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Carissime, carissimi,
siccome la prossima settimana sarà Natale, ho deciso di darvi un po’ di tregua (e darla anche a me) e permettervi, da domani in poi, di pensare solamente a come passare, nel migliore dei modi permessi dalla crisi economica in corso, questi ultimi giorni di Dicembre con i vostri cari e con gli amici in carne e ossa. I pensieri e le divagazioni del Signor Giacomo, dunque, finiranno oggi, ma ricominceranno – salute permettendo – nel 2014, subito dopo la Befana, alla faccia del mio Terribile Capo che, alla notizia della mia richiesta di ferie, mi ha “letterariamente” dato il benservito:

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Per finire in gloria l’anno in corso, vi regalo un brano-gioiellino scritto da Oriana Fallaci che ho estratto (con grande sforzo elaborativo) dal suo romanzo Insciallah, pubblicato da Rizzoli nel lontano 1990.
Il romanzo in questione lo sto leggendo (con molta calma) in questi giorni e forse, nel 2014, ve ne presenterò altri stralci molto profondi.
Credo che parecchi blogger, me compreso, nutrano velleità letterarie, cioè hanno scritto o stanno scrivendo un libro, perciò la lettera che fra un po’ leggerete cade proprio a fagiolo. Il Colonnello è uno dei tanti personaggi del romanzo Insciallah (in realtà è la stessa Fallaci che scrive sotto mentite spoglie) che sfrutta il tempo libero che riesce a ritagliarsi durante la missione militare internazionale in Libano, precisamente a Beirut, per scrivere il suo primo romanzo, prendendo come fulcro del racconto la complicata e sanguinosa guerra tra palestinesi, israeliani e libanesi di diverse fazioni religiose. Il Colonnello non è sposato, però, per vincere la solitudine delle notti passate nel suo alloggio, si è inventato una moglie e a lei, con regolare frequenza, scrive delle lettere per parlarle dei suoi problemi, delle sue speranze e per aggiornarla su ciò che succede attorno a lui. Fra le tante missive ho scelto quella che reputo più interessante e che, in un certo qual senso, è legata alle nostre comuni passioni letterarie e alla ricorrenza festiva dei prossimi giorni.

Buona lettura.
Nicola

Lettera del Colonnello alla moglie immaginaria

di Oriana Fallaci

Ho un gran bisogno di scriverti, cara, e mi chiedo perché. Forse perché domani è Natale, e sebbene abbia in uggia le feste legate a miraggi extra-terreni non so sottrarmi al fascino di quel giorno. È il giorno col quale si celebra la nascita d’un uomo che credeva ciecamente all’amore e all’immortalità della Vita: passarlo in un’orgia di odio e di morte mi affligge, mi fa sentire più solo di sempre. Non immagini quanto darei per passarlo con te, in un letto caldo di te, tenendoti nelle mie braccia e ascoltando le campane che invitano alla letizia. (Che fantasticarti non mi basti più?) O forse il Natale non c’entra, l’insufficienza del mio fantasticarti nemmeno. Ho un gran bisogno di scriverti perché ho un gran bisogno di conversare con me stesso, farmi compagnia, superare l’inquietudine che all’improvviso mi innervosisce. Eh! Non è uno stato d’animo ingiustificato, il mio: ne son successi, di cataclismi, in queste ultime settimane e in queste ultime ore. […]

Esiste un geniale aforisma sul senso organizzativo dei miei connazionali, lo sai, e questo è il caso di ricordarlo: «Il paradiso è un luogo dove i poliziotti sono inglesi, i cuochi sono francesi, i fabbricanti di birra sono tedeschi, gli amanti sono italiani (sic), e tutto è organizzato dagli svizzeri. L’inferno è un luogo dove i poliziotti sono tedeschi, i cuochi sono inglesi, i fabbricanti di birra sono francesi, gli amanti sono svizzeri, e tutto è organizzato dagli italiani.»
Ma parliamo d’altro. Parliamo della mia piccola Iliade, del mio romanzo da scrivere col sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi.
L’ho incominciato, cara, ci lavoro! Ogni notte mi chiudo in ufficio e lavoro, lavoro, lavoro: navigo nelle difficili acque del romanzo agognato. Non so in quale porto mi condurrà. Neanche a chi lo scrive un romanzo confessa subito i suoi molti segreti, rivela subito la sua autentica identità. Come un feto privo di lineamenti precisi, all’inizio chiude in sé una miniera di ipotesi: tiene in serbo una miriade di sorprese buone o cattive. E tutto è possibile. Anche il peggio. Però il corpo è già delineato, il cuore batte, i polmoni respirano, le unghie e i capelli crescono, nel volto incerto distingui con chiarezza gli occhi e il naso e la bocca: posso presentartelo. Posso addirittura anticiparti che la storia si svolge nell’arco di tre mesi, novanta giorni che vanno da una domenica di fine ottobre a una domenica di fine gennaio. […]

