Archivio per novembre, 2011

Wikipedia dopo avere affermato che Underworld è uno dei romanzi più importanti degli ultimi decenni, vincitore di numerosi premi internazionali, lo indica come uno dei massimi esempi della letteratura postmoderna americana e ne riporta un passo fondamentale:

«La palla da baseball non portava né fortuna né sfortuna. Era un oggetto che passava di mano. Ma spingeva la gente a raccontargli cose, confidargli segreti di famiglia e storie personali inconfessabili, a singhiozzare di cuore sulla sua spalla. Perché sapevano che lui era il loro, come dire, il loro strumento di sfogo.
Le loro storie avrebbero assunto un rilievo diverso, sarebbero state assorbite da qualcosa di più vasto, il lungo viaggio della palla stessa e l’assurda marcia di Marvin nel corso dei decenni.»

E poi ne fornisce un breve riassunto:

La vicenda inizia il 3 ottobre 1951, quando un ragazzino di colore riesce ad entrare di soppiatto nello stadio (il Polo Grounds di New York) in cui si sta giocando la storica partita di baseball tra i New York Giants (oggi San Francisco Giants) e i Brooklyn Dodgers (gli attuali Los Angeles Dodgers). Nel nono inning della partita, il famoso battitore Bobby Thomson effettua un memorabile fuoricampo, dando la vittoria ai Giants (5-4 il punteggio), che conquistano così il campionato. Nella realtà non si sa che fine abbia fatto la palla colpita da Thomson, ma nel romanzo il ragazzino riesce a impadronirsi di questo cimelio, che gli verrà però sottratto dal padre, il quale lo venderà per 32 dollari e 45 cents. La palla da baseball inizia così a passare di mano in mano, e viene usata come un filo conduttore per la costruzione di un gigantesco affresco dell’America dall’inizio della Guerra Fredda fino agli anni ‘90.

A tutto questo io aggiungo:

Underworld è un tomo di ben 880 pagine, difficile da digerire al pari dell’Ulisse di Joyce e ci è voluta tutta la mia buona volontà, diluita nell’arco di tre mesi, per  arrivare fino in fondo. Per quel che mi riguarda dico che ne è valsa la pena, ma di certo non è un libro per tutti i palati. Dovrebbero leggerlo con estrema attenzione coloro che hanno velleità letterarie, per chi invece intende la lettura come svago della mente il mio consiglio spassionato è di lasciarlo perdere ma, in alternativa, dedicare un quarto d’ora del proprio tempo per farsi un’idea della bravura di Don DeLillo godendosi questo bellissimo capitolo che ho stralciato per voi dalle pagine di Underworld.

Buona Lettura!

Nicola

UnderworldDon DeLillo

Edizione Einaudi – Super ET – Euro 16,50

Capitolo Terzo  pagg. 572-580

11 gennaio, 1955

Circolavano strane storie sul Papa. Strani aneddoti, quel tipo di dicerie sotterranee che riescono ad attraversare un intero paese, di parrocchia in parrocchia. Papa Pio aveva visioni mistiche. Era questa la voce che circolava. Il Papa aveva assistito a una serie di avvenimenti soprannaturali, sotto forma di visioni nel cuore della notte. Questo era quello che raccontavano certe persone, tipo, non so, suore, vecchie signore nelle serate di novena, ma anche parrocchiani abbienti, rosei e in buona salute, membri dell’associazione dei Knights of Columbus. La gente sente una storia del genere e qualcosa si rimescola nell’anima, qualcosa spicca un balzo dalla vecchia cara cantilena della vita e costringe a una lettura completamente diversa della realtà.

In classe uno studente accennò a queste voci con padre Paulus nel corso di una discussione che sfiorò l’argomento della taumatologia, ovvero lo studio dei miracoli.

Il vecchio prete guardò fuori dalla finestra.

– Se avessi bevuto rosso scadente fino alle tre del mattino, anche tu avresti le visioni.

Più tardi, nel corso della giornata, andai a trovare padre Paulus nel suo ufficio. Dovetti percorrere trecento metri sotto una tempesta di neve. Con i lembi del berretto di lana tirati sulle orecchie, mi proteggevo con l’avambraccio alzato, dal nevischio tagliente, da tutta quella violenza fisica, la tempesta di neve e gli spazi aperti, la realtà di una distesa di terra chiamata Nord America che mi era totalmente nuova.

Il padre cominciò a parlare prima che mi togliessi il giubbotto.

