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Io e gli altri

Immagine tratta da Internet

Tempo fa, cazzeggiando su Internet, intercettai un articolo di una simpatica quanto intelligente webnauta (@celeste.s) in cui discettava su due sue opinioni trasformate poi in affermazioni assiomatiche:

1) In Rete tacere equivale a scomparire.

2) In Rete il silenzio è il lusso delle persone arrivate.

A mio parere, è verissimo l’assioma numero 1): infatti se non sei sempre presente in Rete tramite post giornalieri/settimanali sul tuo blog, se non indichi ogni giorno il tuo stato fisico e mentale su Facebook, se non scrivi a piè sospinto messaggini idioti/intelligenti su Twitter, nel giro di pochissimo tempo nessuno si ricorderà più di te. I tuoi followers se ne andranno per sempre e tu scomparirai dal mondo virtuale.

Sull’affermazione numero 2) concordo solo a metà. Io aggiungerei questa postilla: il silenzio è anche appannaggio di chi non ha più nulla da dire o raccontare.

Avere poco o niente da raccontare è proprio ciò che sta succedendo a me in queste fredde e piovose giornate di febbraio 2017…

Eppure in giro (sulla carta stampata e nel Web) ci sono persone che, pur non avendo nulla da dire/raccontare, …agiscono diversamente**:

Blocco dello scrittore

Qualcuno è interessato a conoscere perché, trovandomi in queste condizioni, ho deciso di abbandonare WordPress, la piattaforma su cui dal 2011 racconto il mio vissuto?

Il fatto è che si è esaurita del tutto la mia vena letteraria/ironica, quella vena che, tanti anni fa, mi aveva spinto a prendere in mano carta e penna pensando, scioccamente, che potessero interessare le mie esperienze di vita – sia reali sia virtuali – che, nel tempo, avevo trasferito in romanzi, in fumetti umoristici e in un blog sia su questa piattaforma sia su altri social.

Per un lungo periodo, in effetti, è stato così. Qualcuno (pochi o tanti non importa) apprezzava abbastanza ciò che mettevo sulla carta o pubblicavo sul Web e questo mi dava il morale (la spinta giusta) per continuare a produrre elaborati scritti o disegnati. Ultimamente, però, la situazione è cambiata, i miei post non hanno più il mordente di prima e, piano piano, ho perso gran parte dei miei lettori. Guardandomi in giro ho notato che, al pari di me, anche altri noti  blogger sono in difficoltà di ascolto. Lo stesso dicasi per moltissimi scrittori (sia quelli pubblicati da prestigiose case editrici sia quelli che si pubblicano da sé). I loro libri, sfornati al ritmo di uno all’anno, rimangono tristemente invenduti sugli scaffali delle librerie territoriali o virtuali.

Le ragioni di un simile andamento negativo sono mille.

La più importante di queste è la disastrosa situazione economica di questi anni che, di certo, non ha aiutato e non aiuta la fantasia a volare alta. Un’altra ragione è che si pubblicano troppi libri, quasi tutti scadenti. Infine, pur supponendo che esistano testi di valore, a leggerli sono comunque in pochissimi.

Dunque, perché scervellarsi e insistere a pubblicare/postare se i lettori latitano?

Anche la stampa generalista/politica sta messa male. Vi sembra intelligente continuare a mantenere in vita dei quotidiani che vendono solo dieci copie, accumulando di giorno in giorno perdite milionarie?

L’aria che tira invita a piantarla lì, e così, per evitare il rischio di insistere ad annoiare, a partire da oggi, chiudo bottega, regalando questo mio spazio virtuale a chi ha idee ed esperienze nuove da mettere in campo con passione e maestria.

La mia non breve stagione di scrittore/blogger – dunque – termina con quest’articolo.

Lascio, però, in Rete, a disposizione di tutti, i miei 230 lunghi post, 86 video-reportage su YouTube, 3 romanzi, 1 libro di racconti, 2 libri a fumetti.

Colgo anche l’occasione per comunicarvi, con 5 giorni di anticipo, l’assai probabile piazzamento di un mio libro come finalino di coda del concorso letterario su Kobo di cui vi ho parlato ampiamente (con scarsissima audience) qualche settimana fa. Ormai è chiaro che il romanzo Io e Agata non vincerà, ma, fortunatamente non arriverà proprio ultimo, grazie alla buona volontà di otto o nove amici reali e di tre o quattro blogger, amici virtuali, che l’hanno votato lasciando due righe di commento, regalandomi così un piccolo e insperato ritorno di visibilità. Sicuramente sarei arrivato tra i primi se quasi tutti i miei 530 followers non fossero stati in altre ben più importanti faccende affaccendati. Visto che non è andata come speravo, faccio buon viso a cattiva sorte e, serenamente, mi accontento di ciò che ho ricevuto.

Per terminare in bellezza quindici anni da scrittore non professionista e sei anni di permanenza su WordPress, vi presento due aforismi che si legano alla perfezione con il mio attuale umore. Il primo è del Signor Giacomo, mio alter ego:

“La vanità è quel treno fantasma che ti fa credere di essere arrivato quando, in realtà, non sei mai partito.”

Il secondo aforisma* appartiene all’immortale Oscar Wilde:

“L’unico fascino del passato è che è passato”.

E io aggiungo, “sul fascino del futuro chi può pronunciarsi?”.

Anche al Signor Giacomo, in questo momento, le cose vanno abbastanza storte…

FioriDiPlastica

Buona vita a tutti e un grazie di cuore a chi, in questi anni, mi ha donato un po’ del proprio tempo!

Nicola Losito

* Citazione tratta da un articolo di Paolo Conti su Io Donna (supplemento del Corriere della Sera) del 4 febbraio 2017.

** Il fumetto a colori è di G. B. Trudeau, edito in Italia dalla rivista mensile Linus.

Care amiche e cari amici,

come ogni anno, all’inizio dell’estate, metto il mio amato blog in sospensione animata. Sposto, cioè, le mie stanche membra (oggi mi sento in vena poetica…) nella casa di campagna dove mi aspettano diversi lavoretti da espletare prima che il sole con i suoi potenti raggi distrugga il mio bellissimo prato. Faccio questo per mettere a riposo per qualche mese sia la mia mente sia il pc portatile.

Quest’anno soprassiederò anche dall’ormai classico quanto oneroso viaggio all’estero anche perché ho appena fatto una breve ma accurata visita alla nostra Sicilia, isola che non conoscevo affatto. Sono stati nostri compagni di viaggio una coppia di amici siciliani che vivono a Milano ma che, spesso e volentieri, tornano in vacanza, nella loro terra d’origine. Sono stati loro a condurci in alcuni dei luoghi più belli dell’isola e a farci conoscere vita morte e miracoli di questa parte dell’Italia tanto chiacchierata, nel bene e nel male, dalla stampa nostrana e straniera.

Ho portato con me la videocamera e una moleskine nuova di pacca con cui ho filmato e annotato le cose più interessanti che ho visto, con la speranza di condividerle con voi nel prossimo autunno quando riaccenderò i riflettori sul mio blog.

Nell’attesa di incontrarci di nuovo vi lascio in lettura uno dei racconti che amo di più e che ho scritto diversi anni fa su una bellissima quanto misteriosa donna di nome Narcisa, augurandomi che vi piaccia e vi faccia riflettere su alcuni fatti della vita che potrebbero essere davvero successi nella realtà a persone a noi vicine e apprezzate.

Un caloroso abbraccio e un arrivederci a tutti voi.

Nicola

Desiderio

Narcisa

«Oggi devo proprio lanciare le tre monetine…» pensò Narcisa guardandosi con un’espressione disgustata allo specchio del bagno.
Il volto che vedeva riflesso non le piaceva affatto.
Due occhiaie profonde come il canale di Loch Linnhe invecchiavano irrimediabilmente un viso che non molto tempo fa doveva essere stato bello da capogiro.
«Ho solo trentacinque anni, cosa diavolo mi sta succedendo?!»
Era questa la sconsolata domanda che ultimamente si faceva almeno due volte al giorno. I capelli biondi, ormai troppo lunghi sulle spalle, avevano un evidente quanto urgente bisogno di un deciso taglio. Con un movimento automatico della mano prese un elastico di stoffa viola dalla consolle sotto lo specchio e, velocemente, se li legò a coda di cavallo. Il viso, liberato in parte dalle chiome, si avvantaggiò subito della luce dell’ambiente.
«Dieci anni in meno, cara mia!» esclamò riavvicinandosi allo specchio mentre una parvenza di sorriso si stampava sulla bocca, soltanto un attimo prima contratta in una smorfia di sconforto.
In parte rincuorata, iniziò l’abituale igiene mattutina.
Regolata l’acqua alla temperatura di trenta gradi, una doccia prolungata le diede un’altra scossa benefica al morale e un sapone verde, dall’odore deciso e penetrante, tenuto in serbo fino ad allora nella sua lucida confezione di alluminio, di certo regalo di qualcuno di cui non ricordava il nome, aggiunse un inaspettato senso di benessere fisico.
Ora non aveva uno specchio davanti a sé, ma scorrendo il corpo con le mani sentì che la pelle era soda e liscia, che i seni non davano segni di sgradevoli cedimenti e che, grazie a interminabili sedute sulla cyclette, su glutei e cosce, da sempre sue armi vincenti, non c’era la minima traccia di cellulite.
Passando poi dal liquido calore dell’acqua della doccia al ruvido tepore dell’accappatoio, per un attimo chiuse gli occhi e un grosso sospiro si sommò all’aria vaporosa del bagno, segnalando così che quel breve istante di benessere era finito.