Fra protagonisti e comparse, una sessantina di personaggi. Ma di giorno in giorno il cast si arricchisce, il palcoscenico si affolla, e presto ne arriveranno di nuovi. Che Dio mi aiuti… Sai che travaglio dosarli, inserirli nella struttura del racconto, muoverli al momento giusto e nella maniera giusta cioè ai fini della trama? Certe notti mi sento peggio d’un incauto burattinaio che non ha dita sufficienti per reggere i fili di tutti i suoi burattini. E tremo.
Il guaio è che non riesco a limitarli, ridurli. Mi parrebbe di mutilare il romanzo a ridurli, di ritrarre la vita come la ritraevano i film muti o in bianco e nero. Non mi piacciono i film muti o in bianco e nero. Non li capisco gli esteti che prediligono i film muti o in bianco e nero, che ebbri d’estasi per il silenzio e la monocromia che li caratterizza ne esaltano “l’inimitabile intensità” o “l’essenzialità”. Mancano i suoni della Vita a quell’intensità, mancano i colori della Vita a quell’essenzialità. La Vita non è uno spettacolo muto o in bianco e nero. È un arcobaleno inesauribile di colori, un concerto interminabile di rumori, un caos fantasmagorico di voci e di volti, di creature le cui azioni si intrecciano o si sovrappongono per tessere la catena di eventi che determinano il nostro personale destino.

Cara, una delle cose che terrei a dire nella mia piccola Iliade è proprio il fatto che il nostro personale destino viene sempre determinato da una catena di eventi tessuti dall’intrecciarsi o dal sovrapporsi di azioni non compiute da noi. Ad esempio dal semplice gesto d’una persona il cui personale destino verrà a sua volta determinato dal semplice gesto di un’altra persona, all’infinito, con una meccanica estranea alla nostra volontà cioè al nostro libero arbitrio. E per dirlo o tentar di dirlo devo usare il maggior numero possibile di burattini. Cosa che mi diverte, oltretutto, perché attraverso di loro posso esprimere me stesso. I miei molti me stesso, tutti i miei stessi che non sapevo d’essere ed ho scoperto d’essere… Flaubert diceva Madame-Bovary-c’est-moi, sono io. Bè, io sono Angelo, sono Ninette, sono il Condor, sono Charlie, sono Cavallo Pazzo, sono Gallo Cedrone, sono Zucchero… […] sarò e sono qualsiasi creatura che nasca dalla mia fantasia, annidi tra le pieghe del mio cervello, che esista grazie ai miei pensieri e ai miei sentimenti, che me li succhi come un vampiro succhia il sangue. La simbiosi è talmente completa che non mi è possibile differenziarmi da loro. Quando essi piangono, piango con loro. Quando essi ridono, rido con loro. Quando essi hanno paura, ho paura con loro. Quando muoiono, muoio con loro. E non me ne separo mai. Mai! […]
E mi sento Giove che dalla cima dell’Olimpo tira i fili dei suoi burattini, degli uomini, a suo capriccio seleziona quelli da salvare e quelli da sacrificare, a suo estro crea e distrugge i colori dell’inesauribile arcobaleno, i rumori dell’interminabile concerto. Insomma domina l’Universo. […]