– Ecco, è quando mi si irrigidiscono i peli del naso che mi viene voglia di ritirarmi nel Sud della Francia.

– La neve sulla piazza.

– Sì. Lo so.

– Le panchine sono sepolte.

– Sì, – disse lui.

– Me ne accorgo adesso, guardando fuori dalla finestra, laggiù, ho camminato su una panchina.

– Sì. Mettiti a sedere Shay e dimmi come vanno le cose. Parlami un po’ dei progressi di un giovane. Sarà il titolo di questa seduta.

– Mi sono fatto prestare un paio di stivali.

La risposta gli piacque.

– Ti vanno bene?

– No.

Meglio ancora. Quando mi interrogava sul mio stato mentale e spirituale, cosa che faceva solo raramente, se davo risposte pratiche, come facevo sempre, sembrava credere che escogitassi una risposta terra terra grazie a un istinto virile, mentre in realtà ero solo confuso, perennemente alle prese col tentativo di mettere insieme una frase accettabile.

– Cosa stai leggendo?

Snocciolai una lista di titoli.

– Capisci quello che c’è in quei libri?

– No, – dissi.

Lui sorrise di nuovo. Doveva essere stanco di ragazzi dotati. Aveva lavorato con ragazzi molto preparati e credo avesse voglia di parlare con canaglie dell’altro tipo, quelli che avevano creato problemi a se stessi e agli altri.

– Qualcosa capisco. E quello che non capisco, lo imparo a memoria.

Teneva il gomito appoggiato sulla scrivania e sorreggeva la testa con la mano piegata. Niente sorriso stavolta.

– Non è questo il motivo per cui abbiamo creato questo posto, ti pare?

– Ma io studio come un matto, padre.

– D’accordo, ma non puoi imparare a memoria le idee come fai con le desinenze latine.

Le sue mani erano piccole e prive di macchie. Alcuni degli altri gesuiti indossavano maglie di flanella e maglioni pesanti, ma padre Paulus non si lasciava influenzare dal clima o dalla geografia , né dall’atmosfera di speciale libertà che regnava al Voyageur. Lui vestiva il completo nero con il colletto ecclesiastico, cosa che rispettavo e trovavo rassicurante.

– Qui, uno dei nostri principali obiettivi è produrre uomini seri. Che razza di fenomeno è un uomo serio? Non è cosi facile da spiegare. È una persona che, alla fine, sviluppa una certa profondità, un grande spazio interiore, diciamo, sotto forma di rispetto per altri modi di pensare e di credere. Vediamo di allargare un po’ lo stretto sistema delle tubature umane e vediamo di aiutare un giovane a raggiungere una forza etica che lo renda deciso, che gli mostri precisamente chi è, Shay, e come è destinato ad affrontare il mondo.

Si aveva sempre paura di deludere il padre, di non essere all’altezza del discorso. E di essere piatti, mentre lui voleva uno scambio più vivace, fosse anche un comportamento da spaccone, insolente e menefreghista. Piatto e sgobbone, mentre lui voleva l’indipendenza e la discussione aperta.

– La mia vita, lo confesso … sì, perché no, tu sentirai la mia confessione, Shay. Chi altri potrebbe ascoltarla meglio di te? Mi ci sono voluti tutti questi anni per capire che non sono un uomo serio. Troppa ironia, troppa vanità, troppo poco di, come dire, di un sacco di cose. E nessuna rabbia, capisci. Una piccola rabbia da unghia incarnata, un’insignificante frustrazione. Alla fine arrivi a capire queste cose. Cosa bisogna fare? Agire in base ai principi? Oppure individuare ragioni che giustifichino il tuo cattivo comportamento? Questa è la mia confessione, non la tua, quindi non sei tenuto a rispondere. Non ancora, almeno. Alla fine, sì. Alla fine, in cuor tuo saprai fino a che punto hai soddisfatto l’impegno di essere un uomo.

– Nessuna rabbia, – dissi io. – Cosa intende dire?

– Nessuna rabbia. Rabbia e violenza possono essere elementi di tensione produttiva in un’anima. Possono contribuire alla pienezza della propria identità. Uno dei modi che un uomo ha a disposizione per liberarsi dalla meschinità è di dare un pugno in bocca a un altro uomo.

Dovevo averlo guardato con tanto d’occhi.