«Cosa mi manca per essere felice?» le venne da chiedersi.

Questa domanda, più di quella riguardante il suo attuale aspetto fisico, da tempo le procurava un malessere indicibile.

Si ricordava benissimo quando se l’era fatta per la prima volta.
Stava seduta alla scrivania di mogano intarsiato nel suo ufficio alla Paluzzi Costruzioni S.p.A. e aveva appena ricevuto un pacchettino regalo e una telefonata di congratulazioni dal gran capo. Un suo progetto aveva vinto un premio internazionale e aveva forti probabilità di concreta realizzazione.
«Cos’era quel pacchetto?» si era chiesta, presa da una strana ansia.
Compleanno e onomastico erano lontani e il suo capo non era certo il tipo da fare regali per festeggiare i successi di una dipendente.
Chi poteva aver pensato a lei?
Sulla carta d’imballo c’era scritto, in chiara evidenza, Finzi Gioielli – Milano.
Perché aveva paura ad aprire quell’elegante confezione infiocchettata?
Un cattivo presentimento frenava la sua curiosità e, quasi si trovasse alle prese di un angosciante incubo notturno, non riusciva a decidersi a leggere il biglietto di accompagnamento e a scartare il pacchetto.
Con un movimento automatico della mano, aveva aperto la borsetta che stava sulla scrivania e aveva afferrato le sue amate tre monetine.
Quando percepiva che qualcosa non filava nel verso giusto, toccarle era un’ancora di salvezza. Ogni volta le interrogava sulla via da seguire e loro riuscivano sempre a indicargliela.
Ora non si trovava davanti a un bivio, non aveva scelte esistenziali da fare, eppure sentiva che, in quel preciso istante, aveva bisogno del loro aiuto.
C’era un cattivo pensiero da scacciare dalla mente.
«Forza Narcisa deciditi! Cosa ci vorrà mai?»
Di guerre ne aveva combattute tantissime e il conteggio tra vittorie e sconfitte, era di certo a suo favore.
Forza, forza!
Il calore del metallo stretto nella mano, di colpo, si era trasformato in energia e le aveva dato la forza necessaria per procedere.
Con fare ormai deciso aveva estratto dalla busta il bigliettino e aveva iniziato a leggerlo.

Cara Narcisa,
stavolta non voglio usare parole mie. Gli addii sono sempre difficili e penosi e perciò vado a prestito. Per correttezza avrei dovuto citare l’autore, ma sul sito da dove ho scaricato la poesia c’era mistero al riguardo.
Sembra scritta proprio per te.

Il rabbino consulta il pescecane
secondo la Torah e il rituale:
“Dimmi oh caro
dimmi perché fai il male?”
Quello sospira come troppo gli pesasse
e intanto osso ad osso se lo scarna
“Non ho colpa.
In me il tuo dio s’incarna.”

Spero che tu capisca e mi capisca.

Marco

«Ecco, questo sì che è un bel modo di piantare una donna! Se avesse scritto soltanto stronza certamente non avrebbe avuto lo stesso effetto!» aveva pensato Narcisa, piena d’amarezza.
«Come al solito ha voluto strafare…»
A quel punto mancava solo di aprire il pacchetto. Con mani nervose aveva strappato il nastro e la carta da regalo. Dalla scatolina imbottita era uscito un pescecane stilizzato in argento. Decisamente stupita, per alcuni minuti, era rimasta attonita a osservarlo.
«Ah, così io sarei lo squalo che mangia le sue vittime…» aveva alfine mormorato, piena di stizza.
No, non si riconosceva assolutamente in quel ritratto dipinto dagli occhi di Marco.
«Non ho mai mangiato gli uomini, io! Caro Marco, tu non mi hai mai capito…»
A ben vedere, se cattiveria c’era stata nella ricerca del regalo di addio, qualcosa non aveva funzionato. La cura dell’artista nel realizzare il pescecane con le branchie dipinte di marrone sull’argento lucente rendevano l’oggetto molto attraente, una vera delizia per gli occhi.
A ferirle il cuore e la mente erano l’anonima poesia e i pensieri che le scatenavano in testa ogni volta che la leggeva e rileggeva.
«Sant’Iddio, quell’imbecille di poeta non poteva cercare un verbo meno odioso di scarnare?»
Narcisa non solo mangia gli uomini, ma li scarna osso per osso!
Ma io ti amavo Marco e non mi sono mai saziata di te…
Finora a tutti i suoi uomini era piaciuto entrare e uscire dal suo letto.
Perché Marco non l’aveva apprezzato?
D’accordo, mille volte Marco aveva detto che nel suo letto lui si voleva fermare.
Perché Marco non ha capito che ciò non era possibile?
Era stata chiara sin dall’inizio e lui lo sapeva.
Per lei amore e libertà dovevano sempre restare due cose ben distinte.
L’amore, il sesso, sì perfetto, ma poi ognuno a casa propria!
Perché adesso glielo faceva pesare con così tanta acrimonia?
Scarnare…
Oh che sgradevole poesia!
Quel brutto giorno, tristezza e apatia le erano entrate così a fondo nella mente e nel corpo da toglierle persino la forza di odiare chi l’aveva così malamente scaricata.

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Cosa le mancava per essere felice? ripeté ancora a se stessa.
Non certo gli uomini. Un fischio e poteva averne quanti ne voleva…
Non certo il successo. Era apprezzata e temuta sul lavoro. Una donna dirigente a trentacinque anni in una società di soli uomini non era mica uno scherzo!
E allora?
Poteva contare su tanti amici e amiche che accorrevano a ogni suo squillo e lei stessa sapeva donarsi agli altri senza farlo mai pesare.
Eppure da qualche tempo qualcosa in lei si era guastato e Marco col suo benservito gliel’aveva fatto notare col massimo della brutalità.

L’aria dattorno si era raffreddata, l’effetto benefico della doccia era ormai del tutto vanificato. Doveva sbrigarsi se non voleva beccarsi un raffreddore. Un po’ di trucco agli occhi bastava per affrontare la sua prima domenica da single. Stava quasi per uscire dal bagno quando un’occhiata alle unghie la convinse a tornare sui suoi passi.
«Non posso interrogare I Ching con le mani così in disordine!» disse a se stessa.
Aprì l’armadietto appeso al muro. In bella vista c’erano dieci bottigliette colorate che aspettavano solo la sua scelta. La prima, al color nero seppia, era affiancata a una blu, poi a una verde seguivano sette diverse tonalità di rosso. L’ultima, dal color rosa pallido, non l’aveva mai aperta.
Oggi era proprio la giornata adatta per iniziarla. Così facendo avrebbe affrontato con umiltà l’appuntamento con l’oracolo.
Tutto doveva essere predisposto per ascoltare con dignità e compostezza il responso dell’antica saggezza cinese.
Per i suoi amici I Ching (La Legge) erano un gioco di società, stupido come poteva essere stupida la lettura dell’oroscopo. Per lei invece rappresentavano la filosofia della vita a cui aggrapparsi. Erano la sua religione, la sua guida spirituale e tutte le volte che aveva domandato, aveva ricevuto la giusta risposta.
In dieci minuti riuscì a stendere lo smalto sulle unghie e, una volta seccato, corse in camera a indossare un abito comodo.
Era pronta ad affrontare una nuova sentenza.

Dalla borsetta estrasse le tre monetine e stringendole nella mano come se dovesse comunicare a loro il suo attuale umore, si diresse verso lo studiolo attrezzato per quando si portava il lavoro a casa. Liberò il piano della scrivania dal portatile e dall’ultima relazione ai soci dello studio e, su un foglio di carta bianca, depose le monete. Dalla libreria estrasse i suoi tre libri di riferimento: “Come consultare I Ching” di Alfred Douglas, in edizione economica Bur del 1976, “I Ching” di Paola Mariani e Patrizia Meanti in edizione cartonata Mursia e infine, il più prezioso, la traduzione in lingua inglese dei “I Ching” curata da Lao Hai–hsuan, regalo del suo ultimo viaggio in Cina.
Seduta alla scrivania, con grande solennità e serietà iniziò la procedura, ricordando a se stessa che le antiche regole assegnavano il valore 2 alla stessa faccia di ognuna delle tre monete (verso yin) e, alle facce opposte, il valore 3 (verso yang). Prima di lanciare contemporaneamente le tre monete con la mano destra, formulò mentalmente la sua richiesta all’oracolo e poi la mise anche per iscritto. La domanda era chiara e definitiva:

«Da domani cosa devo fare della mia vita?»

Per costruire l’esagramma con cui interrogare I Ching, lanciò per sei volte le monete trascrivendo sul foglio con la sua penna stilografica dall’inchiostro verde il risultato numerico dei singoli lanci. A ogni sequenza, somma dei numeri 2 e 3, associò il corrispondente simbolo grafico: una linea spezzata mobile se la somma era 6, una linea intera mobile se la somma era 9, una linea intera fissa se la somma era 7 e infine una linea spezzata fissa se la somma era 8.
Con la combinazione da lei trovata, unica tra le 64 possibili, individuò, in uno dei tre libri che aveva sulla scrivania, la pagina dove era scritta la risposta alla sua domanda.