Ci vago sempre, nella stratosfera. Fluttuo in una specie di lucida follia. Cara, per scrivere bisogna essere insieme lucidi e pazzi. Però che meraviglia, quel mostruoso connubio! Che privilegio fluttuarci, che sublime responsabilità! Te Io dimostrerò con l’aiuto d’un argomento che oggi è tema di saggi accademici ed elaborate polemiche, litigi da salotto e best-seller, ma che quasi tutti affrontano scansando il punto che preme. Ecco qua. Apparteniamo a un’epoca in cui Cinema e Tv si sostituiscono alla parola scritta, al racconto scritto, e nel dialogo con il mondo i registi anzi gli attori si sostituiscono agli scrittori. Nessuno infatti, neanch’io, resiste al narcotico richiamo dello schermo, al perpetuo svago offertoci da un sistema di comunicazione che trasforma in pubblico trastullo anche la sacra intimità del sesso e la inviolabile solennità della morte. Soggiogati, ipnotizzati dalla moderna Medusa, passiamo ore a guardare le sue immagini e ascoltare i suoi suoni. Di conseguenza leggiamo assai meno, e molti non leggono più. Ritengono che si possa vivere senza leggere cioè senza la parola scritta, il racconto scritto, gli scrittori. Invece no. No, e non tanto perché lo stesso cinema e la stessa Tv non prescindono dalla parola scritta, dal racconto scritto, dagli scrittori, quanto perché lo schermo non permette e non permetterà mai di pensare come si pensa leggendo: le sue immagini e i suoi rumori distraggono troppo, impediscono di concentrarsi. Oppure suggeriscono riflessioni troppo superficiali e passeggere. Inoltre si preoccupa troppo di stupire e divertire, lo schermo, diverte e stupisce con mezzi troppo rudimentali e giocattoleschi: se ne frega delle tue meningi.

È superfluo ricordare che per leggere ci vuole un minimo di meningi cioè di intelligenza e cultura, superfluo sottolineare che qualsiasi idiota o qualsiasi analfabeta con due occhi e due orecchi può guardare le immagini e ascoltare i suoni della moderna Medusa. Ma per vivere, per sopravvivere, è necessario pensare! Per pensare è necessario produrre idee, fornirle! E chi più dello scrittore produce idee? Chi più di lui le fornisce? Lo scrittore è una spugna che assorbe la vita per risputarla sotto forma di idee, è una mucca eternamente incinta che partorisce vitelli sotto forma di idee, è un rabdomante che trova l’acqua in qualunque deserto e la fa zampillare sotto forma di idee: è un mago Merlino, un veggente, un profeta. Perché vede cose che gli altri non vedono, sente cose che gli altri non sentono, immagina e anticipa cose che gli altri non possono né immaginare né anticipare… E non solo le vede, le sente, le immagina, le anticipa: le trasmette. Da vivo e da morto. Cara, nessuna società s’è mai evoluta al di fuori degli scrittori. Nessuna rivoluzione (buona o cattiva che fosse) è mai avvenuta al di fuori degli scrittori. Nel bene e nel male, sono sempre stati gli scrittori a muovere il mondo: cambiarlo. Sicché scrivere è il mestiere più utile che ci sia. Il più esaltante, il più appagante del creato.
Esagero? Cedo alla retorica dell’entusiasmo, alle utopie del neofita? Anticipo la tua replica:

«Calma, signor mio, calma. Non dimenticare quel che nell’illuminato Settecento diceva il matematico e philosophe Jean-Baptiste d’Alembert. In un’isola selvaggia e disabitata diceva, un poeta (leggi scrittore) non sarebbe molto utile. Un geometra sì. Il fuoco non fu certo acceso da uno scrittore, la ruota non fu certo inventata da un romanziere. Quanto al mestiere più esaltante e più appagante del creato, aggiungerai, domandalo agli scrittori che scrivono ogni ora e ogni giorno per anni, che a un libro immolano la loro esistenza. Ti risponderanno colonnello, crede seriamente che per dare un tale giudizio basti scrivere qualche ora dopocena? Crede seriamente che per scrivere un libro basti avere idee o costruire a grandi linee una storia? Crede seriamente che scrivere sia una gioia?!? Glielo spieghiamo noi che cos‘è colonnello. È la solitudine atroce di una stanza che a poco a poco si trasforma in una prigione, una cella di tortura. È la paura del foglio bianco che ti scruta vuoto, beffardo. È il supplizio del vocabolo che non trovi e se lo trovi fa rima col vocabolo accanto, è il martirio della frase che zoppica, della metrica che non tiene, della struttura che non regge, della pagina che non funziona, del capitolo che devi smantellare e rifare rifare rifare finché le parole ti sembrano cibo che sfugge alla bocca affamata di Tantalo. È la rinuncia al sole, all’azzurro, al piacere di camminare, viaggiare, di usare tutto il tuo corpo: non solo la testa e le mani. È una disciplina da monaci, un sacrificio da eroi, e Colette sosteneva che è un masochismo: un crimine contro sé stessi, un delitto che dovrebbe essere punito per legge e alla pari degli altri delitti. Colonnello, c’è gente che è finita o finisce nelle cliniche psichiatriche o al cimitero per via dello scrivere. Alcolizzata, drogata, impazzita, suicida. Scrivere ammala, signor mio, rovina. Uccide più delle bombe.»