– Questo non puoi metterlo in discussione, vero? Non mi piace la violenza. Mi spaventa a morte, ma penso che possa rappresentare una forza di espansione per la personalità. E penso che la capacità di un uomo di opporsi alle proprie tendenze violente possa essere fonte di virtù, un’affermazione di carattere e tolleranza.

– Allora cosa bisogna fare? Prendere a pugni o resistere alla tentazione?

– Bene, vedo che hai capito il problema, ma io non ho la risposta. Tu sì, – disse. – Ma quanto può essere serio un uomo se non sperimenta fino in fondo gli appetiti e le passioni della sua razza, anche solo per reprimerle o usarle, in un modo o nell’altro, proficuamente?

Chi meglio di te può ascoltare la mia confessione? Aveva detto proprio questo, giusto? Uno che è stato in riformatorio. Uno che ha la risposta. Naturalmente io non avevo niente che assomigliasse a una risposta e mi chiedevo perché lui fosse convinto che possedessi una conoscenza speciale per aver fatto quello che avevo fatto.

– Ti sei mai imbattuto nella parola velleità? Possiede una bella eco tomistica. La volontà al suo livello più basso. Una piccola cosa, un desiderio, una tendenza. Se hai una volontà debole, finisci per vivere nelle pieghe più superficiali delle tue preoccupazioni. Stiamo andando a parare da qualche parte?

– È la sua confessione, padre.

L’ufficio era in una delle vecchie baracche e la forza del vento scuoteva le travi facendole scricchiolare.

– L’Aquinate diceva che solo le azioni intense rafforzano un’abitudine. Non la semplice ripetizione. L’intensità è utile alle conquiste morali. Una volontà intensa e perseverante. Questo è un elemento di serietà. La perseveranza. Questo è un elemento. Un senso di finalità. Un compito che ci assegniamo da soli. Dimmelo se sto farneticando. Ti rispetterò per questo.

Eravamo a circa trenta miglia dal confine canadese in un disordinato ammasso di baracche e altre strutture di legno, un ritorno alle origini, forse, alle radici missionarie dell’ordine – eccetto che gli indigeni in questo caso eravamo noi. Poveri ragazzi di città che davano qualche speranza; alcuni dal corpo fragile e dalla memoria fotografica, con una certa sporcizia addosso; quelli che erano intelligenti ma instabili; quelli che non riuscivano ad adattarsi; quelli il cui adattamento era stato imposto dallo stato; un gruppo di latino-americani di un centro gesuita in Venezuela, giovani svegli e intelligenti dall’aria cosmopolita, con le chiappe congelate; e alcuni ragazzi di campagna, di fattorie poco distanti, più goffi di un vestito preso a prestito.

– Talvolta penso che l’educazione che dispensiamo qui sia più adatta a un cinquantenne che ha capito di aver mancato il bersaglio al primo giro. Troppe idee astratte. Verità eterne a destra e a sinistra. Ti servirebbe di più guardarti una scarpa e nominarne le parti. A te in particolare, Shay, visto da dove vieni.

Questo parve rianimarlo. Si sporse sopra la scrivania e fissò, letteralmente, i miei stivali bagnati.

– Sono oggetti orribili, vero?

– Sì, senza dubbio.

– Nominami le parti. Coraggio. Qui non siamo così ricercati, non siamo cosi intellettualmente chic da non poter esaminare uno studente faccia a faccia.

– Nominare le parti, – dissi. – D’accordo. Stringhe.

– Stringhe. Una su ogni scarpa. Procedi.

Alzai un piede e lo girai goffamente.

– Suola e tacco.

– Sì, continua.

Posai di nuovo il piede a terra e fissai lo stivale, che mi parve inespressivo quanto uno scatolone chiuso.

– Procedi, ragazzo.

– Non c’è molto da nominare, le pare? Un davanti e un dietro.

– Un davanti e un dietro. Mi fai venir voglia di piangere.

– La parte arrotondata sul davanti.

– Sei talmente eloquente che devo fare una pausa per riavermi. Hai nominato le stringhe. Come si chiama il lembo sotto le stringhe?

– La linguetta.

– Be’?

– Il nome lo sapevo, soltanto che non l’avevo vista.

Padre Paulus fece il suo piccolo numero, buttandosi a corpo morto sulla scrivania e sussultando lievemente come se fosse in preda a una terribile angoscia.

– Non l’hai vista perché non sai guardare. E non sai guardare perché non conosci i nomi.