Lesse più e più volte le poche righe che l’oracolo cinese aveva preparato per lei. Infine prese un nuovo foglio di carta e con studiata lentezza ci scrisse sopra a penna tutto quello che da domani avrebbe dovuto fare della sua vita.

Il giorno dopo, lunedì 26 febbraio 2007, Narcisa si alzò molto prima dell’alba.

Non fece colazione ma spese più di un’ora per mettere in perfetto ordine ogni angolo della casa. Quando si ritenne soddisfatta, si vestì di tutto punto decisa a uscire. Arrivata nei pressi della porta di colpo si fermò. Come assalita da un improvviso furore tornò in camera da letto e da un cassetto dell’armadio a muro estrasse la trousse argentata con chiusura a cordoncino che usava sempre nei suoi viaggi in giro per il mondo. Andò poi in bagno, raccolse il sapone verde con il suo contenitore di alluminio, il fermacapelli elastico viola e la bottiglietta di smalto rosa per le unghie. Dalla borsetta estrasse la stilografica e le tre monetine. Da sopra il trumò del soggiorno afferrò il pescecane d’argento e per un istante se lo avvicinò al petto.
Con quei sette oggetti nelle mani andò in cucina e si sedette pensierosa a tavola.
Per un tempo indefinito e in silenzio li rimirò e accarezzò tutti, uno a uno, più e più volte.
Poi aprì la trousse, con mossa lenta vi ripose gli altri sei oggetti, la richiuse stringendo con forza il cordoncino azzurro e la depose al centro del tavolo, proprio sopra al foglio dove il giorno precedente aveva scritto il responso dell’oracolo. Infine si alzò con gran fatica dalla sedia, diede un’ultima lunga occhiata attorno a sé e, a passi decisi e senza più voltarsi indietro, uscì di casa.

Fuori era ancora buio.
L’aria era fredda e il tempo non prometteva niente di buono.
Narcisa quel giorno di fine inverno non prese come sempre la sua auto.

Fine

Crediti: le immagini le ho scaricate da Internet presupponendole prive di copyright. In caso contrario, prego gli autori degli scatti di farsi vivi in modo che io possa indicare i loro nomi nel post. Per approfondire meglio il discorso su I Ching vi consiglio di guardare su Internet la seguente Guida.

Chi segue questo blog con una certa regolarità, sa già che, avendo deciso di dire addio alla scrittura impegnata, quella seria, onerosa, quella che mi spinse in passato a produrre racconti e romanzi passati quasi del tutto inosservati dal pubblico e dalla critica,  da circa un anno non scrivo più niente e sto dedicando le energie che mi restano a cercare motivi di allegria nel mondo che ci circonda. In realtà, visti i tempi orribili che corrono, faccio fatica a trovare argomenti su cui sorridere e far sorridere la gente. Dunque, ancora una volta ho scelto una strada non facile da seguire. Per fortuna, nella mia testa, accanto al pessimismo dei pensieri c’è una vena umoristica/ironica che resiste strenuamente ai colpi e ai contraccolpi della realtà ed è proprio questa che mi salva dal malessere che vedo in giro e che, di tanto in tanto, colpisce anche me. Si tratta, in definitiva, di un Terzo Occhio che vede solo il lato buono/comico della vita e che, da oggi in poi, voglio condividere con gli amici e le amiche che mi vengono a trovare settimanalmente in Rete.

La prima cosa che mi viene in mente adesso è quella di sfatare la cattiva fama che pesa su un certo tipo di donna: la suocera. Lo faccio raccontandovi i pensieri di una gentildonna della buona borghesia milanese che incontra per la prima volta un pretendente della figlia, pensieri che misi su carta una decina di anni fa durante un corso di scrittura creativa.

Suocera Anzi Tempo 

Una suocera “anzi tempo”

Su sollecitazione di mia figlia Chicca, gli avevo dato appuntamento per le quattro del pomeriggio di una domenica di gennaio. Era la prima volta che succedeva e morivo dalla voglia di conoscerlo. Ero incuriosita ma, allo stesso tempo, preoccupata dalle mie reazioni. Un errore che a ogni costo dovevo evitare era di fare la suocera prima ancora di esserlo.
"Mamma, Nicola è solo un caro amico!" aveva sempre sottolineato mia figlia. Il suo comportamento stralunato e sognante delle ultime settimane, però, raccontavano ben altro.
Alle quattro spaccate il giovanotto suonò il campanello.
Un punto a suo favore: mai fare aspettare una signora!
Ad aprire la porta avevo mandato la domestica. Un mio piccolo trucco per dargli il tempo di prendere fiato e riordinare le idee mentre raggiungeva il salotto.
"Piacere di conoscerla" disse.
Una frase di circostanza che pronunciò con un sorriso accattivante e un accenno di deferenza del capo, mentre mi stringeva la mano.
Uhmm, non male… pensai tra me e me.
L’amico della mia figliola indossava un abito scuro di buon taglio che lo slanciava e metteva in evidenza un fisico asciutto e signorile. Non altissimo, aveva però la statura giusta per Chicca.
Già me li vedevo sulla rossa passatoia della Chiesa della Passione. Sì proprio una bella coppia!
Stavo divagando alla grande e questo non era assolutamente il momento. Dopo averlo fatto accomodare in una poltrona di fronte a me, partii con l’interrogatorio.
"Come si trova qui a Milano?" chiesi.
"Spaventato. Bologna al confronto sembra un paesino!"
"A parte le dimensioni della città, come trova i milanesi?"
La mia domanda l’aveva fatto sorridere.
"A dire la verità l’unica persona che conosco qui è Chicca! I miei trenta colleghi del corso di informatica vengono da ogni angolo d’Italia, ma di Milano non ce n’è nemmeno uno! Quando ne scoprirò un altro, le sarò più preciso…"
Spiritoso il ragazzo e che sorriso disarmante! Ora capisco perché sia piaciuto a mia figlia…
Sotto i baffi alla Gengis Khan nascondeva astutamente una dentatura irregolare. A ben vedere, però quei suoi dentoni erano in perfetta sintonia con tutto il resto della faccia. Se fossero stati piccoli e diritti sono sicura che avrebbe perso buona parte della simpatia che gli sprizzava fuori parlando. Per niente imbarazzato dall’essere sotto esame, rispondeva sempre a tono, anzi spesso era lui che tentava di condurre il gioco.
Ah, i giovani d’oggi! Se penso a come era stato formale e ossequioso il mio Mario quando si presentò da mammà…
"Quali sono i suoi progetti futuri?" chiesi.
La domanda incauta mi era scappata troppo presto. Comunque, prima o poi dovevo fargliela.
"Molto dipenderà dall’esito del corso che sto seguendo. Se mi assumeranno e risulterò ben piazzato nella graduatoria di merito, avrò la possibilità di indicare la sede di lavoro che preferisco."
"Sono sicura che lei supererà brillantemente il corso. Ma se già adesso potesse scegliere, per quale città opterebbe?"
"Bologna sarebbe l’ideale. Non perché sarei vicino alla mia famiglia, ma perché Bologna è ancora una città a misura d’uomo e lì ho amicizie che risalgono all’infanzia. Purtroppo nel contratto di assunzione c’è scritto che non si può avere come sede la località di provenienza. Dovrò perciò scegliere un’altra destinazione."
"E cosa ne dice di Milano? La prego, non mi risponda che questa città piace solo a noi milanesi!"
"Ultimamente ho conosciuto una bella signorina di Milano e chissà, forse, potrei anche farmi piacere questa bruttissima città!"
Era poi scoppiato in una risata così coinvolgente che Chicca e io ne fummo contagiate. In pochi minuti e con poche parole il giovanotto aveva riempito la nostra casa di allegria.
Sì, l’amico di mia figlia non era davvero male!
Questo però non mi bastava: dovevo assolutamente scoprire se aveva dei difetti.
"Quindi lei è di origine bolognese?" domandai, giusto per avere una conferma.
"Chicca non gliel’ha detto? Io sono pugliese di famiglia, sono un terrone, come dite voi…"
Nel salotto tutto in stile ‘900, con alle pareti antichi quadri di pittori di scuola fiamminga, ci fu un momento di silenzio imbarazzato. Il giovanotto aveva pronunciato quella frase con estrema serietà. I suoi occhi fissavano i miei con ferma attenzione. Capii che aspettava la mia reazione, qualunque essa fosse. A me non andava di infierire e poi il fidanzato in pectore di mia figlia cominciava veramente a piacermi.
"Beh, nessuno è perfetto! – gli dissi sorridendo apertamente e continuai – Venga, Nicola. Si sieda qui sul divano accanto a me e mi racconti un po’ del suo paese…"

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Crediti: l’immagine l’ho prelevata da Internet supponendola libera da copyright. Il breve racconto, evidentemente, è un omaggio a mia suocera, una persona a cui ho voluto bene e che ha sempre contraccambiato il mio affetto.

Felicità - Lennon

Prendo spunto dal bel pensiero di John Lennon nell’immagine di apertura del post e dal titolo di un noto film spagnolo dell’anno scorso (Stella) per fare qualche breve divagazione sulla vita e per chiedermi e chiedervi:

“E’ possibile oggi vivere facile?”

