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A parte Kazuo Ishiguro (Quel che resta del giorno e Non lasciarmi, entrambi editi da Einaudi) non conoscevo altri autori giapponesi moderni. Questa mia lacuna è stata in parte colmata dalla lettura dell’ultimo romanzo, uscito in Italia, di Murakami Haruki, un autore nato in Giappone nel 1949 a Kyōto e cresciuto a Kōbe.

Il libro di cui oggi vi parlo l’ho acquistato d’impulso, attirato dalla stranezza del titolo e anche perché da tempo volevo testare autori diversi dai soliti quattro o cinque scrittori costantemente in cima alle classifiche di vendita in Italia e altrove.

L’uccello che girava le viti del mondo, edito da Einaudi, è un tomo di ben 832 pagine stampato a caratteri piccoli (ma non piccolissimi) che avrebbe spaventato chiunque, ma non certo me che da qualche settimana sono uscito (quasi) indenne dalla magnifica/devastante/fatigante/stizzosa impresa di leggere l’Ulisse di Joyce.

Parentesi

Ho scritto “stizzosa” perché, per almeno una ventina di volte, avrei voluto gettare dalla finestra quella ponderosa opera osannata da tutti, ma letta fino in fondo quasi da nessuno. Possibile – mi chiedevo mentre leggevo l’Ulisse – che sia cosa basilare, conoscere nomi e cognomi delle cento e passa persone che seguono il funerale di un abitante di una via di Dublino, per nulla famoso? Oppure che sia utile alla storia elencare i nomi dei quaranta componenti della banda che precede la carrozza funebre dello stesso defunto? Io sono convinto che Joyce, scrivendo quelle paginate di elenchi, abbia voluto prendersi gioco dei critici che, all’epoca, avevano disapprovato certi suoi scritti forse un po’ criptici e poco esplicativi.

Chiusa parentesi.

Dunque, superato lo scoglio dell’Ulisse, ero preparato ad affrontare una nuova avventura di molte pagine.

La cosa che mi ha colpito subito è stato il vezzo di Haruki di dare titoli lunghissimi a ogni capitolo delle tre sezioni (La gazza ladra, L’uccello profeta, Il flauto magico) di cui è composto il libro. Ad esempio, il primo capitolo della prima sezione recita: “Dove si parla dell’uccello-giraviti del martedì e di creature con sei dita e quattro seni.”

L’incipit del romanzo, a mio parere, è notevole e ve lo ricopio:

“Avevo la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono. Alla radio davano La gazza ladra di Rossini, il sottofondo ideale per preparare un piatto di spaghetti, e io l’accompagnavo fischiando. Fui tentato di non rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti, e Claudio Abbado stava giusto per portare l’orchestra filarmonica di Londra all’apice dell’intensità drammatica. Pazienza, mi rassegnai ad abbassare il fuoco e sollevai il ricevitore. Poteva anche essere un conoscente con qualche nuova proposta di lavoro.

– Vorrei dieci minuti del suo tempo, – disse senza preamboli una voce di donna.

Io sono piuttosto bravo a riconoscere le persone dalla voce, quella lì però non l’avevo mai sentita.

– Scusi con chi desidera parlare? – chiesi educatamente.

– Proprio con te. Dieci minuti, dammi solo dieci minuti del tuo tempo. Vedrai che riusciremo a intenderci perfettamente.-

La donna aveva una voce bassa, morbida, elusiva.

– Intenderci?

– Parlo di feeling.

Sporsi la testa oltre la porta a guardare in cucina: dalla pentola si alzava bianco vapore, Abbado continuava a dirigere la gazza ladra.

– Scusi, ma ho gli spaghetti sul fuoco, non potrebbe chiamarmi più tardi?

– Spaghetti? – fece lei in tono sconcertato. – Spaghetti alle dieci e mezzo del mattino?

– Questo non la riguarda. Ho il diritto di mangiare quello che mi pare all’ora che mi pare, – risposi un po’ irritato.

– In effetti, – disse la donna in tono secco e impersonale, molto diverso da prima. L’umore sembrava leggermente cambiato. – Vabbè, non importa richiamo più tardi.

– Aspetti un momento, – risposi in fretta. – Se è per vendermi qualcosa, guardi che perde il suo tempo, mi telefonasse anche cento volte. In questo momento non posso permettermi di comperare niente, sono disoccupato, non ho soldi da buttare via.

– Lo so, non ti preoccupare.

– Come sarebbe a dire, lo sa?

– Significa che so benissimo che sei disoccupato. Per cui vai pure a prepararti i tuoi preziosi spaghetti.

– Ma lei, cosa diavolo… – Non feci in tempo a terminare, dall’altra parte avevano sbattuto giù il telefono.”

Non male, no?