Tentennò il capo come per rimproverarmi aspramente, con un gesto teatrale, e si ritrasse dal piano della scrivania, lasciandosi cadere sulla sedia girevole e guardandomi di nuovo prima di fare un quarto di giro deciso e sollevare la gamba destra quel tanto che bastava perché il piede, o meglio la scarpa, trovasse una sistemazione sul bordo della scrivania, punta all’insù.

Una normalissima scarpa da prete nera.

– D’accordo, – disse. – Suola e tacco li conosciamo.

– Sì.

– E abbiamo identificato la linguetta e le stringhe.

– Sì, – dissi.

Delineò con il dito una striscia di pelle che attraversava il bordo superiore della scarpa e scendeva sotto la stringa.

– Cos’è? – chiesi io.

– Dimmelo tu. Cos’è?

– Non lo so.

– È il risvolto.

– Il risvolto.

– Il risvolto. E questa sezione rigida sopra il tacco. Questo è il rinforzo.

– Questo è il rinforzo.

– E questo pezzo a metà tra il risvolto e la striscia sopra la suola. Questo è il dorso.

– Il dorso, – ripetei.

E la striscia sopra la suola. Quello è il guardone. Ripetilo, ragazzo.

– Il guardone.

– Lo vedi, come restano nascoste le cose di tutti i giorni? Perché non sappiamo come si chiamano. E l’area frontale che copre il collo della scarpa, come si chiama?

– Non lo so.

– Non lo sai. Si chiama tomaia. Tomaia.

– Ripetilo.

Tomaia. L’area frontale che copre il collo della scarpa. Credevo di non dover imparare le cose a memoria.

– Sono le idee, che non devi imparare a memoria. E non prenderci troppo sul serio quando arricciamo il naso di fronte all’apprendimento a memoria. La ripetizione a memoria aiuta a costruire l’uomo. E la stringa la fai passare attraverso che cosa?

– Questo dovrei saperlo.

– Certo che lo sai. I buchi su entrambi i lati e sopra la linguetta.

– Non mi viene in mente la parola. Occhiello.

– Forse ti lascerò vivere, dopotutto.

– Gli occhielli.

– Sì. E il rivestimento metallico su ciascuna estremità della stringa.

Diede un colpetto all’oggetto in questione con il dito medio.

– Questo non lo saprei neanche tra un milione d’anni.

– L’aghetto.

– Neanche tra un milione d’anni.

– Il puntale o aghetto.

– L’aghetto, – ripetei.

– E il piccolo anello di metallo che rinforza il bordo dell’occhiello attraverso cui passa l’aghetto. Stiamo facendo la fisica del linguaggio, Shay.

– L’anellino.

– Lo vedi?

– Sì.

– Questa è la guarnizione, – disse.

– Oddio, ragazzi!

– La guarnizione. Imparala, conoscila e amala.

– Sto andando fuori di testa.

– Questa è la conoscenza arcana definitiva. E quando porto la scarpa dal calzolaio e lui la mette su una forma per fare le riparazioni, un blocco di legno a forma di piede. Come si chiama?

– Non lo so.

– Si chiama semplicemente forma da scarpa.

– Mi si sta spaccando la testa.

– Le cose di ogni giorno rappresentano la conoscenza più trascurata. Questi nomi sono vitali per il tuo progresso. Cose quotidiane. Se non fossero importanti, non useremmo una parola così splendida di derivazione latina. Ripetila, – mi intimò.

– Quotidiano.

– Una parola straordinaria che suggerisce la profondità e la portata del luogo comune.

II colletto bianco pendeva allentato sotto il pomo d’Adamo e la pelle sulla gola stava diventando floscia e fibrosa, e sembrava coglierlo impreparato, la vecchiaia, che arrivava in ritardo ma in fretta.

Mi misi il giubbotto.

– Voglio darti un libro, – disse padre Paulus.

Le sue mani però erano ancora giovani, di un morbido rosa infantile. In un angolo del tavolo c’era una scacchiera, con i pezzi schierati in bell’ordine sui due lati.

– Vieni a Upper Red domani e vedrò di trovartelo.

Upper Red era la residenza del corpo insegnanti. Al Voyageur gli edifici portavano il nome di località famose – laghi, città, fiumi, foreste. Non venivano battezzati col nome di santi, teologi o martiri gesuiti. I gesuiti, secondo Paulus, erano stati trattati così brutalmente in tanti posti per i loro tentativi di convertire e trasformare – decapitati in Giappone, sventrati nel Corno d’Africa, mangiati vivi in Nord America, crocefissi in Siam, sventrati e squartati in Inghilterra, gettati nell’oceano al largo del Madagascar – che i fondatori del nostro piccolo college sperimentale avevano pensato di risparmiare al paesaggio alcuni degli emblemi più sanguinosi della storia dell’ordine.