Rispondo prima io, perché, avendo una certa età (sì, lo so che è un eufemismo per non dire che sono vecchio…) questa domanda non mi assilla più come quando ero giovane e pieno di speranze. Allora inseguivo la felicità, pretendevo la facilità dell’agire, e ci rimanevo male quando, il più delle volte, mi scontravo con la dura realtà dell’esistenza. Però, per mia fortuna, qualche volta le cose giravano nel verso giusto e allora, per qualche tempo, ero felice e vivevo facile. E’ successo quando, da bambino, per tre mesi lasciavo la grande città e partivo per le vacanze in Puglia nella casa di campagna dei nonni, dove mi aspettavano i cugini. Ho fatto salti di gioia e tutto scorreva liscio ogni volta che finiva la scuola e tornavo a casa con la promozione in tasca. Ho brindato, colmo di orgoglio e felicità, quando mi sono laureato e quando, dopo pochi mesi, ho trovato un buon lavoro a Milano, quando mi sono sposato, quando sono nati i miei tre figli, quando sono entrato in pensione e ho potuto dedicarmi alle cose che piacevano a me. Eccetera, eccetera.

Tra una felicità, piccola o grande, e una conseguente facilità di vita, però, ho avuto momenti bui, momenti in cui ho temuto che il mondo mi crollasse addosso, momenti in cui la paura di non riuscire a vedere l’alba di un nuovo giorno era così forte da costringermi a far di tutto pur di non darla vinta alla nera signora con la falce che era in attesa dietro la porta di casa…

Penso, comunque, di avere vissuto una vita uguale o simile a quella di milioni di altri esseri umani che hanno calpestato le strade di questo mondo: una vita con alti e bassi quasi tutti nella norma, con qualche picco positivo o negativo, di tanto in tanto. Oggi, che non nutro più grandi aspettative per il futuro, mi limito ad accontentarmi se la mattina riesco a svegliarmi e sono felice se, dopo un breve rodaggio, sono ancora in grado di essere autosufficiente e posso dedicarmi, grazie anche alla pazienza di mia moglie, alle attività che mi danno un minimo di soddisfazione. In altre parole, per quanto riguarda il mio microcosmo, posso dire di stare vivendo una vita abbastanza facile.

Guardandomi in giro, però, ho come la sensazione di sbagliare. Con il mio pensare soltanto a me stesso, disinteressandomi (o interessandomi poco) di ciò che avviene fuori casa, è come se vivessi a occhi chiusi l’autunno della mia esistenza. Perché li tengo chiusi? Perché il mondo nel 2016 non mi piace, perché mi schifa la politica politicante di questi anni: il modo odierno di governare la cosa pubblica da parte dei vari partiti (nessuno escluso) mi ha disgustato in un recente passato e mi disgusta ancora di più adesso. Se guardassi davvero intorno a me, dovrei andare sulle barricate per difendere il futuro dei miei figli e dei giovani in generale. Ma sono troppo vecchio e stanco per combattere contro mostri che mi mangerebbero in un sol boccone. Non so se la mia sia indolenza, ignavia o solo convinzione che protestare oggi non porti a nulla: quel che è certo è che, se aprissi davvero gli occhi, ci sarebbe ben poco da ridere.

Questo è quanto. Ora tocca a voi fare le vostre riflessioni.

Nicola

La vita è facile ad occhi chiusi

Stella Il titolo del film spagnolo uscito in Italia nel 2015 è Vivir es facil con los ojos cerrados (Vivere la vita ad occhi chiusi) di David Trueba con Javier Càmara, Natalia Molina e Francesco Colomer. A me il film è piaciuto moltissimo e, se avete occasione, andatelo a vedere, vi divertirete e vi commuoverete. Dal sito MYmovies.it copio la trama e la recensione:

“1966. Antonio insegna inglese in una scuola retta da religiosi. Per favorire l’apprendimento dei suoi giovani studenti (e anche perché è un fan dei Beatles) utilizza le canzoni dei Fab Four per invogliarli a studiare la lingua e a tradurre. Quando viene a sapere che John Lennon si trova in Almeria per girare un film, decide di cercare di incontrarlo perché le sue canzoni che ha ascoltato alla radio e che lui stesso ha provato a tradurre hanno dei versi che gli suscitano delle perplessità. John, di sicuro, sarà in grado di dirgli se ha commesso errori nelle traduzioni. Lungo la strada il professore incontra due giovani autostoppisti. Prima si imbatte in Belen, una ragazza incinta che è scappata dall’istituto in cui era stata rinchiusa e poi in Juanjo, un sedicenne che si è allontanato dall’abitazione in cui vive con i genitori e con cinque fratelli perché non sopporta più la rigidità educativa del padre poliziotto. Sarà insieme a loro che il professor Antonio cercherà di coronare il suo sogno di incontrare John Lennon.

Per questo film che ha collezionato ben 6 Premi Goya (che costituiscono l’equivalente iberico dei David di Donatello), il regista David Trueba, che all’epoca non era ancora nato, si è ispirato alla storia vera del professore di inglese Juan Carrión che incontrò John Lennon sul set del film di Richard Lester Come ho vinto la guerra e al quale chiese chiarimenti sui testi delle canzoni. Dopo quell’incontro (e forse grazie ad esso) gli LP realizzati dai Beatles riportarono sempre i testi delle loro canzoni. Trueba, coadiuvato dalle ottime prestazioni dei suoi interpreti, ricostruisce con grande tenerezza quella situazione, mostrando tre solitudini di età diversa che sono alla ricerca non solo di John Lennon ma anche (e soprattutto) del senso della loro esistenza. Un’esistenza che è costretta a tentare di tracciare nuove strade sotto la cappa soffocante del franchismo.

La strofa, inclusa nella canzone dei Beatles "Strawberry Fields Forever" (Life is easy with eyes closed), rappresenta perfettamente la condizione esistenziale in cui la dittatura aveva costretto gli spagnoli. Era molto meglio non vedere (o, peggio ancora, fingere di non vedere) gli schiaffi dati agli allievi a scuola o le cariche della polizia al minimo tentativo di manifestazione popolare, fare cioè quello che avevano dovuto fare anche i venerati Beatles quando avevano suonato dinanzi al Caudillo Francisco Franco.

Senza mai perdere il senso della misura, senza mai gridare ma con un solido senso della dignità e con una semplicità che ne connota le azioni, il professor Antonio offre una lezione di civismo e di civiltà ai due ragazzi, non limitandosi però solo a insegnare ma anche offrendogli la sua disponibilità all’ascolto. Rivelandogli solo alla fine il segreto di quale sia il soprannome che i suoi allievi hanno affibbiato a un docente che ha insegnato loro che qualche volta nella vita è necessario chiedere Help!”.

Alla prossima!

Crediti: le due immagini che corredano il post le ho scaricate da Internet, supponendo che siano libere da copyright.

Per quei pochi amici che non conoscono il latino e, per introdurvi subito nell’esprit lieve del post odierno, questa potrebbe essere la traduzione del titolo: Tota erras via = Non ne imbrocchi mai una.

Per evitare equivoci, la persona che non ne ha mai azzeccata una in vita sua sono io. Vogliamo brevemente approfondire questo discorso?

A detta di molti ero nato con il numero necessario e (forse) sufficiente di neuroni per poter studiare e riuscire facilmente a laurearmi nei dovuti tempi. Ma qual è stata la facoltà universitaria che scelsi alla fine del liceo scientifico? Optai per Ingegneria Elettronica, cioè una branchia scientifica, quando in realtà io amavo tantissimo leggere e scrivere, dal momento che, più che divertirmi con i numeri, la mia mente viaggiava spesso e volentieri nel variegato mondo della fantasia.

Errare Umanum Est

Dopo una lunga, onesta, quanto anonima carriera in un mondo lavorativo dove è  importante saper usare più le mani che il cervello (o al più, dove il cervello è usato in massima parte per guidare le mani e le gambe), una volta entrato in pensione, ho creduto di potermi finalmente dedicare, anima e corpo, a quella che supponevo fosse la mia vera attitudine, cioè affrontare con gioia e intima soddisfazione il mondo letterario. Per mia libera scelta ho speso un certo numero di anni della terza età scrivendo libri che avrebbero dovuto regalarmi – in vecchiaia – quella fama che mi era stata negata in gioventù per colpa di un’errata valutazione delle mie effettive capacità mentali.

Niente di più sbagliato.

La tanto agognata fama letteraria non è arrivata, così, dopo alcune cocenti delusioni, ho scoperto che, in realtà, avevo avuto maggiori soddisfazioni a praticare l’ingegneria piuttosto che passando le mie senili giornate a scrivere libri che, pur avendo un certo intrinseco valore, ben pochi avrebbero mai letto. Ciò significa che, ancora una volta, non ne avevo imbroccato una, pur conoscendo a memoria le geniali dritte di quest’antico volume che troneggia nella mia biblioteca:

Infallibilità

Un altro grosso errore della mia vita è stato l’avere creduto (e sostenuto) di essere un fine psicologo, cioè un uomo in grado di capire immediatamente la personalità della gente con cui entravo in contatto e di intuirne, in anticipo, mosse e contromosse. In realtà quelle persone agivano in un modo  – quasi sempre – diverso da come avevo supposto io.

Cioè anche in questo caso ho sbagliato tutto.