Prima di acquistare un libro leggo sempre la prima pagina e, solo se m’incuriosisce, caccio i quattrini e me lo porto a casa. Beh, a me quell’incipit parve strepitoso: nella sua semplicità, mi aveva dato la certezza che anche il resto del romanzo sarebbe stato all’altezza di quelle prime righe.

A finire il libro ci ho impiegato una ventina di sere, già perché a me piace leggere la notte a letto, visto che non ho più l’età per fare altro… ahem.

Così mi sono immerso nel mondo onirico, fantasioso e, allo stesso tempo, realistico di Murakami Haruki.

Sembra una contraddizione in termini associare l’onirico al realistico eppure, con grande estro narrativo, Haruki riesce a realizzare questo difficile connubio: ogni situazione, infatti, benché fantasiosa è tenuta saldamente ancorata a terra attraverso la veridicità delle descrizioni e dei dialoghi. Ed è questo che rende la storia sufficientemente credibile.

In un solo punto del romanzo, Haruki esagera quando dà l’idea di non conoscere le difficoltà nell’individuare le password che permettono l’accesso a documenti segreti memorizzati in un computer. Hokada Toru, il personaggio principale del libro, fra milioni di password possibili, ne individua ben due in pochi minuti. Cosa che è decisamente improbabile.

A parte quest’assurdità perdonabile, l’autore, pur nella complessità della trama e nell’uso di lunghi flash back, tiene saldamente la barra della narrazione e scioglierà gradualmente tutti i misteri della vicenda.

La storia in sé e per sé è semplice: una coppia che sembrava affiatatissima, improvvisamente si sfalda. Kumiko, la moglie di Okada se ne va di casa per seguire un altro uomo di cui dice di essere attratta fisicamente. Il racconto, con l’aiuto di numerosi e ben delineati comprimari, si evolve verso la soluzione (non vi rivelo qual è, ovviamente) seguendo i vari tentativi messi in campo da Okada per ritrovare la moglie fuggitiva.

Uno dei comprimari più riusciti è Kasahara May, una ragazzina di 17 anni, vicina di casa di Okada, che lo aiuterà a sopportare la solitudine delle prime e tristi giornate di uomo abbandonato senza un’apparente ragione da una moglie molto amata e desiderata.

Ci sono poi le due sorelle Malta e Creta Kanō, maghe sensitive e misteriose, che aiuteranno Okada a ritrovare il gatto fuggito di casa e gli daranno le prime dritte per cominciare la ricerca della moglie e per comprendere le ragioni della sua fuga.

Nutmeg e Cinnamon, madre e figlio, facoltose persone della società bene di Tokyo, la città dove si svolge la vicenda, che prenderanno a cuore la situazione economicamente disastrosa di Okada e gli forniranno denaro e mezzi per aiutarlo nella ricerca, ormai diventata ossessiva, di sua moglie Kumiko.

Wataye Noburu, fratello di Kumiko, un politico brillante ma infido che odia il cognato e che si adopererà con tutto il suo potere affinché lui non scopra il mistero che sta sotto alla fuga improvvisa della moglie.

Parallelamente alla vicenda principale (che si svolge ai nostri giorni), ma sempre strettamente connessa a essa, ruotano le storie di altri personaggi che hanno vissuto il conflitto russo-giapponese durante la seconda guerra mondiale.

Terribili ed epiche le pagine in cui Boris lo scorticatore, un crudele ufficiale russo, uccide delle spie giapponesi, facendole scorticare vive o spaccando loro la testa con una mazza da baseball, allo scopo di ottenere informazioni militari.

Il romanzo, cioè, alterna pagine di storia realmente accaduta a vicende di fantasia ma anch’esse credibili perché narrate con voce realistica.

La storia, di largo respiro e complessa nella trama, mi ha avvinto e non mi ha stancato nemmeno nelle diverse digressioni dal filone principale.

Ci si affeziona ai vari personaggi e, di conseguenza, si prova dispiacere quando alcuni di loro, come le due sorelle Kanō, si perdono per strada.

In conclusione, posso dirvi che il libro vale i 17,50 euro spesi per acquistarlo.

E cosa c’entra – vi chiederete a questo punto – l’uccello che girava le viti del mondo?

E perché il romanzo ha quello strano titolo?

Beh, sono un po’ cattivello e non ve lo svelo…

Leggete il libro e lo saprete!

A settembre, quando (forse) riaprirò il blog, avremo tempo e modo di parlare ancora di Murakami Haruki. Vi anticipo solo che ho comprato praticamente tutti i romanzi e i racconti editi in Italia di questo autore.

Chissà perché?