Lo so. L’ho capito. Jean-Baptiste d’Alembert a parte (escludo che egli avesse ragione), so anche che la mia piccola Iliade potrebbe essere una chimera: l’embrione d’un libro che non nascerà mai. Potrebbe essere addirittura una gravidanza fittizia come quella delle donne che desiderano un figlio al punto di sospendere col subconscio il ciclo mestruale, gonfiare il ventre d’aria, illudersi che contenga un feto. Ma la felicità è sempre un’illusione, e fittizia o no questa gravidanza mi regala una parentesi di felicità. Ti abbraccio, cara.
Ti ringrazio di avermi aiutato a conversare con me stesso, farmi compagnia, superare l’inquietudine che mi innervosiva, e ti dico Buon Natale…

Fine

Fanatico1

Fanatico2

 

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Crediti: la vignetta iniziale è una scansione – indebita – dalla Settimana Enigmistica; La striscia dei Peanuts di Charles M. Schulz è una scansione – indebita – dalla rivista Linus di Dicembre 2013; gli auguri di Giacomo sono opera mia. Le parentesi quadre con all’interno dei puntini, presenti nella lettera, sono pezzi di testo non essenziali che ho saltato perché avrebbero allungato troppo un testo già lungo di per sé.

Arrivederci nel 2014!!!!!  THE_PR~1

Nicola

Nella mia “ormai” lunga vita ho beccato un sacco e una sporta di “rifiuti” e immagino che qualcuno ne abbiate subito anche voi che avete la pazienza di fermarvi a leggere i miei pensieri e le mie divagazioni. Dunque, perché non riflettere qualche istante su questo scottante argomento?

Oggi prenderò in esame un particolare tipo di rifiuto che può essere capitato a noi che ci vantiamo, a torto o a ragione, di essere degli scrittori (o scribacchini), lasciando l’esame di altre tipologie a successivi post.

Vediamo subito cosa capita di norma a Snoopy, un mio caro amico dei fumetti:

ScrittoreRifiutato

È cosa nota che, con l’avvento dell’auto-pubblicazione dei libri e degli e-book, le case editrici tradizionali stanno perdendo terreno e fatturato. Quasi tutti gli scrittori esordienti (e anche qualche autore ormai affermato) oggi scelgono di pubblicare le loro opere su grandi piattaforme generaliste (come Amazon, Barnes&Noble, e altre) per diversi e importanti motivi. Primo, perché queste hanno un mercato potenziale vastissimo, secondo, perché l’auto-pubblicazione è praticamente gratuita, terzo e non ultimo, perché la fatica letteraria di un emerito sconosciuto, non passando attraverso le forche caudine di un editor di una casa editrice, non corre più il rischio di essere rifiutata. Non essendoci filtri, il web accetta tutto, sia capolavori sia emerite porcate.

Non è solo per colpa del self-publishing che le case editrici serie sono in crisi. C’è da tenere conto che oggi in troppi scrivono credendo di produrre letteratura (per scrivere qualcosa di memorabile c’è chi pensa che basti essere dotati di un computer e di un word processor) mentre, nella sponda opposta, pochissimi comprano e leggono libri. Su quante persone hanno letto più di un libro cartaceo in un anno esistono statistiche desolanti. Men che meno si leggono libri di autori sconosciuti che si auto-pubblicano. D’altra parte come si fa a dar loro fiducia se voci di corridoio assicurano che gran parte di costoro scrivono da cane non avendo mai letto un libro oltre quelli obbligatori a scuola? Ma questa potrebbe essere niente più di una malignità messa in giro dalle case editrici tradizionali…

Comunque, è triste verità che tra i tanti scrittori esordienti che hanno realizzato un romanzo o un saggio, solo pochissimi meritano una pubblicazione che abbia qualche speranza di successo di vendita e di critica. Ecco perché le case editrici non danno loro il giusto credito. Con gli esordienti rischiano di perdere tempo e quattrini. Per guadagnare gli editori devono andare sul sicuro e quindi scelgono di tradurre libri che hanno avuto successo nei rispettivi paesi di origine o si buttano su autori italiani che hanno già un certo nome. Agli esordienti, purtroppo, non rimangono che le briciole della torta editoriale cartacea.

Ciò detto, io penso che anche il rifiuto di pubblicazione (che spesso è indice di poco coraggio o scarsa lungimiranza degli editori) abbia avuto la sua parte di colpa nell’odierno declino del libro stampato. Esistono schiere di scrittori “rifiutati” che valgono tantissimo e meriterebbero di essere presi in considerazione dalle case editrici che vanno per la maggiore.