Alla mia età, non essendo possibile tornare indietro, è arrivato il momento di dare un’ultima chance a me stesso. Dal 2016 in poi intendo passare il tempo che mi resta godendomi la vita senza pensare più in grande, affrontando in allegria qualsiasi iniziativa che la mia feconda mente voglia, da oggi in poi, escogitare. Sbagliato o giusto, sciocco o intelligente ciò che farò in futuro, da parte mia non ci saranno recriminazioni o pentimenti. Ci riuscirò a comportarmi con così tanta libertà di pensiero?

Beh, comunque provarci non costa nulla.

Termino questo mio pistolotto d’inizio d’anno raccontandovi cosa è successo mentre festeggiavo con amici di vecchia data l’arrivo del 2016: ai primi fragorosi petardi scoppiati allo scoccare della mezzanotte, il cane di una mia simpatica ospite ha fatto un’enorme cacca nell’ingresso del mio appartamento.

Quanto è accaduto significa che nel 2016 avrò grande fortuna o, al contrario, sarà un anno di m… ?

Visto che finora sono stato uno che tota erras via… non mi azzardo a fare previsioni. Vada come vada, vi chiedo una gentilezza:

Non dare consigli1

A spingermi a questo importante cambio di vita è stato un fantastico pensiero di Confucio: “Quando incontrerai qualcuno persuaso di sapere tutto e di essere in grado di fare tutto, non potrai sbagliare: costui è un imbecille.”  Sorriso A bocca aperta Occhiolino

Buon e allegro 2016 a tutti!

Nicola

 

 

Giorni fa, sul Corriere della Sera, in occasione dell’anniversario della caduta del muro di Berlino, ho letto un bellissimo discorso di Murakami, il mio scrittore preferito, e non ho resistito all’impulso di condividerlo con gli amici che seguono il mio blog. Leggetelo anche voi, dice cose su cui tutti dobbiamo riflettere. Alla fine, ne sono sicuro, verrà spontaneo chiedervi: qual è il mio muro di Berlino?

Nicola

Murakami Haruki

Il mio muro di Berlino

È passato un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino. Quando visitai per la prima volta Berlino nel 1983, la città era ancora divisa in zona Est e Ovest. I turisti potevano visitare Berlino Est, però dovevano passare attraverso numerosi posti di blocco ed erano tenuti a lasciare la zona entro la mezzanotte. Al rintocco della campana, come Cenerentola che abbandona il ballo. In quell’occasione andai a vedere «Il Flauto magico» al Teatro dell’Opera di Berlino Est, con mia moglie e un amico. La messa in scena e l’atmosfera del teatro erano meravigliosi. Ma atto dopo atto le lancette dell’orologio si avvicinavano sempre più alla mezzanotte. Ricordo che ci precipitammo al Checkpoint Charlie e che riuscimmo ad arrivare appena in tempo. Fu comunque la rappresentazione del «Flauto magico» più emozionante della mia vita.

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Il sollievo non durò a lungo

Quando ritornai a Berlino, il Muro non c’era più. Mi ricordo ancora la gioia che provai quando cadde nel 1989. «La Guerra Fredda è finita», pensai, come probabilmente moltissimi altri in tutto il mondo. «Davanti a noi si profilano tempi migliori e più sereni». Purtroppo il sollievo durò poco. Guerra in Medio Oriente, nei Balcani, un attentato terroristico dopo l’altro e, nel 2001, l’attacco al World Trade Center a New York, per cui crollarono tutte le nostre belle speranze. Per me come scrittore, i muri sono sempre stati un tema importante. Nel mio romanzo «La fine del mondo e il Paese delle meraviglie» rappresento una città immaginaria circondata da alte mura da cui non si può fuggire, una volta entrati. Nel romanzo «L’uccello che girava le Viti del Mondo» il mio eroe, dal fondo di un pozzo, riesce ad attraversare le mura e raggiungere un altro mondo. Il mio discorso di ringraziamento in occasione del conferimento del «Premio di Gerusalemme» si intitolava «I muri e le uova». Era sulla durezza dei muri, contro cui ci infrangiamo, fragili come uova. In quello stesso momento a Gaza erano in corso scontri violenti, e mi chiesi se saremmo stati sempre impotenti di fronte a questi muri.

I muri sono un sistema di potere

Per me i muri sono un simbolo di ciò che separa gli uomini dai sistemi valoriali. Limitano, schermano, isolano. In certi casi possono anche proteggerci. Però per proteggerci, dobbiamo escludere quelli che si trovano dall’altra parte del muro – questa è la logica dei muri. All’improvviso diventano un sistema rigido, che si oppone alla logica di altri sistemi, spesso con la forza. Il Muro di Berlino era un esempio lampante di questa dinamica. A volte mi sembra che abbattiamo un muro per erigerne un altro altrove. Può essere un muro fisico o invisibile, che condiziona il modo di pensare. Alcuni muri ci proibiscono di andare avanti, altri muri ci limitano. Finalmente un muro è caduto, il mondo è cambiato, tiriamo un respiro di sollievo. Eppure, improvvisamente da qualche parte è già sorto il prossimo muro. Un muro etnico, religioso, un muro dell’intolleranza, del fondamentalismo, un muro di avidità e paura. Non riusciamo a vivere senza un sistema fatto di muri? Per noi scrittori i muri sono vincoli da spezzare. Non facciamo che questo con le nostre storie – metaforicamente parlando -. Scavalchiamo i muri che separano il reale dall’irreale e la consapevolezza dalla mancata presa di coscienza. Scopriamo il mondo al di là del muro, torniamo di qua e raccontiamo dettagliatamente quanto abbiamo visto, senza pretendere di giudicare il significato del muro o dei suoi pro e contro. Non facciamo altro che rappresentare precisamente quello che appare dall’altra parte. In questo consiste il lavoro quotidiano di uno scrittore.

 
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Anche le storie superano i confini

Se uno legge una storia che arriva al cuore e lo tocca in modo particolare, può succedere che sfondi il muro insieme all’autore. Ovviamente, quando chiude il libro si ritrova fisicamente più o meno ancora nello stesso posto in cui era all’inizio della lettura. Se si è mosso, al massimo dieci o venti centimetri più in là. La realtà fisica non è cambiata e non è stato risolto alcun problema concreto. Eppure il lettore ha la sensazione distinta di aver sfondato un muro spesso, di essere stato al di là e tornato al di qua del muro. Ha l’impressione di essersi mosso fisicamente dal suo punto di partenza, quand’anche di soli dieci o venti centimetri. Per questo sono convinto che questa esperienza fisica sia la cosa più importante nell’atto della lettura. Percepisce la sensazione di essere libero, di potere andare dove vuole passando attraverso tutti i muri. È mio grande desiderio scrivere possibilmente romanzi e racconti di questo tipo, e di condividerli possibilmente con molte persone. Ovviamente i problemi che affliggono il mondo non possono essere risolti attraverso una simile consapevolezza comune. Purtroppo la letteratura non ha un impatto così diretto. Ma disponiamo del potere dell’immaginazione, come cantava John Lennon. Anche se ci sembra impotente di fronte a una realtà cinica e prepotente, ci mette in condizioni di immaginarci un mondo distinto da quello attuale. La forza della fantasia, che tutti hanno, ci dà la forza serena e inesauribile di continuare a cantare e scrivere storie, senza farsi scoraggiare. La capacità di immaginarsi vividamente un mondo senza muri in un mondo di muri, in certi casi, si traduce quindi in realtà. Credo che le storie abbiano questo potere. E non c’è luogo più ideale di Berlino 2014 per riflettere ancora una volta su questo potere. Vorrei mandare questo messaggio ai giovani di Hong Kong che in questo momento combattono contro il loro muro.

(Discorso di ringraziamento per il «Welt-Literaturpreis», traduzione di Ettore Claudio Iannelli)  © Die Welt
Le foto e il testo li ho estratti dal Corriere online.

jet lag (Pastor Cartoon)

Jet lag

Oggi voglio fare del terrorismo psicologico – giusto per scherzare un po’ – per mettere sull’avviso tutti coloro che amano viaggiare in paesi lontani, ma che, come me, hanno un fisico così così…

Ok, chiarisco subito che col viaggio in Cina (presto inizierò a raccontarlo) questo post c’entra come i cavoli a merenda, però la Cina interviene colpevolmente per il fatto che è una terra TROPPO lontana dall’Italia. Per raggiungerla, infatti, occorre prendere – minimo – due aerei ma, soprattutto, dopo il grande affaticamento del fascinoso tour attraverso quest’esotico paese, bisogna, per forza, tornare a casa ed è proprio in questo frangente che possono comparire gli effetti malefici del jet lag.

Domanda stupida: perché solo al ritorno del viaggio, avviene questo fenomeno? 

Semplice, all’andata (è l’8 ottobre 2014, ore 14 italiane), siamo tutti belli, freschi, riposati, pieni d’entusiasmo per la vacanza e, pur andando incontro a:

1) 6 ore di volo Milano-Dubai, l’orologio viene portato avanti di due ore rispetto all’ora italiana. Ore 22 locali. Percorsi 4713 km.

2) Sosta di 5 ore all’aeroporto di Dubai (tra parentesi, trattasi di costruzione spettacolare, con marmi, luci, negozi extra-lussuosi, tutto qui lascia a bocca aperta e, ovvio, ogni piccola cosa costa più del dovuto) dove gli emiri, soddisfatti del risultato scenografico, non badano a spese anche sull’aria condizionata, che io odio.