Nicola

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Ho finito proprio oggi di leggere “Appunti di un venditore di donne” di Giorgio Faletti (B.C.Dalai editore, pagg. 397 € 20,00) e, prima che il ricordo di questo libro svanisca nei meandri oscuri della mia mente, mi appresto a scrivere da venditore di fumo qual sono alcuni appunti al riguardo.

Copertina :     110109wow

Titolo:   yes_text

Scrittura:   110109_7

Trama:   no_text

Dico subito che la storia è accattivante, ben scritta (nel solito – buono ma non eccelso – standard di Faletti) e si legge velocemente perché ha ritmo e colpi di scena a tonnellate, però… (purtroppo c’è un però) devo dire che il libro non mi è piaciuto molto.

E vi spiego il perché.

Faletti pubblica un romanzo all’anno e, per forza di cose, per terminarlo in tempo per la stampa, la promozione in TV e la distribuzione in libreria, deve andare di corsa e quindi non può perdersi in bizantinismi moralistici o filosofici, in accurate descrizioni di paesaggi, approfondimento dei caratteri dei personaggi e quant’altro: ogni suo sforzo intellettuale deve essere dedicato all’intreccio, al coup de théatre imprevisto, eccetera eccetera. In questo Faletti è indubbiamente bravo (tra l’altro Bravo è anche il nome del protagonista del romanzo…) anche se questa volta, a mio giudizio, ha un pochino esagerato nella verosimiglianza dell’ordito. Basti pensare alle tante pagine (quelle finali) spese nel tentativo di dare coerenza logica alla sua intricata storia. Storia ambientata nel 1978 all’epoca delle Brigate Rosse, al rapimento di Moro, mescolando vicende inventate di ordinaria malavita milanese ad avvenimenti realmente accaduti e termina dieci anni dopo nell’isola caraibica di Margherita. Non vi racconto la trama per non togliervi il piacere di cercare da soli di scoprire “l’assassino”, ma vi assicuro che, a parte qualche particolare secondario di mescolamento di identità (uhmm, forse ho detto troppo!) che qualsiasi giallista nemmeno tanto provetto sarebbe in grado di intuire, lo svelamento totale del mistero è impossibile. Infatti la spiegazione a cui Faletti dedica una paccata di pagine mi ha lasciato dentro una notevole insoddisfazione. Mi sono sentito ingannato. Un “grande” scrittore di gialli deve sapientemente seminare il racconto di indizi in modo tale da permettere al lettore più smaliziato (e non soltanto al commissario di turno o al giudice o all’investigatore privato, protagonisti del giallo) di arrivare alla soluzione del caso. Su quest’ultimo romanzo di Faletti mi gioco i miei due gioielli di riproduzione se c’è qualcuno nel mondo in grado di arrivare con gli indizi a sua disposizione alla soluzione del mistero.

Quindi, per chiarire il concetto, ho trovato la storia un tantino cervellotica e le rivelazioni finali mi hanno deluso perché abbastanza inverosimili anche considerando la possibilità che nella vita si verifichino delle coincidenze casuali. Il caso, spesso evocato dall’autore, quasi mai è così imprevedibile come in questo romanzo.

Vabbè. Questo è il mio giudizio, fallibile come tutti i giudizi e come tale va preso. So, per contro, che il libro è piaciuto a tanti e ha venduto moltissime copie.

Faletti mi piaceva da matti come comico (un mito il suo Vito Catozzo!), ma lo ammiro di più per come sia riuscito a non deprimersi quando la sua popolarità televisiva è finita e per il modo in cui è riuscito a riciclarsi sia come attore di cinema sia come scrittore. Di Faletti mi piace l’onestà intellettuale, sono convinto che in cuor suo non si consideri un autore di gialli da premio Nobel: è lui stesso a scrivere proprio in questo romanzo : “Ogni enigma rivela la sua fragilità una volta risolto.”

Esatto.

Termino con un’osservazione utile per chi scrive già o per chi ha in mente di dedicarsi alla scrittura: evitate l’uso di troppe parolacce, alla fine annoiano e sono quasi sempre il segnale di scarso lessico e poca fantasia.

Faletti non ne usa tante e diciamo che sa bene come e quando adoperarle, a differenza di molti autori esordienti che le utilizzano quasi sempre a sproposito. Ciò detto, perché iniziare il romanzo con questa frase:

“Io mi chiamo Bravo e non ho il cazzo.”

Certo, presto si capirà la ragione di questa dichiarazione d’intenti però, Dio mio, il grande Faletti non poteva escogitare un trucco migliore per avvincere il lettore?

Nicola

P.S.

Se confrontate la foto di copertina di Appunti di un venditore di donne con l’immagine che individua il mio primo romanzo Alla bisogna tango si balla,

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noterete una somiglianza imbarazzante tra le due foto. Purtroppo sono cose che succedono nella vita.

Vorrà dire che farò causa a Faletti clip_image004