– A proposito, Shay.

– Sì, – dissi.

– È possibile che ieri ti abbia visto insieme a quel gruppetto che firmava una petizione a favore del senatore McCarthy?

– Sì, c’ero anch’io, padre.

– A firmare la petizione.

– Sembrava okay, – dissi.

Lui annuì, guardando un punto sopra la mia testa. – Lo sai perché il senato lo ha condannato?

– Non lo so, ma gli altri stavano firmando, – dissi. – Alcuni dei sudamericani, – dissi con un filo di disperazione, sapendo quanto doveva sembrare stupida una risposta del genere, ma pensando che fosse comunque un modo per giustificarmi.

– Così hai firmato anche tu. Gli altri stavano cagando, padre.

Quindi ho cagato anch’io.

Mi oltrepassò con lo sguardo, facendo un ragionevole cenno d’assenso, e io mi girai per andarmene.

Per un po’ camminai avanti e indietro attraversando la piazza nella tempesta di neve. Poi tornai nella mia stanza e mi liberai del giubbotto. Volevo cercare le parole sul dizionario. Mi tolsi gli stivali e lanciai il berretto sul lavandino. Volevo cercare le parole. Volevo cercare velleità e quotidiano e impararle a memoria, queste stronze di parole, una volta per sempre, impararne l’ortografia, la pronuncia, ripeterle ad alta voce, sillaba per sillaba – vocalizzare, produrre suoni vocali, emettere suoni, pronunciare le parole per quello che valevano.

Questo è l’unico modo al mondo di sfuggire alle cose che hanno fatto di te quello che sei.

Fine

OUA2BE~1 a chi è arrivato fino in fondo!

Libero mercato al Mugello

mugello

Scoperte esistenziali

Bere acqua

Ho scoperto che bevendo una certa acqua si diventa puliti dentro e belli fuori. Allora ho bevuto dodici litri di quell’acqua lì, sono diventato bellissimo, sono uscito con una ragazza bellissima… e mi sono pisciato addosso tutta la sera (Fabrizio Canciani)

C’è crisi

Crisi-economica

Da quando è entrato in vigore l’euro c’è talmente tanta crisi che la mafia ha dovuto licenziare tre politici. (Stefano Bellani)

Invenzioni

Forchetta e cucchiaio

Il 3 agosto 1664 Luigi XIV utilizzò per la prima volta la forchetta. Prima di quel giorno mangiava, come tutti, la minestra con il cucchiaio. (Cavanna)

Cani

rottweiler

A casa ho un enorme rottweiler. Non ho nessun problema con i ladri, ma è un anno e mezzo che non ricevo posta. (Peter Sasso)

Ricordi di bambino – 1

ragazzino1

La mia famiglia era così povera che ogni Natale mio padre usciva di casa e sparava qualche colpo di pistola. Poi rientrava e a noi bambini diceva che Babbo Natale si era suicidato. (Jake La Motta)

Ricordi di bambino – 2

ragazzino

La mia mamma cucinava così male che, quando portavo a casa buoni voti da scuola, mio padre, come premio, mi mandava a letto senza cena. (Boris Makaresko)

Lo sfigato

Sfigato

Ho sempre con me dei preservativi. Ogni tanto li spolvero. (Franco Merafino)

Al confessionale.

confessionale

– Padre sono gay…

– Osservante o praticante? (Albert)

Regole ecclesiastiche

Prete

Noi preti non possiamo andare a donne. Facciamo una telefonata e vengono loro da noi. (Mario Zucca)

Notizie

Bisbigliare all'orecchio

– Non so come dirtelo… ma ieri sera ho visto tua sorella che prendeva 50 euro da uno sconosciuto…

– Cosa vuoi, le prime volte non puoi chiedere di più. (Giampiero Casoni)

E’ scritto nei libri

professore

È naturale che le prostitute abbiano figli. Da dove credi che provengano i vigili urbani? (Dave Dutton)

Deduzioni – 1

Uomo in bici

È moltissimo che non faccio sesso, ma mi hanno detto che è come andare in bici, una volta imparato non si dimentica. Così ho preso la bici e sono andato a puttane. (Daniele Raco)