3) Alle 3.00 di Dubai parte il volo per Hong Kong. Dopo circa 9 ore in cielo e un fottio di kilometri, arriviamo a destinazione: l’orologio locale segna le 17,20. In Italia, invece, sono le 11,20, cioè qui è tardo pomeriggio, mentre in patria è mattina inoltrata. Portiamo ancora avanti l’orologio di 6 ore. Se non ho sbagliato i calcoli, il nostro ormai rodato meccanismo biologico viene spostato in avanti di 8 ore. In pratica, in Cina, noi italiani scambiamo quasi il giorno con la notte…

in realtà non succede quasi nulla. Arrivati in Cina, l’organismo di chi ha affrontato la lunga trasferta aerea ha sopportato benissimo i punti 1), 2), 3). Nessuno lamenta problemi di jet lag. All’aeroporto di Hong Kong abbiamo sbrigato le solite formalità, incontrato la guida, una simpatica signora cinese di nome Mabel – italiano parlante – e, infine, siamo saliti su un bus che, in 45 minuti, ci ha scaricato nell’ottimo Hotel Regal Kowloon Metropark a Hong Kong.

I guai da jet lag, per me, sono iniziati a Shanghai il 22 ottobre, alla vigilia del finale del lungo e piacevole tour che ci ha portato a visitare bellissimi posti – purtroppo – lontani fra loro migliaia di chilometri. Quel giorno, dopo avere preparato e caricato armi e bagagli sul bus a nostra disposizione, da Shanghai abbiamo raggiunto Suzhou – la Venezia cinese – percorrendo circa 85 km. di autostrada. Per tutta la giornata abbiamo scarpinato, ammirando le bellezze di questa città di più di 10 milioni di abitanti e, infine, a sera, ci hanno portato direttamente all’aeroporto di Shanghai. Espletate le solite formalità d’imbarco, abbiamo sostato alcune ore in un gate perché il volo verso Dubai partiva a mezzanotte passata. L’aeroporto di Shanghai è nuovo e, ovviamente, è dotato di aria condizionata erogata alla massima potenza. Comincio a sentire freddo anche se sono abbastanza coperto, forse c’entrano la stanchezza accumulata durante l’intensa giornata passata a Suzhou e la saturazione alimentare causata da due infelici pasti di modesta cucina cinese (sul cibo parlerò in un apposito post). Salendo in aereo ho già un pizzicorino in gola, partono alcuni starnuti e si manifestano le prime avvisaglie di un malessere alla pancia…

Appena l’aereo dell’Emirates Airlines parte (gli emiri hanno solo velivoli nuovissimi con l’aria condizionata a palla) le splendide ed efficienti hostess (non sto scherzando!) ci propinano la cena. La vista di quel miscuglio di roba cinese, preconfezionata chissà dove, mi fa venire subito il voltastomaco. Corro in bagno per la prima volta e, da quel momento, inizia il mio calvario personale che durerà imperterrito per tutte le ore che occorrono per raggiungere Dubai. Nel frattempo mia moglie e tutti gli altri componenti del gruppo mangiano beatamente e poi dormono o guardano sul proprio schermo personale uno dei tanti film offerti dalla compagnia aerea degli sceicchi arabi.

Scesi a Dubai, attendiamo un bel po’ nello sciccoso quanto gelido aeroporto che venga pronto il nuovo aereo Emirates che ci porterà in Italia seguendo un tragitto più lungo e diverso di quello percorso durante il viaggio di andata. Non posso dire molto di cosa sia successo durante quest’ultima trasferta, perché sono stato quasi sempre seduto dentro una delle tante toilette dell’aereo Emirates che, per fortuna, ho sempre trovate libere, pulite e a mia disposizione…

Scesi a Malpensa. erano le due del pomeriggio del giorno 23 ottobre. Verde in viso e debilitato al massimo, ho ritirato l’auto da uno dei tanti parcheggi, coperti e non, esistenti in vicinanza dell’aeroporto lombardo e sono tornato, con la mia signora, nella nostra casa di Milano. Prima di mettere l’auto nel garage, ho vomitato l’anima nel sotterraneo dello stabile in cui viviamo.

Questa è la cronistoria dettagliata del mio viaggio di ritorno in Italia. Ma dov’è l’effetto jet lag?

Calma, ragazzi. Adesso ci arrivo!

Appena messo piede in salotto sono crollato addormentato su una poltrona. All’ora di cena, verso le venti, mia moglie (a proposito, lei ha sofferto solo di un leggero mal di gambe per le tante ore passate seduta in aereo) mi ha svegliato per andare in tavola. Il mio stomaco ha rifiutato qualsiasi cibo. Ho bevuto un po’ d’acqua e me ne sono andato a letto a dormire, digiuno.

A dormire? Macché! Per tutta la notte, a occhi semi chiusi (o semi aperti), non ho fatto altro che voltarmi e girarmi nel letto, perseguitato dagli odori del cibo cinese impressi ormai indelebilmente nel mio naso e tormentato da incubi innescati dal fatto che in Cina, a quest’ora è giorno e, solo ieri, stavo girovagando con gli amici tra mura antiche, pagode, colline bizzarre, fiumi, laghetti e quant’altro offre di bello quel lontano paese.

Due esempi di sogni angoscianti?

In uno, stavo scappando in una foresta di bamboo (reminiscenza del vecchio e terrorizzante film Alice in Wonderland della Disney, intravisto in aereo tra una seduta e l’altra sul water) inseguito da mostri giganteschi, spaventosi, e tutti con gli occhi a mandorla; in un altro, ero fermo e sperduto in un incrocio di un’ignota città della Cina, senza soldi in tasca, senza telefono, non sapendo in quale lingua rivolgermi a un vigile per chiedere indicazioni su come tornare in albergo. In un albergo di cui non ricordavo né il nome né in quale via fosse dislocato. Rivivevo, cioè, un’evenienza realmente capitata al sottoscritto in una zona molto bella e frequentata della città di Guilin che stavamo visitando, accompagnati da una giovane quanto inesperta guida locale. Come ulteriore sofferenza, benché sepolto nel letto sotto tonnellate di coperte, non riuscivo a riscaldarmi e così, ogni due ore, dovevo alzarmi e andare in bagno a fare pipì. Bene, per avvicinarvi alla mia reale condizione fisica e mentale di questi ultimi giorni in Italia, post tour, ripetete questa descrizione per almeno otto volte…

Ecco cosa è stato per me l’effetto jet lag, tornando dalla Cina.

Oggi, mentre scrivo queste brevi note, sto piano piano ricollocando nella giusta sequenza il giorno con la notte, il raffreddamento nelle ossa è terminato, la tosse è scemata, ho ripreso a gustare il cibo (italiano) e sto ricominciando a vivere una vita “quasi” normale.

Termino dicendo ai cari amici che stanno seguendo il mio diario di bordo che i miei guai da jet lag non fanno testo. A quanto ne so, nessuno dei 16 simpatici compagni di viaggio ha sofferto come me il rientro in Italia dopo 15 bellissimi giorni passati in Cina. Anzi li ricordo tutti allegri e ciarlieri nell’aeroporto di Malpensa, disponibili fin da subito a programmare una nuova trasferta in terre lontane.

Evidentemente loro hanno un fisico bestiale e io no…   A bocca aperta 

Nicola

Crediti: L’immagine è tratta da Internet ed è opera di Pastor Cartoon.

 

Diario di Bordo

Comincio subito col dirvi che l’immagine di apertura del post odierno, volutamente retrò e poco definita, altro non è che la copertina di un quadernetto, a fogli di spessa carta avana chiara, allegato al n. 4 della (compianta) rivista a fumetti Corto Maltese dell’aprile 1985. Un’eternità fa. Dunque è spiegabile che l’originale e vivido nero dello sfondo sia parzialmente  sbiadito dagli anni che ha vissuto nella piccola ed essenziale esposizione di libri che ornano il fondo della scrivania del mio studio milanese dove passo buona parte delle giornate, operose o meno, della mia esistenza di vecchio pensionato. Prima di partire per il lungo viaggio in Cina, mi sono chiesto quale quaderno di appunti portarmi appresso per potere archiviare – di sera e scomodamente disteso sui vari lettoni disponibili nei tanti alberghi prenotati dall’agenzia di viaggi che ha curato, su indicazione di due esperti globetrotters, il tour da poco conclusosi – le mille sensazioni provate giornalmente nel visitare luoghi lontani e a me del tutto ignoti.

Perché ho scelto proprio questo quadernetto? La risposta è semplice per chi, come me, ha amato Corto Maltese, il personaggio più famoso di Hugo Pratt, che rappresenta – ancora oggi – l’icona indiscussa del viaggiatore nei luoghi più esotici del mondo e nei tempi più consoni all’avventura che, in quel momento, deve vivere. Un viaggiatore eternamente giovane che si trova, suo malgrado, coinvolto in guerre che non gli appartengono ma che è costretto a combatterle, spesso dalla parte del perdente che, di sicuro, al lettore risulterà più memorabile e simpatico del vincitore di turno.

Se seguirete questi appunti di viaggio, vi renderete conto che assomiglio poco a Corto, anzi, io sono il tipico viaggiatore stupido e incosciente ma, proprio per questo, nella mia fantasia, ho sempre preteso di immedesimarmi in Lui nell’affrontare senza davvero volerlo, con poco o nullo bagaglio culturale, viaggi che sono permessi solo a pochi fortunati.