A questo punto alzi la mano chi ha inviato un manoscritto a una vera casa editrice e ha ricevuto – entro un tempo decente (diciamo qualche mese) – una lettera di rifiuto alla pubblicazione! In genere i grossi editori, sommersi da migliaia e migliaia di manoscritti di perfetti sconosciuti, non si prendono nemmeno la briga di scrivere due righe all’ansioso esordiente per comunicargli che la sua opera non è piaciuta a chi è preposto a valutarla. Quelle poche case che lo fanno, in genere inviano lettere di rifiuto standard che, seppur impregnate di parole gentili, sono di una tristezza infinita…

Il post di oggi, dunque, è rivolto agli scrittori esordienti che si arrabbiano con gli editori che cestinano ingiustamente i loro capolavori. Per costoro il rifiuto alla pubblicazione è colpa della dabbenaggine dei redattori che non sono in grado di capire la stoffa che si nasconde dietro un nuovo autore. Altre volte, però, santo cielo, come si fa a pubblicare quelle incredibili ciofeche che arrivano a tonnellate nelle redazioni delle case editrici?

Esaminiamo, a mo’ di esempio, il caso del Sig. Manzi, un fantomatico esordiente, per chiarire meglio cosa ci può essere dietro una lettera di rifiuto.

Egr. Sig. Manzi,
la ringraziamo per averci inviato il suo manoscritto.
Siamo spiacenti di non poterlo pubblicare. L’argomento da lei trattato non rientra nelle attuali priorità della nostra casa editrice.
Distinti saluti.
Carlo Astolfi

 
Questa che avete appena letto è la lettera standard, prestampata, di rifiuto che le case editrici inviano agli autori che non intendono pubblicare. Nel caso specifico, invece, ecco cosa l’editor Carlo Astolfi avrebbe voluto – in cuor suo – scrivere all’esordiente Manzi:

 
Egr. Sig Manzi,
la ringraziamo per averci inviato il suo manoscritto.
Siamo spiacenti di non poterlo pubblicare per le ragioni che ora le elenco:

 
1. La trama è banale, confusa e i vari personaggi sono poco caratterizzati. Gradiremmo sapere chi è la signora Guendalina, la protagonista del suo romanzo: è forse una zia, una prozia, una nonna di Giacomo? Non si è capito.
2. A meno che lei, in futuro, non aspiri a diventare il James Joyce italiano, nella nostra bella lingua, in genere, le frasi hanno un soggetto, un verbo e un predicato. Riteniamo un po’ azzardato mettere il soggetto nel primo capitolo, il verbo al terzo… il predicato lo stiamo ancora cercando. Ha forse dimenticato di spedirci la seconda parte del suo manoscritto?
3. È noto a tutti che l’apostrofo non si mette quando l’articolo indeterminato “un” precede un sostantivo maschile anche se inizia con una vocale.
4. Il tempo al congiuntivo non è un optional che si può mettere o non mettere a seconda che la mattina lei si sia alzato con la luna storta oppure allegro come una pasqua. Esistono delle regole.
5. Per esprimere una sensazione di sgomento, l’aggettivo “azzimato” non è adatto. Inoltre, si scrive “roba” e non robba, “spelacchiato” e non spellacchiato. Di preziosità di questo tipo ne ha inserite a centinaia nel suo lavoro, ma non voglio tediarla più del necessario con queste che sono solo sottigliezze.
6. È il verbo avere che, ogni tanto, mette la “h” davanti a sé e non l’anno inteso come periodo di tempo.
7. Quando ci si rivolge a una persona di sesso femminile, scrivere “gli disse” suona un po’ offensivo per le donne, mi creda. Soprattutto, non si capisce con chi il protagonista stia parlando.
8. Sull’uso della punteggiatura non ho molto da eccepire. In questa lettera le allego un po’ di virgole, alcuni due punti e qualche punto fermo. Ne spolveri un po’ nel suo manoscritto, forse qualcuno di essi cadrà nella giusta posizione. Così tutti coloro che avranno la fortuna di leggere questa sua prima fatica letteraria, ogni tanto potranno tirare il fiato, evitando un’anossia al cervello.

Per quanto riguarda tutto il resto, direi che può andare.