Deduzioni – 2

Girare il mondo

Mi piace conoscere popoli stranieri, capire nuove culture, imparare nuove lingue, ma non ho tempo per viaggiare. Quindi vado a puttane. (Dado Tedeschi)

Deduzioni – 3

Psicanalisi

La psicanalisi è un mito tenuto in vita dall’industria dei divani. (Woody Allen)

Agenti letterari

Agente Letterario

Sono avvilito perché il mio romanzo Fiero emetico ha ricevuto fredde accoglienze dalla critica. L’unica recensione favorevole, sul Times, però è viziata dalla frase finale che definisce il libro “un miasmatico marasma di asinini luoghi comuni che non trova eguali nella letteratura occidentale”. Willie, il mio agente, mi dice che, non essendo quella frase facilmente interpretabile, è opportuno non servirsene a scopo pubblicitario. (Woody Allen)

Pubblicità Progresso

Pubblicità Progresso

Usate “Fai la cacca Beghelli”. Se ti scappa e non te ne accorgi, si mette a suonare.

Praticamente ti manda a cagare! (Nicola Pezzoli)

Legge di Peter sulla sostituzione

Leggi di murphy

Preoccupati delle pagliuzze e le travi si arrangeranno da sole. (Leggi di Murphy)

Definizioni verbali

Vocabolario

Abbattere:

Classica risposta di una prostituta a cui chiedono "Dove stai andando?" (Vocabolario alternativo)

Arrivederci alla prossima!

Nicola

Il cane neroclip_image004

   Editore Ponte alle Grazie – 16 Euro                   Rebecca Hunt

Come ho scritto nel post della settimana scorsa, dalla biblioteca comunale avevo preso in prestito, oltre a “Il lamento del bradipo” di Sam Savage, il romanzo “Il cane nero” della scrittrice inglese esordiente Rebecca Hunt e vi avevo promesso che, se ne fosse valsa la pena, ve ne avrei parlato.

Dunque, dopo aver finito rapidamente questo strano romanzo, ero molto in dubbio se spendere il mio tempo (che qualcuno asserisce essere assai poco prezioso) per scriverne una recensione e costringere i miei quattro lettori a leggere un post la cui conclusione è, grossomodo, questa: “Il cane nero” lo consiglio a quei pochi (o tanti) che amano i libri che disquisiscono di psicologia e in cui gli animali parlano e interagiscono con gli umani.

Oddio, non è che il libro in questione sia una bufala o sia scritto male (ripeto, la Hunt è un’esordiente, quindi, tanto di cappello!) tutt’altro, il problema sta nel fatto che l’autrice racconta delle cose che tutti più o meno conosciamo e per dirle c’impiega 256 pagine, per fortuna utilizzando caratteri grandi e un’apprezzabile verve surreale.

Il suo scopo era quello di narrare una storia attinente alla “depressione”, malattia che colpisce gran parte del genere umano maschile e femminile, usando, come enunciato nella quarta di copertina, un linguaggio arguto e vivace, sfrontato, originale e divertentissimo.

Questo giudizio de “Il Guardian” è vero solo nei primi tre aggettivi: arguto, vivace, originale. Tutti gli altri sono esagerati, perché il romanzo della Hunt è tutto fuorché sfrontato e divertentissimo.

È arguto come sanno esserlo gli inglesi dotati di fine humour.

È vivace perché la prosa utilizzata permette una lettura veloce.

È originale nell’uso delle descrizioni dell’ambiente (La luce disegnava un paio di calzoncini da tennis sulla parete della stanza) e perché uno dei protagonisti del romanzo è Winston Churchill, il famoso statista inglese raccontato nel momento del suo pensionamento.

Sfrontato, non capisco dove e perché, non essendoci alcuna scena di sesso né hard né soft.

Divertentissimo, direi assolutamente no. Anzi, per tutte le 256 pagine si respira un’atmosfera appesantita da tragedie pregresse e probabilmente anche incombenti che si sveleranno solo nelle ultime pagine.

Brava, è giusto sottolinearlo, è stata Rebecca Hunt a concludere il libro in modo positivo, cioè facendo capire che con la depressione si può convivere anche tutta la vita senza arrivare al suicidio e che i più fortunati possono persino vincerla.