Pagine Diaro di bordo

Ma questo è solo l’incipit. Il seguito alle prossime puntate.

Nicola

Crediti: Corto Maltese rivista mensile edita dalla Milano Libri. Le due immagini che illustrano il post sono una mia scansione.

Dal mio romanzo incompiuto Io e Agata estraggo un capitolo e, nel porlo alla vostra attenzione, vorrei segnalare due cose: primo, che Agata era una psicoanalista molto sui generis in quanto curava i suoi pazienti con l’aiuto delle piante che, a mo’ di foresta incolta, riempivano il suo studio e, secondo, che l’Io del titolo non sono io. Ma è soltanto un simpatico tipetto a cui mi sono ispirato nell’ideare questo romanzo che spero di terminare prima di passare a miglior vita.

Buona lettura!

Nicola 

shi-tzu

shih-tzu

I cinque cani e la seduta psicoanalitica

Dopo circa un anno di matrimonio, tra me e Marta era sorto un problema che non riuscivamo a risolvere con le nostre forze e che rischiava di far saltare la nostra unione. Al sesto mese di gravidanza, per colpa di un maledetto virus che aveva attaccato la placenta di Marta e aveva impedito al feto di respirare, perdemmo il nostro primo figlio maschio. Dopo l’aborto terapeutico, resosi necessario per evitarle pericolose infezioni, mia moglie, pensando di essere in qualche modo responsabile della morte del bambino, entrò in depressione e, ben presto, l’atmosfera in casa divenne cupa e invivibile.
Appena fu possibile riprendemmo a fare l’amore, sbagliando, però, approcci e metodi. Ci assoggettammo a vere e proprie maratone, avendo come unico scopo la procreazione, dunque con preliminari ridotti al minimo, cioè con divertimento e piacere completamente assenti. Facevamo sesso senza quel contorno che rende tale attività speciale per la mente e il corpo. Forse per questo arrivai al punto di odiare il momento di andare a letto per assolvere un dovere coniugale ormai ridotto a una mera ripetizione di penetrazioni. Siccome i nostri sforzi non stavano dando i frutti desiderati, Marta, accortasi della mia crescente insoddisfazione, pretese un maggiore impegno da parte mia e, di conseguenza, cominciai a sentire il peso di una situazione che tardava a sbloccarsi. Sempre più delusi e amareggiati ci recammo da diversi medici specialisti e questi, dopo averci sottoposto ai test più avanzati sulla nostra idoneità a procreare, ci assicurarono che eravamo fisicamente a posto e che dovevamo soltanto avere “pazienza”.
In queste condizioni di acuto stress psicologico, era impensabile che Marta rimanesse incinta e, dopo alcuni mesi di quella frenetica attività sessuale, il desiderio di fare l’amore con lei cessò del tutto. Mi buttai a capofitto nel lavoro, evitando in tutti i modi possibili di affrontare la questione che ci assillava. Marta interpretò il mio atteggiamento sfuggente come mancanza d’interesse nei suoi confronti e quando prese a stigmatizzare la mia appannata aspirazione di avere un figlio, tra noi sorsero dei violenti screzi. Non era vero che avessi rinunciato alla paternità, in realtà mi ero semplicemente stancato di essere considerato alla stregua di un animale da monta, diventato inetto a procreare. Arrivati assai vicini a un punto di rottura, senza avvertirmi dei suoi piani, Marta decise di rivolgersi a Agata nella speranza che lei risolvesse il nostro problema.
Prima di proseguire, a questo punto, devo aprire una breve parentesi sulla fauna di cui Agata amava circondarsi quando abitava ancora a Milano in Corso Sempione.
Forse per colpa della sua disastrosa disavventura con lo studio medico Rolli in cui aveva perso gran parte delle sue sostanze, Agata aveva deciso di abbandonare l’università, pur mancandole pochissimi esami alla laurea e, per mantenersi, aveva allestito uno studio nel suo appartamento: lì riceveva una clientela che, aiutata dal passa parola sulla sua bravura, si stava facendo via via più numerosa. In pochi anni si era risollevata finanziariamente e aveva ripreso a condurre una vita dispendiosa, spesso permettendosi acquisti di necessità assai dubbia. A un certo punto si era convinta che due gatti e cinque costosissimi shih-tzu nani, tre maschi e due femmine, avrebbero lenito le sue sofferenze di donna tradita negli affari e negli affetti da persone che credeva amiche.
Quei cinque cani giapponesi, destinati a rimanere nella dimensione di cuccioli per tutta la vita, si chiamavano Kazu, Suke e Hiko, i maschi; Hara e Kasa, le femmine. Non so come Agata facesse a riconoscerli dal momento che avevano tutti la stessa corporatura e lo stesso colore del folto manto. Per distinguerle dai maschi, sul capo delle femmine aveva legato un ciuffettino di peli con un nastrino rosa.
Non posso dire molto sui due gatti perché non amavano gli estranei e perciò vivevano sempre nascosti da qualche parte in luoghi ben protetti dell’appartamento.
Chiusa parentesi.
Un giorno di giugno del 1970, Agata invitò Marta e me a pranzo nel suo appartamento milanese per farci conoscere i suoi cani. Pur essendo di razza molto pregiata e ricercatissima in quegli anni, se devo essere sincero, trovai quelle curiose matasse di pelo in perenne movimento, decisamente odiose, tranne una.
Kazu, il più nervoso della combriccola, non smise di abbaiarmi dietro per tutto il tempo che rimasi in casa, Suke si attaccò con le gambe anteriori al mio polpaccio destro ed ebbe con questo ripetuti e soddisfacenti approcci sessuali, Hara dopo avermi annusato per qualche minuto decise che il mio odore non era di suo gradimento e se andò via disgustata. Hiko, sin dal mio ingresso in casa, mi guardò dal basso verso l’alto con scostante sufficienza come se fossi l’uomo più brutto e sgradevole della terra. In realtà non vidi davvero quello sguardo disgustato ma lo percepii intenso e discriminante dietro la lunga chioma che gli copriva completamente occhi e muso. Non fece neppure la mossa di avvicinarsi per annusarmi ma, sculettando, se ne andò a pomiciare con Hara.
A Kasa, invece, piacqui da subito. Mi venne incontro sulla porta e, con le zampette protese verso di me, diede chiari segni di volere essere presa in braccio. L’accontentai e rimase accoccolata sul mio grembo sia durante il pranzo sia dopo, nel prosieguo della visita in casa della sua padrona.
Non desiderando far sapere a Agata che il mio matrimonio era in crisi, feci di tutto per mostrami allegro e collaborativo, ma risultai ben poco credibile. Finito di pranzare, infatti, Agata disse che doveva parlarmi e, stranamente, mi fece accomodare nello studio dove riceveva i clienti,  “ordinandomi” con un tono tra il serio e il faceto di rilassarmi mentre lei e Marta sparecchiavano la tavola.
Chiusa la porta dello studio, non più intento a difendermi dagli assalti passionali di Suke e con le orecchie non più martoriate dall’abbaio insistente di Kazu, seguito solo dalla scodinzolante Kasa, mi accomodai sulla poltrona in vimini con il poggia piedi in stoffa colorata (quella destinata ai pazienti). Di colpo la tensione accumulata negli ultimi mesi si allentò e da lì a poco mi addormentai con Kasa adagiata sulla pancia. Merito dell’ottima colazione offerta da Agata, del leggero e musicale russare della bestiola e del gradevole calore del suo corpo. Merito, soprattutto, della verde foresta tropicale che imperava attorno a me e che, appena entrato nella stanza, mi aveva stordito con i suoi profumi.
Agata interruppe il mio sonno un quarto d’ora dopo per sottopormi, di sicuro dietro sollecitazione di Marta, a una serie di domande sulla mia vita privata. Senza averglielo chiesto, ero diventato un cliente con un problema da curare.
Di quella seduta psicoanalitica ricordo poco o nulla. La sonnolenza postprandiale, l’aria pregna delle essenze odorose provenienti dalle piante che incombevano fin sopra la mia testa, avevano reso il parlare pacato di Agata una melodiosa nenia per le mie orecchie.
Molto probabile che discutemmo del mio matrimonio in pericolo, della depressione di sua nipote e di come fare per superare queste difficoltà. Stranamente, pur essendo una donna di larghe vedute, non mi parlò di unguenti magici o di strane posizioni Kāma Sūtra che potessero rinfocolare la mia passione amorosa ormai spenta per Marta. Invece ricordo molto bene che, alla fine del colloquio, disse: «Seppellire una persona cara non significa dimenticarla, perciò il vostro bambino nato morto riposerà in pace solo quando avrà ricevuto una degna sepoltura “anche” nella vostra mente e, solo allora, tu e tua moglie sarete in grado di affrontare, nel modo giusto, una nuova gravidanza.»
Non so se furono queste parole a darmi la scossa benefica che da tempo desideravo, fatto sta che, uscendo dallo studio, ero in uno stato di benessere tale da considerare inezie superabilissime le tensioni che ultimamente si erano accese fra me e Marta. Ero così felice e rilassato che accettai, senza protestare troppo, di portare a passeggio lungo i marciapiedi di Milano i cinque cani di Agata. Mentre ero sulla porta, vidi Agata e mia moglie entrare nello studio. Sicuramente anche Marta stava per essere sottoposta a una seduta psicoanalitica analoga alla mia.
Uscito in strada, mi aspettava una missione quasi impossibile.
Sfido chiunque a portare in giro, senza impazzire, con un guinzaglio a più corde, cinque infernali bestiole ognuna con in testa una diversa direzione di moto. Hara e Hiko (i fidanzatini) tiravano a destra, Kazu, rinculando, continuava imperterrito ad abbaiarmi addosso, Suke e Kasa volevano andare a sinistra. Stanco di tutto quel bailamme, mi misi davanti a quel gruppo di cani indisciplinati e li trascinai di peso dove volevo io, cioè nel giardinetto a trecento metri dalla casa di Agata. Lì c’erano degli alberi a disposizione e un bel prato su cui scorrazzare e così, finalmente, potei lasciarli liberi. Per fortuna trovarono altri loro simili e per un po’ si disinteressarono di me. Aspettai che tutti facessero i loro bisogni e poi, con la stessa identica fatica dell’andata, li riportai a casa dove trovai Agata e Marta che mi aspettavano in cucina, chiacchierando allegramente.
Marta aveva il volto disteso e dagli occhi usciva un bagliore speciale come non ricordavo da mesi. In tutta evidenza anche a lei la seduta psicoanalitica aveva fatto un gran bene.
Fantastica Agata!
Con un estemporaneo colloquio a quattrocchi aveva compiuto lo stesso miracolo su due persone ormai prossime alla separazione.
Tornati a casa ci bastò un’occhiata complice, assai significativa e, senza bisogno di profferire parola, Marta e io ci spogliammo e facemmo l’amore con la stessa partecipazione e intensità di due sposini in viaggio di nozze. Non saprei dire con precisione se accadde quella notte o la seguente ma, in una o l’altra di queste due occasioni, Marta rimase incinta della nostra prima figlia.
E nei successivi anni mise al mondo altri tre bambini.