P.S.
Per migliorare la leggibilità del testo, le regalo alcuni suggerimenti: elimini Giuseppe e Maria. Questi due personaggi, benché di grande spessore nell’iconografia cristiana, sono inutili all’economia del suo romanzo ed eviti, se possibile, di usare tutte quelle espressioni idiomatiche logore e abusate di cui sono infarcite le sue pagine.
Infine, una preghiera.
Sia gentile, il suo prossimo lavoro lo mandi alla Casa Editrice Parenti, da loro ci sono diversi editor che hanno, a differenza del sottoscritto, parecchio tempo da perdere.
Cordialmente.
Carlo Astolfi

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Persino in America le case editrici non scherzano: ne sapeva qualcosa Snoopy che, tra le sue tante attitudini, aveva anche quella di scrivere racconti e romanzi.
Le sue storie iniziavano sempre così: “Era una notte buia e tempestosa…”

Ed ecco la lettera tipo che Snoopy riceveva:

 
Caro Collaboratore,
grazie per avere inviato il suo racconto alla nostra rivista.
Per risparmiare tempo, le alleghiamo due lettere di rifiuto.
Una per questo racconto e l’altra per il prossimo che ci invierà…
Distinti saluti.
La redazione

Se avete un po’ di tempo, seguite questo link e ringraziate il blogger Elinepal per la pazienza che ha avuto nel catalogare le mille disavventure di Snoopy, lo scrittore esordiente più scalognato del mondo…

snoopy

Siccome anche a me non hanno mai pubblicato nulla, devo ammettere che tutto il mondo è paese per noi sfortunati autori esordienti! Perciò non prendiamocela troppo se le grandi case editrici rifiutano i nostri manoscritti. Forse  abbiamo sbagliato a sopravvalutare il nostro talento letterario: dunque un bel bagno di umiltà non ci farebbe male. Anzi, dico di più, per molti di noi sarebbe consigliabile scegliere un hobby di più immediata soddisfazione: darsi all’ippica, per esempio.

Io ho già preso le prime lezioni e mi sto divertendo da matti ad andare a cavallo…  GRIN_C~1

Nicola

Crediti: La vignetta dei Peanuts e l’immagine di Snoopy sono di Charles M. Schulz e le ho scaricate da Internet.

Paura del futuro

(Charles M. Schulz, Peanuts)

Il 2012, per colpa della crisi economica/sociale/politica in atto, è cominciato malissimo. Molte delle nostre certezze hanno subito un deciso scombussolamento.

Sorge quindi spontanea una domanda: siamo pronti ad affrontare l’odierna emergenza?

Ad andare in giro, a guardare la tv, a leggere i giornali, parrebbe di no…

Tempo fa, scorrendo un articolo di G. Arturo Ferrari, in commemorazione dello scrittore Carlo Fruttero (*), deceduto di recente, mi ha molto colpito la frase: “Il prevalente cretino (p.c.) è tale perché è inconsapevole: crede di parlare, ma altri parlano in lui; crede di pensare, ma altri pensano in lui…”

Il p.c. – dunque – non ha libertà interiore, ma appartiene a qualcosa o a qualcuno, è servitore involontario (volontario?) di qualcosa o di qualcuno.

Ciò detto, potremmo sbizzarrirci a cercare la natura del “qualcosa” o del “qualcuno” a cui il p.c. inconsapevolmente (?) è subordinato.

egoBob Schuchman

(Anton Ego, il critico in Ratatouille)

Un’idea politica, un credo religioso, un modo di agire, seppur buoni in partenza ma portati avanti acriticamente, cioè senza mai essere messi in discussione, li si può considerare elementi distintivi di un p.c.?

Io dico di sì.

Ma qui mi fermo.

Non voglio fare della filosofia un tanto al tocco. La discussione potrebbe espandersi a macchia d’olio e prendere direzioni che ci porterebbero troppo fuori dai temi futili che tratto di solito nel mio blog.

La riflessione della settimana, dunque, stoppiamola a questa nuova domanda: quante volte nella nostra vita siamo stati dei p.c.?

Absit iniuria verbo (**), naturalmente, per chi ha saputo e sa adattarsi sempre e comunque alle difficili contingenze della vita…

Giacomo, il mio alter ego, mi ha chiesto la parola e volentieri cedo a lui la conclusione del post odierno.

Filosofeggiando

Dunque, hanno ragione i nostri tre amici qui sotto ad essere preoccupati?

Paura del futuro1

Nicola

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(*) Fruttero & Lucentini: “La prevalenza del cretino”, Mondadori 1985

(**) Sia detto senza intenzione di offendere.