Come ho detto nel mio precedente post, la scelta di leggere “Il cane nero” l’avevo fatta perché anch’io, anni fa, avevo scritto un racconto con lo stesso titolo, racconto che trovate in questo blog. Nella mia operetta il cane nero non è un animale parlante, ma qualcosa di reale, fisico, che abbaia agli sconosciuti, un essere che se morde fa danni immediati e visibili e con cui, a volte, ci si scontra in battaglie epiche ma che, alla fine della guerra, diventa un amico insostituibile.

Il cane nero (cane=fedeltà, nero=aggressività) nella rappresentazione letteraria che ne ha dato Rebecca Hunt, è la terribile metafora di una malattia psicologica che nessuno vorrebbe avere e che è difficilissima, se non impossibile, da vincere.

Ecco, credo di avervi dato tutti gli spunti per decidere da soli se affrontare o meno questo romanzo.

Personalmente vi consiglio di più il mio omonimo racconto: si legge in dieci minuti e non costa nulla…

Nicola

 

clip_image001clip_image003

                        Sam Savage                    Einaudi Stile Libero 17,50 Euro

L’altra settimana mi sono recato nella biblioteca comunale vicino casa per restituire due libri che avevo preso in prestito qualche tempo fa. Mentre l’impiegato, gentilissimo, si apprestava a compiere al computer le operazioni di ripresa in carico di quei due volumi, mi sono immerso tra gli scaffali della libreria per cercare un altro paio di romanzi che potessero interessarmi.

Posso essere sincero?

Trovare in questo modo dei libri, cioè senza avere scelto in precedenza almeno l’autore o l’argomento, è un modo di agire del tutto assurdo e spesso si rivela una perdita di tempo. Essendo tutti i libri disposti in costa negli scaffali e quindi non potendo essere attratto dall’immagine di copertina (è lei che mi colpisce in primis) la sola cosa che posso fare è scorrere con l’occhio il nome degli autori sul dorso delle pile di volumi e leggerne le diverse intestazioni. Una volta individuato un nome conosciuto, lascio che ad attrarmi sia il titolo dell’opera. Confesso che quel giorno di intriganti ne ho individuati ben pochi. Dunque, dopo un quarto d’ora, mi sono annoiato e stavo quasi per andarmene via, rinunciando così al vantaggio di potere avere gratis a casa due romanzi da leggere.

Non appena decido di dare un taglio a quell’operazione di ricerca rivelatasi monotona e inconcludente, succede che l’occhio mi cade su due volumi, non distanti tra loro, che mi attirano. Il primo ha codice Hunt, numero N-823 e titolo “Il cane nero”; l’altro ha codice SAVA, numero N-813 e titolo “Il lamento del bradipo”.

La scelta del primo libro è stata ovvia: il titolo è identico a quello di un mio scritto che ho presentato qualche tempo fa proprio in questo blog e che qualcuno (mi auguro) ha già letto. Il cane nero è il romanzo di esordio di Rebecca Hunt, una signora inglese laureata in belle arti. Spero che sia interessante come il mio omonimo raccontino… ahem clip_image004 e che v’invito a leggere, se non lo avete già fatto.

Il secondo libro ha davvero un bel titolo: “Il lamento del bradipo” ed è, come ho scoperto nella terza di copertina, di Sam Savage, un misterioso e anzianotto scrittore americano, nato nel ’40 (dunque due anni prima di me, il ché mi lascia ancora qualche speranza di vedere stampato su carta qualcosa di mio…) e che ha pubblicato, sempre da Einaudi,“Firmino”, un romanzo che nel 2007 ha avuto un enorme successo sia all’estero sia in Italia e che piacque tantissimo anche a me.

A leggere “Il lamento del bradipo” ci ho impiegato pochi giorni e mi ha abbastanza soddisfatto. Sono andato a vedere su Internet le recensioni e i commenti di chi lo ha letto per controllare se il mio giudizio era condiviso da altri. Concordo col dire che questo romanzo è inferiore a “Firmino”, ma io che vivo sulla mia pelle gioie e dolori, vittorie e sconfitte, alti e bassi, tipici degli scrittori che cercano, senza riuscirci, di farsi apprezzare (e pubblicare) da una casa editrice importante, ho sorriso (a volte amaramente) leggendo e partecipando con umana comprensione a quanto Andrew Whittaker, il protagonista della storia, scrive nelle lettere accorate, divertenti, sarcastiche, lagnose, provocatorie, che invia alla ex moglie, ad amici veri o presunti, al direttore di “Arte e Letteratura” una rivista di successo, concorrente di “Bolle”, fanzine letteraria di cui lui stesso è unico redattore ed editore, ai poeti e scrittori che gli inviano opere penose che lui è costretto a rifiutare, agli inquilini che ogni volta inventano una scusa nuova per non pagare l’affitto dei fatiscenti appartamenti di cui è proprietario.