Fine

Fancazzismo

Se guardo le statistiche e i commenti che ricevo dovrei essere strafelice: nel 2013 c’è stata una straordinaria impennata del numero dei contatti, ho conosciuto tantissimi nuovi/vecchi blogger con cui scambio simpatiche impressioni sui più svariati argomenti e, tra costoro, sono convinto che potrebbero nascere vere amicizie. 

Ciò nonostante, piano piano ma inesorabilmente, è venuto meno, fino quasi ad annullarsi, il piacere di pubblicare ogni lunedì i miei pensieri, i miei racconti o le pregiate opere (in prosa o in poesia) di amici che di tanto in tanto collaborano con me. Oggi, senza volerlo, sono preda di un’insoddisfazione così forte da costringermi a chiedere: “Ha ancora senso portare avanti un’esperienza che non mi gratifica più come in passato?”

La domanda, tutt’altro che banale, ha portato alla luce diverse problematiche che vale la pena di mettere sul tavolo, in tutta sincerità, a voi che da poco o da tanto seguite il mio percorso letterario in Rete.

Fondamentalmente mi sono reso conto che preparare ogni settimana un post che sia intelligente, ironico, accattivante… e chi più ne ha più ne metta… è troppo faticoso per un fancazzista, seppur laborioso, come me. D’inverno o in autunno il tempo è così brutto che avere un impegno fisso è cosa accettabile, anzi auspicabile, per rendere meno tetre e noiose le giornate di un vecchio pensionato qual sono. In primavera e in estate è diverso: gli ottimi riscontri del blog  compensano solo in parte l’impegno intellettuale (e fisico) che occorre per condurlo con la dovuta attenzione e partecipazione. Quando le giornate sono lunghe e temperate anche uno della mia età può intraprendere mille attività diverse dallo stare tutto il giorno davanti a un computer.

Volete alcuni esempi?

Nella buona stagione posso lasciare Milano, rifugiarmi nella mia casa di campagna, inforcare la bicicletta e vagare nella bassa pianura bergamasca alla scoperta delle tante piccole località che con le loro sagre paesane ti danno la possibilità di acquistare e apprezzare quelle specialità culinarie che mai arriveranno sui banconi dei supermercati. Posso leggere i miei amati libri con la calma che occorre per essere capiti e memorizzati per più di qualche giorno. Nel silenzio e nella quiete della campagna posso rivedere le bozze del mio ultimo romanzo che da mesi e mesi giace in un cassetto. Posso chiacchierare con mia moglie di argomenti più interessanti del cosa preparare per pranzo o per cena, discutere di società e lavoro con i figli quando vengono a trovarci e si fermano per qualche giorno a dormire da noi, condividere con gli amici in visita il cazzeggio sul tutto e sul niente, sdraiati all’ombra di un vecchio abete tenendo in mano una bibita ghiacciata. Insomma, posso vivere con pregnante lentezza.

Non è la prima volta che chiudo un blog per questi motivi. 

Oggi, però, la voglia di chiudere baracca e burattini si è materializzata per altre e diversissime ragioni. Sarà stato il caldo improvviso che mi è caduto addosso dopo la più brutta e fredda primavera che io ricordi; sarà stato che sono crollate le mie speranze che l’agopuntura potesse – in poche sedute – far scomparire i dolori dalla spalla sinistra non ancora del tutto guarita dopo la rovinosa caduta dalla sedia infame; sarà stato che hanno seminato il prato della mia casa di campagna e vorrei essere lì quando spunterà il primo ciuffetto d’erba per immortalarlo in una foto; sarà che qui a Milano ogni giorno all’una meno un quarto ho da portare il cane di mia figlia a fare la cacca ai giardinetti e devo pure raccoglierla (visto che sono un cittadino diligente che ama la sua città) e questa incombenza toglie ogni poesia ai pensieri che mi frullano in testa e interrompe quel geniale flusso creativo da cui dovrebbe scaturire l’ideazione e la scrittura del post settimanale da pubblicare qui.

D’accordo, la storia del cane è una vecchia e trita battuta, la verità vera è che la mia vita di pensionato non è così interessante da potere estrarre, settimana dopo settimana, argomenti tali da essere trasformati in stuzzicanti post per i followers del mio blog. Non faccio nemmeno tanti viaggi in Italia o all’estero da poterli condividere con chi quei viaggi non li ha ancora fatti o non potrà mai farli. Dunque, sono le idee che, al momento, scarseggiano nella mia testa, e quando questo succede è meglio fermarsi o, al limite, ricominciare quando avrò delle novità da lanciare nella blogosfera.

Qualcuno di voi potrebbe obbiettare che non ho finito il reportage sulla Turchia: beh devo confessare che il riscontro ottenuto dalle prime puntate di questo mio recente viaggio è stato molto sbilanciato: ottimo da un lato, pessimo da un altro. Non mi vergogno a dirlo, ma a fronte di 900 e passa contatti (letture?) che hanno conseguito le tre parti scritte, i video allegati hanno totalizzato venti/trenta visualizzazioni ciascuno, cioè pochissime. Questo significa che potevo fare a meno di perdere tanto tempo a elaborare i filmati al computer con didascalie e musiche adeguate. La Turchia è un bellissimo paese, dunque sono stato io a non averlo saputo raccontare bene attraverso le immagini in movimento…

Infatti, una cara amica mi ha scritto in privato queste parole: “Negli ultimi filmati non sono riuscita a vedere i guizzi che hai avuto in Russia, negli Stati Uniti o in Canada. E’ come se della Turchia non te ne fosse fregato niente e l’unica cosa che ha avuto un ruolo per te era raccogliere materiale cronachistico, mentre il tuo vero sguardo era altrove.”

E’ un giudizio molto duro che  mi colpisce profondamente perché lo ritengo vero solo in parte, ma me ne faccio carico lo stesso e mi riprometto di curare di più l’esprit delle riprese nei viaggi futuri.

La mazzata psicologica più grossa, però, l’ho ricevuta leggendo l’interessante articolo della blogger/scrittrice Viola Veloce  dal titolo emblematico Narcisismo 2.0. Consiglio tutti gli amici di dargli un’occhiata. Il post è rivolto al mondo dei blogger in generale e non a me in particolare. Viola, a differenza del sottoscritto, ha il dono della brevità e non ha peli sulla lingua. Ricopio qui solo il finale, decisamente amaro, con una grande verità dentro:

Prima o poi dovremo cominciare a buttare qualcosa.
Di quello che scriviamo su di NOI.

Chi leggerà i miei post tra dieci anni? O anche solo tra dieci giorni?
NESSUNO.”

Bene, penso di avervi dato un’idea abbastanza precisa dello stato confusionale in cui mi trovo e del pessimo umore che mi ha spinto a chiedermi se è arrivato il momento di chiudere del tutto o mettere in animazione sospesa il mio blog, l’amatissimo giocattolo di questi ultimi anni:

Giocattolo

Dopo lunga e ponderata discussione con me stesso ho raggiunto questo compromesso: non pubblicherò post per tutta l’estate, ma lascerò ancora in vita il blog del Signor Giacomo. Se in questo mio lungo periodo di assenza dal Web succederanno cose degne di essere raccontate e si presenteranno nuove collaborazioni esterne da condividere con voi, ci rivedremo a settembre…

Domenicale1

 

Buon proseguimento a tutti!

Nicola

Crediti: La Settimana Enigmistica, I Pensieri e le Divagazioni del Signor Giacomo, la foto dell’orsetto sfaccendato di Jeff Fleming è di mia proprietà.