro, dispone di una ricca biblioteca a cui Fabio farà apertamente il filo, sperando di entrarne in possesso alla di lei dipartita.

Quando Marta me la presentò, Agata mi piacque subito e ancora di più l’apprezzai quando seppi che non era sposata e che possedeva una biblioteca che dire fantastica è dire poco. Da allora mettere le mani sui suoi libri divenne il mio freudiano fort-da, un ripetitivo gioco del rocchetto che praticai negli anni con tenacia degna di ben più redditizi traguardi. Mille volte rimuginai fra me e me che, catturando con astuzia la sua benevolenza oppure utilizzando metodi di persuasione violenti, avrei avuto la possibilità di realizzare la seconda delle mie ossessioni. In realtà non pensai mai di ammazzare Agata per far sì che la sua biblioteca diventasse mia in anticipo però, visto il carattere spigoloso e ondivago di quella donna, ci andai molto, molto vicino…

A sessant’anni Agata decide di lasciare Milano, vende il suo prestigioso  appartamento e con il ricavato acquista una villa nella collina pavese a una quarantina di chilometri dalla città dove ha vissuto ed esercitato la sua professione. Questa svolta nella sua esistenza si rivelerà una scelta poco ragionata e, da quel momento in poi, comincerà il suo lento ma inevitabile decadimento fisico e mentale. Questa discesa all’inferno della ragione sarà da lei combattuta con caparbietà, aiutata dall’amorevole e costante presenza di Marta che  ha promesso a suo padre di vegliare – vita natural durante – su questa parente riottosa ad accettare regole e divieti della società del suo tempo.

Anche Fabio, con sempre in testa il pensiero fisso di entrare in possesso  della biblioteca di Agata, parteciperà a questa azione di supporto morale ed economico messa in essere da sua moglie per rendere meno solitaria e degradata la vita di una donna che sta invecchiando malamente in un luogo, Strà Ferrari, composto di quattro case in croce e nemmeno segnalato nelle carte topografiche.

Agata e Fabio, due personalità molto diverse fra loro, si incontrano e scontrano, si amano e litigano senza freni, come sempre avviene tra persone legate da amorosi sensi. Dunque, Io e Agata altro non è che il romanzo di due vite solidamente ed empaticamente intrecciate.

Fabio, sin da bambino ama leggere e scrivere. Entrambe queste passioni – vere e proprie ossessioni –  saranno la sua dannazione. Tutti sanno, all’infuori di lui, che scrivere con l’idea fissa di diventare uno scrittore di successo non è il modo migliore per affrontare con serenità e profitto la pagina bianca. Potrà l’Agata psicologa aiutare Fabio a superare indenne le tante delusioni che comporta l’attività dello scrivere senza avere mai gratificazioni? Agata, abituata a spendere in maniera scriteriata (la sua  famiglia era parecchio benestante), saprà affrontare senza davvero impazzire le ristrettezze economiche con cui, da un certo punto in poi, è costretta a convivere?

Il romanzo affronta e cerca di dare una risposta a queste problematiche e a tanti altri temi (i rapporti interpersonali, l’amore, la vecchiaia, la solitudine e la malattia) che si presentano pressanti e, a volte, irrisolvibili, nella vita di tutti gli esseri umani.

Io e Agata si sviluppa in 72 capitoli e con due racconti in appendice. Le voci narranti sono due. Agata e Fabio si alterneranno sulla scena per parlare della propria esistenza, entrambi sotto l’egida di Marta, personaggio volutamente tenuto in sordina, ma che rappresenta la saggezza e l’amore incondizionato in un mondo che, quasi sempre, è disordine, cattiveria, dolore e incomprensione.

Nicola

P.S. Andate su www.amazon.it e iscrivetevi (è gratis), scegliete la categoria Libri e cercate Io e Agata oppure Nicola Losito: nella videata che compare potete trovare il mio e-book e leggerne, senza alcun impegno di acquisto, i primi otto capitoli. Se trovate di vostro interesse il romanzo, è possibile comprarlo a 1,56 Euro, o richiederlo, in via gratuita, scrivendomi alla mail n.losito@alice.it.

A metà Novembre, se non ci sono intoppi, sarà disponibile anche la versione cartacea di Io e Agata. Un consiglio disinteressato: questo libro potrebbe essere un simpatico regalo di Natale per gli amici. Caldo Occhiolino

E, per finire, ecco una strip del Signor Giacomo:

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