Il romanzo è l’epistolario, a volte feroce fino all’inverosimile, di un uomo che man mano si riduce a vivere come un bradipo, cioè con la lentezza esasperante di un animale asociale per natura, brutto da vedere e perennemente stanco. Consiglio questo libro solo a chi ha sense of humour, non soffre di solitudine e sa, almeno per sentito dire, quanto sia crudele il mondo letterario e quanto grandi siano le invidie che nascono fra autori che, non essendo stati baciati dalla fama, vivono malamente la loro condizione di emarginati dalle élite culturali imperanti.

Alcune lettere sono esilaranti, altre perdutamente tristi, tutte, comunque, espressioni di un carattere pretenzioso ma indeciso a tutto, furbesco ma, allo stesso tempo, sprovveduto. Andrew Whittaker è un perdigiorno nevrotico e puntiglioso nel controbattere le voci malefiche che girano sulla sua persona e sui comportamenti da lui tenuti nelle riunioni letterarie gestite dall’odiata rivista concorrente.

Tra queste lettere ve ne segnalo un paio, brevi, indirizzate a degli autori che sperano di essere pubblicati sulla rivista “Bolle” da lui creata, diretta e stampata.

Gentile Signora Lessep,

Le siamo grati per averci dato nuovamente la possibilità di leggere “Scarpette di vischio”. Dopo attenta riflessione, siamo spiacenti di comunicarLe che il Suo lavoro continua a non rientrare nella nostra linea editoriale. Ci dispiace che la frase “al momento non rientra nella nostra linea editoriale” l’abbia indotta a sottoporcelo di nuovo. Nel mondo dell’editoria “al momento” in realtà significa “per sempre”.

Andrew Whittaker, Caporedattore di Bolle

Caro Dalberg,

ho rifiutato l’ultimo racconto che mi hai spedito per i suoi scarsi meriti, e il fatto che tu sia canadese non ha niente a che vedere col mio giudizio, ma se ti fa sentire meglio continua pure a crederlo.

Andrew

Termino qui.

Per quanto riguarda il romanzo “Il cane nero”, l’altro libro che ho preso in prestito dalla biblioteca comunale, non posso dire nulla, non avendolo ancora letto. Ve ne parlerò soltanto se ne varrà la pena.

Nicola

Striscia

· Una volta dissi a mio padre che mi sentivo solo. Lui mi guardò e mi disse: «Ma tu chi sei?»

· Mamma mi odiava. Quand’ero bambino una volta disse a papà:«Il pupo ha fatto la cacca, bisogna cambiarlo!» E lui: «Esagerata! Basta pulirlo…»

· Per farmi addormentare il mio papà mi gettava in aria. Purtroppo non era mai lì quando tornavo giù.

· Quand’ero piccolo mia nonna mi portò a mangiare in una trattoria all’aperto. Cominciò a piovere. Ci misi tre ore a finire il brodo.

· Un giorno sono stato in una spiaggia di nudisti e mi hanno detto di parcheggiare nell’area handicap.

· Non è che ho paura di morire. È che non vorrei essere lì quando questo succede.

· Chiunque abbia detto: «L’importante non è vincere ma partecipare…» probabilmente aveva perso.

· Io sono un signor nessuno, ma nessuno è perfetto. Dunque io sono perfetto. Allora mi spiega perché sto qui disteso sul suo lettino?

· Anche il mio analista mi odia. Ho capito che mi considera uno sfigato senza speranza perché, dopo che per un’ora gli ho parlato, a cuore aperto, dei miei problemi, ha sentenziato: « Sono convinto che se lei si sdraia in un pagliaio si buca il culo con un ago…»

Ma anche al Signor Giacomo, che ha velleità di scrittore, le cose non vanno meglio:

Cattiveria

Prima di salutarci vi consiglio di ascoltare questa allegra canzoncina: mette addosso la voglia di ballare. Così, tra un sorriso e una danza, oggi ci passa la malinconia…

Brano cantato da Io, Carlo ed estratto dall’album “In perenne riserva”

Alla prossima!

Nicola